Tre racconti
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Bersezio Vittorio. Tre racconti
AL LETTORE
IL CANE DEL CIECO. RACCONTO
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
UN GENIO SCONOSCIUTO. RACCONTO
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
GALATEA. RACCONTO
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
Отрывок из книги
Era un brutto cane davvero; d'una razza così mista che i più abili genealogisti ci avrebbero perduta la bussola a volerne rintracciare l'origine in mezzo alla licenza disordinata degl'incrociamenti. Troppo basso delle gambe anteriori, troppo alto di quelle posteriori, con un naso appuntato, su cui pochi peli irti, con un pelame sempre sporco, scarno da far compassione, e un ugiolare così fastidioso che metteva ribrezzo e paura. Ma nella parte superiore di quel muso inqualificabile, sotto due ciuffi di peli di colore indefinibile, la povera bestia aveva due occhi, che, quando fissavano i vostri, vi facevano stranamente pensare. Avevano, quegli occhi straordinari, un'espressione d'intelligenza, di mestizia, di rassegnazione: vi parevano rivelare – sissignori, anche in un povero e brutto cane, – una vita tutta di dolori. Non so se abbiate osservato mai che gli occhi di questo animale, adoratore dell'uomo, ridono talvolta, mentre la coda si dimena festosamente. Ebbene, gli occhi di questo disgraziato di cui vi parlo, non ridevano mai, come non si dimenava mai con allegro moto quel mozzicone corroso che gli faceva da coda.
Atanasio, il cieco pezzente che era suo padrone, sedeva spesso sullo scalino della porticina della chiesa, di fianco, dalla parte in cui nel pomeriggio c'era l'ombra, in faccia ai due olmi vecchi che, susurrando colle loro frondi sopra la fontana che sta loro in mezzo, accompagnano pianamente il susurrio dello zampillo. Colà, deposto al suo lato il lungo bastone con cui picchiava per terra, camminando, egli poneva i gomiti che uscivan fuori dalle maniche sbranate, sugli stracci che facevano da pantaloni alle ginocchia, stringeva in mezzo a due manaccie grosse, ossee, ruvide, nere, villose, una barbaccia mezzo bianca, disordinata, irta, ed appuntato il suo naso lungo e acuto, fissava innanzi a sè in grave attenzione lo sguardo di due occhi dalle pupille bianche che non vedevano e che facevano pena a vederli.
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Pietro, nell'eccesso della sua gioia, aveva ben altro a cui pensare, che i diportamenti del suo compagno d'infanzia; ma pure non potè a meno di accorgersi di tanta mutazione, e un giorno, avutolo a sè, glie ne fece amorevoli rimproveri; gli ricordò la sua buona condotta d'un tempo, gli rammentò come coll'economia, colla sobrietà, potesse procurarsi un migliore avvenire.
“Che la vuole?” rispose l'operaio con voce rauca, a testa bassa, senza guardare in faccia il suo principale. “La vita è una cosa tanto breve, e tanto da nulla; io sono così solo e così senza conforti di sorta! La parsimonia, la temperanza, l'economia, la virtù a che cosa mi meneranno? Io non sono fatto per essere stipite d'una famiglia… sono solo, vivrò sempre solo, creperò solo…”
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