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ОглавлениеSCALA E CRISTALLO
ALESSANDRA GROSSO
INTRODUZIONE
Benvenuti. Questa è una semplice raccolta di incubi, non
ha grandi pretese se non farvi entrare nelle pieghe della mia
mente. Credo che tutti noi abbiamo avuto degli incubi, sia a
occhi aperti sia a occhi chiusi; be’, io sono una super
specialista degli incubi a occhi chiusi.
Gli incubi a occhi chiusi sono la mia personale
maledizione: li ho da sempre, sin da piccola, e non ho mai
capito il motivo. La mia infanzia è sempre stata legata alla
paura che qualcosa di catastrofico stesse per succedere, a me
o alle persone che amavo. Avevo spesso sensazioni tipo
quell’aria fredda che ti provoca il brivido dietro il collo,
quella mano viscida e gelida che ti tocca la schiena e ti fa
trasalire, sbigottita; molto spesso vedevo tutto nero e in
seguito a ciò dovevo andare a dormire. Appena entravo nella
cameretta avevo paura di quello che sarebbe stato chiudendo
gli occhi.
Durante l’adolescenza le cose non sono migliorate: sognavo
e mi svegliavo tremante e sudata. Dopo una nottata così dovevo
come tutti affrontare la vita, ma ero piena di dubbi sul
futuro, e ogni volta che avevo una scelta da fare gli incubi
peggioravano. La mia vita diventava un inferno, mi chiudevo in
me stessa e mi chiedevo sempre a che punto fossi, dove fossi e
dove volessi andare.
Con il tempo ho imparato a scrivere i miei sogni per
cercare di capirli, mentre su un altro foglio scrivo i miei
desideri per vedere se si avverano. Quest’ultima idea mi ha
aiutato in più di un’occasione a fare chiarezza, ma ora
torniamo agli incubi.
Ho pensato di raccontarvi tutti i miei incubi romanzandoli
e legandoli uno dietro l’altro per regalarvi la collezione di
tutti i brividi agghiaccianti che ho provato.
Scusate per il gelido regalo, ma la mia mente è un posto
freddo e disordinato. È la mente di una donna, di una
combattente che ha affrontato il male a viso aperto e che ha
deciso di parlare.
Le mie parole possono ogni tanto urtare gli animi più
suscettibili, ma non sono né mi sento in alcun modo migliore
di nessuno di voi. Voi vedete il mondo attraverso i vostri
filtri e la vostra sensibilità; io invece uso la mia. Cerco di
usare il terzo occhio per creare una visione di un futuro più
fertile e proficuo, dopo tutte le avventure che ho passato
nella vita. Provo a vedere un futuro pieno di sogni, di studi
e di viaggi… Vi ricordo che i sogni sono desideri; ora
torniamo però agli incubi.
Siccome gli incubi a occhi chiusi sono la mia specialità
da sempre, i motivi di questo fenomeno sono molteplici… e
forse il più importante è questo: ho pazienza ma sono anche
una persona emotiva e sensibile; nel corso della vita ho avuto
le tante schegge nei piedi e i miei periodi bui.
Ho sempre però cercato la luce per illustrare questa parte
della mia vita, e adesso vi metterò al corrente della mia
poesia preferita: La scala di cristallo.
LA SCALA DI CRISTALLO
Figliolo, ti dirò una cosa:
la vita per me non è stata una lunga scala di cristallo.
Ha avuto chiodi,
e schegge,
e tavole sconnesse,
e tratti senza tappeto:
nudi.
Ma sempre
continuavo a salire,
raggiungendo un pianerottolo,
svoltavo un angolo,
e certe volte entravo nel buio
dove non c’era la luce.
Perciò, figliolo, non tornare indietro.
Non fermarti sugli scalini
perché ti è faticoso andare.
Non cadere, adesso:
perché io continuo ancora, amore,
ancora mi arrampico,
la vita per me non è stata una scala di cristallo.
LA MISSIONE (PROLOGO)
La missione della nostra eroina è di preservare la sua
vita e di trovare il suo equilibrio e la sua libertà e
indipendenza dopo aver affrontato tutti i suoi mostri, che
sono tanti.
Tanti sono gli ostacoli interni ed esterni che ho dovuto
affrontare, che si sono materializzati e smaterializzati nei
miei incubi, ma ho sempre cercato la luce, come potete vedere
nella poesia La scala di cristallo.
La scala di cristallo rappresenta il periodo di confusione
che sto attraversando e la voglia di realizzarmi.
Nel libro si vedrà prima un’eroina molto timida che scappa
di continuo davanti ai propri mostri; poi inizia a combattere,
sebbene, a volte, quando la situazione è ancora pericolosa,
scappi. Alla fine di un complicato processo interiore, si
vedrà una prevalenza di combattimenti rispetto alla fuga.
In questi passaggi parlo di un’evoluzione personale dalla
fuga all’attacco, ma tutto questo avviene per preservarmi o
per tutelare quello che ritengo giusto.
