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LETTERA I.
Dove si parla della città
ОглавлениеNapoli, 5 maggio 1877.
Eccomi a Napoli; eccomi finalmente in questa terra promessa ad incarnare il sogno dorato della mia vita. Non ti ho scritto subito, perchè la confusione del mio povero cervello, appena piovuto in questa enorme voragine, è stata tale da non permettermi di farlo. Ora però che ho ripreso fiato e che ho cominciato a riordinarmi le idee fino ad oggi sparpagliate e frullate in tondo come foglie secche dal vento, mi faccio una festa di mantenerti la promessa e di scriverti qualche cosa da questo paese. La sera stessa del mio arrivo, vidi il nostro caro Enrico che m'era venuto incontro alla stazione. Cascammo l'uno nelle braccia dell'altro come due feriti al core; ci abbracciammo, ci stringemmo come pazzi e dopo un breve, ma furioso assalto di domande che non aspettavan risposta, si montò di volo in una vispa carrozzella e subito, per non perder tempo, senza pensare a valige, a stanchezza, a nulla, una corsa attraverso alla immensa città. – Vetturino, a Mergellina! – e giù, a trotto serrato per Toledo, Chiaja e la Villa Reale, trasportato come in sogno fra la romba e il brulichìo vertiginoso d'una folla compatta che si apriva a stento al nostro passaggio e si richiudeva subito dietro alla carrozzella come una massa liquida, su la quale galleggiassero migliaia e migliaia di cappelli e di teste umane. Che brio, che vita, che baraonda, amico mio, che maraviglioso disordine era quello per il nuovo e piccolo arrivato! Mi parve a un tratto d'esser diventato invisibile, e mi sentii là dentro come un grano di miglio turbinato nei vortici d'una enorme pentola a bollore! Ma ero troppo stanco da potermela godere. Mi doleva il capo, mi frizzavano gli occhi ed avevo tanto bisogno di riposo, che nulla potei intendere nè gustare del troppo lauto banchetto così improvvisamente offerto a' miei sensi.
Di questa prima corsa per le vie di Napoli ne ho un ricordo confuso come d'una cosa accadutami anni ed anni indietro. Ho negli orecchi il ronzìo di serenate che incontrammo lungo la riviera di Chiaja; mi pare di rammentarmi di fiammate in mezzo alla via, intorno alle quali ballavano strillando centinaia di ragazzi mezzi nudi, e dei lumi del gas che mi bucavano gli occhi, e della luna e delle stelle che brillavano cullandosi nel mare, e di Capri tuffata nei vapori del crepuscolo, e del Vesuvio! Dio, Dio, il Vesuvio! il suo pennacchio, i suoi bagliori sanguigni! Ma tutto confuso, tutto annebbiato come il ricordo d'un ballo fantastico veduto da fanciullo, o come le idee d'un nebuloso poeta del Nord che viaggia ispirato attraverso al regno dei sogni.
Mi domandi di Roma. Ma che posso io dirti d'una città di quella natura, dopo avervi passato appena tre giorni, e dopo averla appena sfiorata al di fuori girando disperatamente dalla mattina alla sera per le sue strade intrigate? Roma è troppo grande per la mia piccolezza; non mi domandare di Roma. All'insetto che portatovi dal vento ha vagato per tre giorni su le cupole di Santa Sofia, chiederesti con lo stesso profitto le sue impressioni a proposito di Moschee.
I suoi giganteschi ruderi che sbucano dal terreno come costole petrificate d'un enorme colosso male interrato o come avanzi d'un immane pasto di Ciclopi, mi hanno empito di sgomento e di terrore; la Roma dei Papi, dalla quale temevo trovarmi abbagliato, ha raccolto gli avanzi del suo fasto orientale e dorme ad occhi spalancati nel Vaticano; la Roma nuova, la Roma italiana l'ho appena avvertita in un ristretto spazio, dove, timida e chiacchierona, si striscia ai piedi del padron di casa e si arrabatta e brulica e sgambetta con la rettorica in una mano e la pila elettrica nell'altra, affaticandosi invano a galvanizzare un cadavere, che resta immobile sotto i suoi sforzi impotenti. Che posso io dirti di Roma? Dio assista i galvanizzatori e, nella sua immensa misericordia, non confonda le loro favelle!