Nel libro verrò aiutata da alcuni e ostacolata da altri,
ma adesso vi lascio leggere.
Buona lettura.
PARTE 1
Sognatori…
“Solo chi sogna può spostare le montagne…” citazione dal
film Fitzcarraldo
CAPITOLO 1
“Punta sempre alla luna, mal che vada avrai vagabondato
tra le stelle”. (Les Brown)
LA FUGA
“La vita è una lunga lezione di umiltà”. (James Matthew
Stavo correndo sulle scale per prendere la chiave che ci
avrebbe finalmente liberati. Sapevo istintivamente che erano
cinquantacinque scalini a salire e altri cinquantacinque a
scendere. Dietro di me si chiudevano le porte, i cancelli e
grate antichissime; tutto era buio e disperazione.
Paura e ansia i sentimenti, respiro corto e affannato,
pareti che dal giallo al bianco panna diventavano sempre più
sfumate… stavo entrando nell’inferno ma non potevo
rallentare. Nella mia corsa la chiave di uscita da quel posto
era tutto: era la salvezza!
Arrivata all’ultimo scalino scattai verso la stanza dove
c’era la chiave. Essa era il simbolo della liberazione, era il
nostro liberarci dalle tenebre… ma sapevo che il mostro con
gli artigli l’avrebbe difesa: non sarebbe stato semplice.
Affrontare il mostro richiedeva forza. Era stato un uomo
nella vita precedente, un uomo forte, pedofilo e di potere.
Potevo solo scattare sulla destra e attaccare con l’unica
sedia di legno che avevo trovato, una sedia contro un mostro
che era stato un mito in vita… Una vita fatta di eccessi,
bevute fino all’alba, cocaina, donne, milioni di donne,
pedofilia, finché non fu orrendamente arso vivo.
Ero sempre stata sensibile in vita e avevo capito,
percepito le debolezze del mostro, e d’improvviso attaccai:
con una finta di lato gli fracassai la sedia in testa. La
sedia si ruppe e in mano mi rimasero due monconi. Agitata, li
infilzai con rabbia nel torace e nel collo del mostro.
Ora l’orrenda figura bruciata era a terra. Potevo solo
tentare di dargli fuoco. Lo avrebbe rallentato: ne aveva la
fobia… l’orrendo mostro aveva la fobia del fuoco che avrebbe
spazzato via l’invidia che aveva nutrito durante la sua vita,
un’indivia feroce nei confronti della bellezza e
dell’innocenza – infatti era stato psicopatico e manipolativo.
Io ero quasi certa di questa sua fobia, ma dovevo pur
difendermi e renderlo inoffensivo.
Durante la vita aveva capito che l’invidia e la gelosia
erano mal viste, così le mascherava dietro una corazza fatta
di charme e intellettualismo, ma oscuri e aspri erano i suoi
pensieri; si dice infatti “gran brutta cosa è la fame”. Per me
l’invidia è peggio, e nella storia ha originato guerre, risse,
conflitti e infiniti lutti.
Trovai il mio accendino dei bei tempi, lo chiamavo lo
“Zippo dei miei sedici anni”, quando fumacchiavo di nascosto.
Mi mossi velocemente e lanciai lo Zippo, poi vidi la chiave,
la presi e corsi verso le scale.
Cinquantacinque scalini.
Ero giovane, e li percorsi volando.
Sentivo dolore al ginocchio ma perseveravo. Pensavo che
ogni scalino fosse la vita, li contavo e li ricontavo.
Raggiunta la cima, svoltai infine dietro la ringhiera che
proteggeva le scale e rapidamente consegnai la chiave ai
compagni trovati lì che cercavano la luce, ma anche a chi
voleva andare nella direzione opposta e avventurarsi per gli
abissi.
La chiave girò, ma nel mentre sentii che il mostro si
stava riprendendo e si stava avvicinando: voleva ripercorrere
la scala.
Noi volevamo uscire di lì e scappare verso la luce… luce
che cercavo da sempre, ma intanto avevo sempre davanti le
intricate sbarre del cancello dipinte di bianco che mi
ricordavano la purezza e ancora una volta la luce.
Le sbarre erano robuste e fitte e il mostro sarebbe
rimasto lontano da loro perché la luce mi proteggeva… ma che
cosa poteva mai essere questo elemento protettivo?
La luce? Cos’è mai la luce? Dio? Luce come Lucifero? Eh,
sono domande, sono domande… ma la risposta?
Continuavo a cercarla, e dopo essere scappata dal mostro
della cantina mi avventurai in una chiesa oscura.
Il mostro aveva bestemmiato, infuriato, con la sua voce
gutturale e spaventosa; aveva imprecato, ma le sbarre erano
state chiuse, tutti erano scappati e la chiave era ora
disponibile per chi volesse morire o andare a ucciderlo
definitivamente. Io più di così non potevo fare.
Non capivo cosa ci fosse di strano nella vecchia chiesa
oscura, ma improvvisamente mi trovai da sola e al buio, in
quella chiesa polverosa e coi muri scalcinati e scarni.
Mi avventurai lungo la cella che credo fosse la navata di
destra e vidi uno strano inginocchiatoio con una statua.
Strana statua, pensai. Cosa avrà mai…
Era piena di sangue.
Un brivido e poi una voce.
«NON esiste una sola Morte!».
La morte sarà veramente la fine di tutto o andremo nel
passato? O nel futuro? O svaniremo lentamente in una nuvola di
fumo? Un passato vicino o lontano o una dimensione parallela?
Mi chiedevo ciò mentre mi ritrovavo fuori dalla chiesa
misteriosa a vagare in mezzo alle felci. Felci giganti,
maestose, dalle foglie lucide che avevano odore di selvaggio e
mi ricordavano la mia infanzia vicino al lago nella vecchia
casa di campagna. Quella casa di campagna era vicina, ma io
ero curiosa e volevo oltrepassare la distesa di felci, in un
atteggiamento di ricerca e perlustrazione tipico della prima
pubertà. La mia giovinezza mi diceva infatti “esplora”, la mia
saggezza “pensa”, il mio cuore “prova”. Andavo avanti seguendo
la mia natura avventurosa… e anche in quel momento lo stavo
facendo, come tipico del mio carattere.
Scovai una scena del passato, una lotta feroce tra
tirannosauri, e scappai. Prima della fuga, posso testimoniare
di aver visto i denti aguzzi dei due animali e il loro
atteggiamento che da sfida si trasformava in attacco vero e
proprio. Con i loro corpi mastodontici e muscolosi si
scontravano, distruggendo tutto ciò che travolgevano. Avevano
abbattuto alberi e distrutto le mie amate felci, in una lotta
tipica del periodo riproduttivo.
Correndo, caddi su delle pietre che ruzzolavano le une
sulle altre. Il rumore attirò i sensibilissimi bestioni, che
si voltarono e iniziarono la caccia.
Sentivano ogni odore e percepivano la paura, come molte
fiere selvagge.
Scappai disperata, il respiro che si faceva pesante. La
milza pungeva, affaticata, ma non potevo permettermi di
fermarmi: doveva esserci una via di uscita. E alcune volte
essa è più spaventosa delle cose da cui stiamo scappando. La
via di uscita era un oscuro vicolo che si prolungava in un
cunicolo crepato e buio inserito in una cavità.
Dovevo affrontare la claustrofobia.
Con un ultimo colpo di reni mi ci infilai. Fuori, le
gigantesche belve ruggivano livide di rabbia, poiché non
vedevano più la loro preda.
Strisciai per un sacco di tempo, l’aria stantia,
puzzolente e odiosa da respirare. Temevo ragni e topi… avevo
sempre odiato i ragni e i topi. Specialmente questi ultimi mi
terrorizzavano: da piccola ero andata nel pollaio e avevo
visto un enorme topo intento a rubare le uova a una gallina.
Ma ero piccola, ora invece ero una donna ed era tempo di
lottare per la vita.
Lottare per sopravvivere o scappare se l’avversario era
più grosso: questo era il meccanismo alla base della
sopravvivenza umana. Lo era sempre stato, e io continuavo a
usarlo, per me stessa, per la sopravvivenza della specie
umana, per l’umanità tutta.
L’umanità non era stata così al centro dei miei pensieri.
Prima di tutte queste avventure ero stata una nerd; un tipo
difficile, chiuso, sempre vestita di nero e parecchio
depressa, con addirittura pensieri suicidi. Tuttavia ora era
tempo di lottare e uscire dal tunnel.
Strisciavo, mi graffiavo e cercavo di andare avanti.
Quando sgusciai fuori era notte, una notte terrificante
quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente
e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un
ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli
dell’animale con inquietanti sfumature rosse.
E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a
me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone
naturale.
Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,
pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la
vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni
eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri
strani sogni.
I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei
desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che
accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto
verso un amico amato che non mi aveva capito come essere
umano.
Avevo sognato questa negazione di aiuto, ma con la mia
natura testarda e coraggiosa ero andata contro quello che
avevo percepito, e avevo continuato. Avevo sbattuto la porta
perché non avevo ascoltato la mia naturale e sensibile voce
interiore. L’avvertivo fin dalla tenera infanzia, ma ne avevo
preso coscienza da poco, solo da adesso che scappavo dai
mostri o li combattevo.
Presi a camminare per una valle che si inerpicava, foglie
di quercia rossa ovunque. Era autunno, le foglie si staccavano
dagli alberi, profumo di pioggia appena caduta, di muschio
selvaggio.
Vicino a me un ambiente ovattato, dove finalmente potevo
accendere un fuoco per riscaldarmi. Fortunatamente nella sacca
avevo ancora la mia riserva di carne essiccata; preparai il
fuoco e mi misi comodamente a campeggiare. Poi mi coricai a
pesare la notte.
La notte fu lunga e sognai di viaggiare per i mari su
goffi battelli.
Al risveglio, la brina e poi gocce di rugiada. Doveva
essere metà settembre e le foglie avevano creato uno strato di
diversi centimetri dove i miei stivali sprofondavano.
Erano stivali femminili, comodi, e avevano l’eleganza dei
vecchi stivali da cowboy. Il loro pensiero attenuava le
riflessioni sulla solitudine, la puntura fredda e profonda
della nostalgia e i pensieri intimi e tristi. Era proprio
questa intimità che sentivo nel profondo di quella strana
foresta di quercia rossa, dove le foglie cadevano ed erano
rosso sangue.
Tuttavia mi sentivo seguita, spiata.
Questa sensazione di essere spiata, la percezione che
qualcosa di oscuro si stesse accalcando e stesse progettando
alle mie spalle, l’avevo avuta anni dopo l’adolescenza, quando
qualcuno mi aveva nascosto strani messaggi nella posta,
messaggi che sembravano di amore, ma non erano chiari e per
questo ancora più inquietanti.
Nonostante quegli oscuri presagi, avanzavo nella boscaglia
e spesso mi voltavo per controllare perché non mi sentivo
serena; percepivo la nebbiolina, la rugiada e non capivo cosa
fosse.
Poi, d’improvviso, l’incertezza e il timore si
materializzarono e fu paura vera, terrore come quello che solo
i bambini possono percepire.
Mi sentii piccola e corsi via da quell’uomo con gli
stivali neri che mi inseguiva, chiedendomi come un pazzo:
«Perché?».
Ma come, “perché”?
Perché invece sei tu a farmi questa domanda? mi dissi.
Mentre correvo per non cedere al panico, pensavo a come
organizzarmi per sopravvivere: era l’istinto di sopravvivenza,
era una sorta di freddezza naturale e orgoglio.
Poteva uccidermi ma non sarebbe mai entrato nella mia
testa.
La mia testa si concentrava mentre il mio corpo scappava.
Correvo sulle radici sperando che il feroce uomo che mi
inseguiva cadesse. Non lo guardavo mai negli occhi, quegli
occhi che ti controllavano di soppiatto, occhi da coccodrillo
che puntano la preda da sotto il pelo dell’acqua.
Per intuito avevo capito che il mio inseguitore era
diabetico. Lo avevo percepito grazie a una delle mie strane
intuizioni e grazie ad alcune voci provenienti da altre
dimensioni molto lontane. Inoltre sapevo che era diabetico
perché aveva i piedi tormentati da piaghe; presto dovevano
essere tagliati.
La mia speranza veniva dal mio animo tenace e speravo si
stancasse, speravo che la strana malattia di cui probabilmente
soffriva lo colpisse di improvviso nella corsa, che gli
fermasse il metabolismo degli zuccheri, o che avesse
semplicemente una crisi e si accasciasse al suolo.
Correvo e intanto i rami si facevano più bassi e
intricati. Mi abbassai sperando che lui avesse più difficoltà,
essendo più alto di me; tiravo i rami verso di me desiderando
che gli arrivassero in faccia.
Odiavo profondamente quello che mi stava facendo. Il mio
odio era provocato, in particolare, dalla paura che provavo.
Era in parte orgoglio, lo ammetto: chi era per costringermi
alla fuga, per tormentare le mie membra nella morsa
attanagliante della paura?
Intanto continuavo a correre e lui, con il suo fisico
robusto, sembrava tollerare che quella corsa di velocità si
fosse trasformata in una corsa di resistenza.
Il mio sudore cadeva per terra insieme a grosse lacrime, e
sentivo che la speranza mi stava abbandonando… ma ecco che
vidi qualcosa di nuovo: mio nonno, davanti a me.
Vedendomi preoccupata, il nonno mi avrebbe proiettata in
un’altra situazione, in una dimensione molto più intima e meno
pericolosa, e mi avrebbe rassicurata, ne ero certa.
La mia certezza avrebbe ben presto avuto tempo per
materializzarsi o distruggersi.
CAPITOLO 2
“Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei
propri sogni” (Eleanor Roosevelt)
LA CONSOLAZIONE E PROBLEMI ALTERNATIVI
Era proprio il mio caro nonno, tenero nella vecchiaia,
terribile in gioventù. Era sempre stato un tipo difficile,
dispettoso, tagliente, e per alcuni versi era il tipico macho
italiano.
Da giovane era stato moro di capelli, occhi scuri da
spagnolo, pelle olivastra arsa dal sole, spalle larghe da
contadino. Non era alto, su per giù come me, ma molto più
robusto. Solo le mani le avevamo uguali, mani lunghe e
affusolate, mani che gli inglesi definiscono da fornaio, da
panettiere, e infatti era stato proprio questo il suo mestiere
durante la sua vita. Si alzava prima del canto del gallo per
lavorare duramente, e non aveva bisogno della radio: aveva
infatti una voce calda e piena da baritono, una voce che ti
tiene compagnia e ti rassicura lungo la strada, e lungo il mio
cammino nei miei sogni lo avevo rincontrato.
Il nostro incontro era stato rassicurante. Mi aveva
appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva
sussurrato di non preoccuparmi, che tutto si sarebbe sistemato
e che mi capiva, mi consolava e sapeva quanto fosse stato
difficile per me il mio percorso. Già, lungo il mio tragitto
emotivo vi erano sterpaglie e spine, e i miei piedi erano
pieni di vesciche. Moralmente ero molto abbattuta.
Lui sapeva cosa stavo passando. Era stato capo partigiano,
aveva lottato contro l’oppressione di Mussolini. Amava la
libertà e proprio questo nome gli era stato dato: si chiamava
Libero. Era libero, era aeriforme; era uno spirito oramai,
dopo che nel 1996 un infarto se lo era portato via,
improvvisamente e velocemente.
Così in fretta che non avevo avuto il coraggio di vederlo
nella camera mortuaria.
Tuttavia ora era davanti a me, come lo ricordavo: ancora
olivastro, sempre attivo, e con la preoccupazione di vedere la
nipote diventare rapidamente una giovane donna.
Già, una donna, dentro di me sarei diventata una donna. Mi
sentivo innocente e ingenua, ma sapevo che molte cose
avrebbero dovuto ancora capitarmi, che la vita era lunga e
piena di assilli, di fastidi.
Dicono che per ogni nostro talento, Dio ci fornisca una
frusta. La frusta è data per l’autoflagellazione e
quest’ultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.
I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,
e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto
comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo
incubo a occhi aperti.
Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi
inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e
i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola
creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi
un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e
tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava
bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.
I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita
tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,
si ritirano a guscio dentro se stessi.
Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino
inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come l’ululare del
vento.
Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che
non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei
dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi
inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora
una volta.
Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,
così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai
tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni
passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano
velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.
Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più
fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e
ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.
Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso
abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza
e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi
visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il
prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.
Dopo quell’inseguimento ci fu un’altra sconvolgente
visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non
riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta
di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.
Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.
Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal
mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava
chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.
Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non
ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e
di costruirmi una famiglia. L’ho sempre vista come una cosa
lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia
personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per
il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che
hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle
mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,
temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse
male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non
nascono normali.
Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci
sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo
segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli
maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino
che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca
legnosa piena di celle.
Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le
cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il
seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si
divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una
malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che
avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto
toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo
continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo
ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,
una decisione doveva essere presa.
La decisione era vitale, non potevo lasciare che il
bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina
che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.
Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere
innocuo il mostro e salvarla.
Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una
mia tipica reazione allo stress.
La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami
all’università, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle
con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli
cervicali.
Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare
qualcosa.
Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il
muro ma contro di me; speravo che dopo un po’ di tempo con
l’inerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la
brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non
integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il
temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di
mano ed era molto viscida a causa dell’olio spesso e
impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.
Era scuro e quell’impresa mi causava fatica. Mi sentivo
osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i
brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in
ogni mio singolo respiro… Il bambino era la mia coscienza e
non mi dava pace.
La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti
fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.
Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta
la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere
secondo coscienza.
E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo
morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la
prova; dovevo cambiare ed essere più forte.
La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che
fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non
quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me
stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un
desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva
a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei
guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.
Era la non accettazione del male, mai e senza nessun
compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo
presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, all’umiliazione e a un
deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non
la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina
che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me
stessa, in bilico tra una decisione e l’altra, confusa e
insicura.
Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe
arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,
il problema era: con cosa?
Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la
carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui
andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era
abbastanza malconcio… dovevo però agire in fretta ed essere
precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.
Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia
figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di
provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della
corda poiché macilenta, ma poi si fermò.
Più provavo e meno riuscivo a tagliare.
Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di
me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare
le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e
capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e
che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi
verdi e terribili.
Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.
Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la
rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e
riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.
E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno
potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.
Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,
ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non
avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola
che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più
niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa
bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso
uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il
mio sangue?».
Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse
la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo
superato la prova e che stavo diventando più forte.
La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la
pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a
ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma
anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è
forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a
tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci
spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.
Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire
e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte
non vedevo l’ora di misurarmi con esse, ma dall’altra sentivo
ancora il brivido gelido della paura verso l’ignoto. Ciò
nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre
sfide e altri territori.
I territori tormentati tipici di una tundra nordica
sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e
gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I
sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono
per lasciare spazio a un misterioso labirinto.
Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che
portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le
coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro
contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire
la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e
spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella
del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso
finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio
spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma
affaticandomi terribilmente.
La fatica era una sensazione che ben conoscevo, un’amica e
una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non
mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto
seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte
terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani
e sangue.
Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:
dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare
quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri
perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo
morti.
Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo
distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio
tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.
Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di
sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le
crepe delle antiche rovine.
In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i
capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal
tempo.
All’improvviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno
schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.
E cosa trovai mi lasciò senza parole.
Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.
Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo
credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e
confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa
faceva.
Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più
elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma
non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in
una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella
porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un
mondo all’altro, trovandosi confusa e sotto shock per la
novità.
Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due
eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.
Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella
notte, due candele accese che potevano aiutarsi l’un l’altra o
decidere di morire facendosi competizione.
La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che
aveva portato le donne a prendersi per i capelli per l’amore
di un fedifrago o a perdere il lavoro per chi non era riuscita
a ingraziarsi il capo; la competizione era potente e micidiale
come fiale di veleno. Non potevo che temerla.
Valutavo attentamente gli atteggiamenti del mio clone,
della mia gemella, ma lei si dimostrò sempre molto affabile e
comprensiva. Mi seguiva sempre e aveva un atteggiamento
gentile e aperto nei miei confronti. Mentre ci avventuravamo
sempre più all’interno delle rovine, la nostra sintonia
cresceva.
Quel breve attimo di tranquillità, quel breve istante in
cui mi ero resa conto che non ero più sola, che potevo avere
un futuro, fu però presto sconvolto.
I MOSTRI DELLE CAVERNE
Era mostruoso, rumoroso e si nutriva di paura. Aveva il
corpo arrossato con le vene in vista per la bruciatura totale
della sua pelle. Era altissimo, circa quattro o cinque metri,
con robusti e grandissimi piedi che si muovevano facendo il
rumore di un masso che si frantuma per terra. Aveva la bocca
piena di denti per mordere e amava la carne umana.
Era vissuto lì per secoli, e nascosto aspettava giovani e
anziani al centro delle rovine, nel punto dove divenivano più
articolate; era vissuto nelle rovine fin da quando esse erano
un castello fantastico. Era il figlio non voluto di una
violenza ed era stato maledetto fin dal primo momento. Era il
frutto di uno stupro combinato con ben sette maledizioni
antiche. Aveva gli occhi gialli e luccicanti e poteva vedere
al buio, fiutare al buio.
Aveva fatto un patto con un’altra creatura demoniaca: un
mostro che odiava l’innocenza.
I loro nomi erano Dannazione, il risultato delle
maledizioni, e Vendetta, colui che odiava l’innocenza.
Vendetta era un killer silenzioso, raffinato, intelligente
e psicopatico che, vedendosi morire sul rogo, aveva fatto un
patto con Dannazione prima di essere bruciato vivo. Dannazione
era stato in grado di riprendere le ceneri di Vendetta e
riportarlo in questo mondo. Quest’ultimo, dopo la bruciatura
sul rogo, era tornato con una sete di sangue sempre maggiore.
Vendetta indossava una maglia a brandelli su cui si poteva
leggere ancora il suo nome: era scritto in gesso bianco e
contornato con il rosso delle sue vittime.
I due killer sentirono subito la presenza di due umani e
si nascosero nell’oscurità senza proferir parola, senza un
solo momento di esitazione. Conoscevano la nostra paura, erano
in grado di fiutarla, e percepivano nell’aria ogni odore,
insicurezza. Sapevano già che c’erano due anime buone vaganti
che avevano perso l’orientamento.
Io e l’altra me eravamo felici di essere insieme ma
proprio quella sensazione ci tradì, nel senso che inizialmente
avevamo perlustrato con timore le antiche rovine con i merli
rovinati e decadenti, ma poi, forse, ci eravamo fatte prendere
dall’entusiasmo ed eravamo andate avanti, ma senza una mappa.
Molte volte ci eravamo ritrovate in vicoli ciechi, e alla
fine, dopo aver girato in tondo più volte, ci eravamo rese
conto di esserci perse.
Non sapendo più come tornare indietro dovevamo cercare di
uscire. Le rovine erano sempre meno danneggiate e più
compatte, come se fossimo entrate in un’ala relativamente più
nuova. I muri erano spessi, grigi e umidi, l’acqua colava dal
soffitto creando delle pozze per terra.
Dentro quel dedalo vi erano grandi stanze semivuote,
grigie, umide e oscure. A volte la condensa si depositava sul
muro, altre si formava una nebbiolina distante da noi.
Incuriosite, cercavamo di capire cosa originasse la nebbia e
perché ci sentissimo terribilmente spiate.
In quel dedalo misterioso due sentimenti opposti
permeavano le nostre anime: timore e voglia di esplorare.
La volontà di esplorazione di nuovi territori è una spinta
che si avverte specialmente durante la pubertà, e in qualche
modo noi eravamo di nuovo delle adolescenti, nostro malgrado
alle prese con nuove esplorazioni.
Le nostre emozioni erano contrastanti ma sapevamo che,
sebbene il pericolo fosse imminente, eravamo esseri umani e
dovevamo mangiare. Erano giorni di magra ma avevamo ancora
delle riserve di carne secca perché quando l’altra me stessa
era fuori dalle rovine, aveva cacciato e raccolto bacche.
Ci ritirammo in un angolino a masticare quella parca mensa
che ai miei occhi non poteva che essere prelibata. I nostri
denti funzionarono come lame che tagliano tutto e la nostra
pietanza scomparve in fretta. Ripulimmo la zona e continuammo
il nostro pellegrinaggio sperando di non fare brutti incontri.
Durante il viaggio avevamo ripreso a vedere immagini orrende
disegnate, scritte che ci spingevano ad andare via, a
scappare, ma dove potevamo scappare?
Dove potevamo trovare un rifugio? Come potevamo uscire da
quel dedalo?
Proseguimmo e fortunatamente trovammo armi e proiettili;
li prendemmo pensando che in futuro avrebbero potuto esserci
utili.
Rinvenimmo anche una sorta di accampamento distrutto.
Sembrava fosse stato attaccato e che i cadaveri fossero stati
trascinati via: si vedevano chiaramente le strisce di sangue
provocate dal trascinamento dei corpi, tuttavia non trovammo
nessuna delle vittime.
Raccogliemmo tutte le armi possibili e anche il piccolo
kit del pronto soccorso: non sapevamo cosa ci aspettava e per
questo ci volevamo preparare. Se avessero voluto uccidere
queste due donne sole, be’, avrebbero dovuto faticare.
Eravamo armate e, sperando di aiutare quelli che erano
stati attaccati, avanzammo seguendo le strisce di sangue.
Tuttavia, presto iniziammo a temere il peggio per i poveri
malcapitati: dovevano aver perso molto sangue e la loro fine o
era già avvenuta oppure era molto vicina.
Seguimmo le strisce di sangue lungo la grande stanza, poi
passammo a un luogo più stretto e oscuro. Solo alcune fiaccole
illuminavano la strada, ma noi avevamo già deciso il nostro
percorso e ci facemmo forza l’una con l’altra.
Dall’angusto corridoio si presentava un passaggio più
ampio con soffitti altissimi che conteneva al centro un altro
stanzone murato. Lì per lì non vedemmo l’entrata, e fu questa
la nostra fortuna perché, sentendo il nostro odore, i mostri
uscirono per cercarci senza sapere esattamente dove fossimo, e
noi potemmo nasconderci subito lungo una roccia.
Erano orrendi e sporchi, macchiati di sangue.
Semplicemente agghiaccianti. Stavano litigando, lo capivo
perché si lanciavano strani raggi e palle infuocate che
percuotevano i loro corpi; se colpiti, si lamentavano con urla
baritonali e terribili.
Non erano urla comprensibili a noi, ma ipotizzavo avessero
iniziato a litigare e farsi i dispetti probabilmente perché
era troppo tempo che erano da soli e si annoiavano.
La lotta continuava e iniziavano a non fiutare più l’aria,
ma solo a litigare tra di loro sempre in modo più
appassionato. Forse avevano perso interesse per noi.
Si stavano facendo male l’uno con l’altro: era il momento
di attaccare e di cercare eventuali sopravvissuti. Avremmo
potuto ancora salvarli o tentare di farlo, pensavo speranzosa.
Tuttavia non vi erano molte speranze, ma se fossero stati
attaccati da poco, magari il kit di pronto soccorso avrebbe
potuto aiutarci.
Decidemmo quindi di prendere i mostri alle spalle e di
sparare mirando alle loro ferite; di indebolirli, se non
ucciderli.
Immaginavo chiaramente il nostro impegno, il nostro
avanzare silenzioso.
Iniziammo a sparare un secondo prima che si accorgessero
di noi. Le nostre pallottole, nonostante le loro dimensioni
mastodontiche, erano dolorose. Gli scaricammo addosso tutto
quello che potemmo, ma poi tutto finì male.
Vidi la fine, la vidi negli occhi scuri della donna che
era stata mortalmente ferita ed era esattamente uguale a me;
potevo vedere con i suoi occhi e percepire la vita che la
stava abbandonando lentamente. Tuttavia dovevo andarmene. Lei
capì che dovevo scappare e nei suoi occhi vidi il perdono e la
comprensione. La mia fuga era capita, giustificata.
Nei giorni a venire avrei sognato e sentito tutto il
dolore di quella creatura provenuta da molto lontano che
giammai avrei rivisto, la mia stessa immagine proveniente da
una dimensione diversa. Avrei sentito il gelido impatto
generato dal vortice infuocato che mi risucchiava, avrei
sentito il contatto con il freddo pavimento rudimentale, avrei
guardato in alto sapendo che non c’era più speranza in questo
mondo.
Nonostante tutto i mostri erano ancora vivi e potevano
farmi del male: dovevo lasciare da sola la mia compagna di
avventure appena trovata.
Per cercare di ucciderli lei si diede fuoco, facendo
saltare in aria i proiettili che erano rimasti. Ciò creò un
immenso dolore ai mostri che sembrarono urlare, gemere e
ruggire di rabbia e frustrazione e dolore. Li avevo visti in
ginocchio con la coda dell’occhio e dentro di me sperai di
essermene liberata.
Attraversai il largo passaggio e mi ritrovai nella stanza
dove Dannazione e Vendetta torturavano i prigionieri e li
sacrificavano a qualche divinità degli inferi.
Diversi corpi erano stati scannati e impiccati al
contrario, di modo che il sangue gocciolasse via e con essi la
vita. Era raccapricciante e drammatico, la scena peggiore che
avessi mai visto.
Avevo la pelle d’oca e le lacrime agli occhi; un terrore
mai conosciuto lambiva il mio corpo. Tremavo a ogni minimo
pericolo e a ogni gioco di luce delle fiaccole un brivido mi
percorreva la schiena. Mi ripetevo che avevo il dovere morale
di assistere le persone in difficoltà, questa era la mia
natura e dovevo seguirla.
Avevo sentito come un lamento in un sacco e cercai di
capire di cosa si trattava. Tuttavia poteva essere pericoloso:
poteva essere un prigioniero innocente oppure una creatura
come Dannazione e Vendetta.
Seguii i lamenti. Probabilmente era la voce di un uomo che
chiedeva aiuto, ma non capivo cosa dicesse o chi invocasse.
Aprii il sacco e ne uscì un uomo bellissimo. Aveva occhi blu-
verdi, capelli biondi e i tipici tratti da nordico che mi
avevano sempre fatto impazzire; le braccia erano possenti e
sembrano essere state create per proteggermi.
Subito mi sorrise, grato, e cercò di parlarmi, ma non
capivo quello che diceva. In un attimo, però, comprendemmo che
dovevamo scappare di nuovo perché Vendetta e Dannazione
ululavano e desideravano la loro rivincita. Erano molto vicino
a noi.
Scappammo tutto di un fiato.
In fondo alla stanza, all’improvviso lui mi segnalò una
botola. Prima, però, avrebbe dovuto aprire quella e poi la
grata, quindi io, che ero armata, lo dovevo proteggere e
sparare numerose pallottole contro i due mostri che erano
feriti ma ancora maledettamente attivi. Oramai potevo vederli:
erano due creature degli inferi. Presero a lanciare bolidi
gialli nella mia direzione e io mi protessi come potevo,
continuando a sparare.
Ero così concertata che quell’uomo bellissimo fu costretto
a prendermi per il collo per voltarmi e farmi entrare nella
botola, che chiudemmo in fretta dietro di noi, e così anche la
grata.
Procedemmo a tentoni in quel luogo oscuro. La luce era
fioca ma non ero da sola. Sia io sia lui avevamo negli occhi e
nel cuore una giornata tra le più tristi e dolorose che gli
umani potessero aver conosciuto; eravamo piccoli, deboli e
spaventati.
Nonostante questa nostra paura e gli urli impazziti dei
due mostri, nella luce fioca l’uomo stupendo riuscì a trovare
una spada.
Capii che il mio compagno di avventure sapeva impugnarla e
doveva anche essersi allenato per usarla; ciò giustificava le
grandi e attraenti braccia nerborute.
Proseguendo con la spada, trovò anche un uomo morto dentro
una corazza, e mi fece capire di aiutarlo a rimuovere il
cadavere in modo che potesse indossarla; fortunatamente non
gli andava né troppo larga né troppo stretta. Era scattante e
agile anche con essa indosso.
Avanzammo attraverso i cunicoli che erano caldi e poco
illuminati ma che davano un senso di tranquillità. Andammo
avanti per lungo tempo. Non c’erano pericoli.
Oramai avevo capito che lui sapeva usare le armi, che era
intelligente e si sforzava di comunicare; doveva essere stato
un soldato. Sembrava gentile nei gesti e nei movimenti, forse
perché lo avevo salvato. Era sempre disposto ad aiutarmi e
pareva cercare cibo come lo cercavo anche io.
In quel caso fummo fortunati: le rovine avevano i loro
canali di scolo e noi eravamo in uno di essi.
L’acqua si dimostrò di buona qualità, e io vi aggiunsi
l’erba medica che la rendeva pulita. Avevamo anche trovato
delle carcasse di animali. Lui era molto bravo a sezionare la
carne, ci passavamo sopra il sale per conservarla a lungo.
Eravamo un buon team: io emotiva e sensibile, fiera
lottatrice armata, lui più tecnico e riflessivo ma sempre,