Ed ora parliamo di Napoli.
Io non conosco i paesi dell'Oriente, nè conosco la Spagna altro che dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare una idea abbastanza esatta di quelle regioni, l'aspetto della città di Napoli mi sembra tale, fuorchè in otto o dieci delle principali vie, da porre addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille chilometri lontano dalla sua patria, balestrato per incantesimo su qualche porto della Valenza o della Catalogna.
Vie strette, fiancheggiate da case generalmente altissime con facciate sopraccariche di balconi e che vanno a terminare, senza aggetto di gronda, in una linea tagliente e spezzata sul fondo del cielo; profusione in ogni parte di ornamenti barocchi e di vivaci colori malamente accozzati fra loro; tipi e modi degli abitanti; clima, nomi di alcune strade e persino molti vocaboli passati intatti nel loro dialetto dalla lingua spagnola, e tante e tante altre particolarità che ora mi sfuggono, tutto ricorda quel paese, da ogni lato ti corrono all'occhio o all'udito schiettissime tracce della lunga occupazione spagnola.
Domandai ad un catalano di mia conoscenza, e glie lo domandai da vero: – Sembra spagnolo anche a voi l'aspetto di questa città? – Mi rispose: – Bendate un mio compatriotta, toglietegli la benda dopo averlo condotto in qualcuno dei vichi o delle rue di questo paese, e griderà: sono a casa mia. —
Più sopra ho rammentato anche l'Oriente nè credo d'essermi ingannato. I fabbricati, il sudiciume e la ristrettezza delle vie; il genere di vegetazione che si vede nei giardini della città e nei dintorni; l'abitudine che questa plebe ha di vivere sulla strada; la miseria cenciosa e pigolante, in mezzo alla quale ci troviamo continuamente, tante cose insomma ti mettono in questa illusione che spesso potrai sognare di trovarti ad Alessandria od al Cairo in mezzo ai loro Fellah, ai loro buricchi e buriccai, con la sola differenza della lingua, che là saresti importunato per il bascisch e quaggiù non ti lascian pelle indosso per il soldo. Il movimento della folla poi in alcuni punti della città e in certe date ore ricorda addirittura, se non che in proporzioni minori per la varietà dei costumi, quella moltitudine che intricandosi e aggomitolandosi brulica, si sviluppa e turbinando passa sempre folta e compatta sul ponte della Sultana Validè, quale ce la descrive il De-Amicis nel suo Costantinopoli.
Ma lasciando da parte i confronti, vieni con me, osserviamo Napoli quale è; percorriamo le sue strade nel modo che più ti piace: in carrozzella, in omnibus, in tramway, in curricolo, a piedi… ingolfiamoci in questo laberinto, in questo formicaio umano; tuffiamoci in questa allegria contagiosa, in questa vitalità febbrile e lasciamoci trascinare nella vertigine di questa ridda, dove i sensi non bastano alla faticosa opra, verso la quale irresistibilmente si sentono attrarre e dove spesso rimangono sopraffatti e spossati sotto l'attrito continuo d'un eccitamento eccessivo.
La prima impressione che si riceve entrando in Napoli, è quella d'una città in festa. Quel chiasso, quello strepito, quella turba di veicoli e di pedoni che si affollano per le vie, ti sembra, a prima vista, che debba essere cosa transitoria, un fatto fuori dell'ordinario, una sommossa, una dimostrazione o che so io. Volti gli occhi in aria: una miriade di finestre ed altrettanti balconi e tende che sventolano al sole e fronde e fiori e persone fra quelli affacciate, ti confermano nella illusione. Il frastuono, le grida, gli scoppi di frusta ti assordano; la luce ti abbaglia; il tuo cervello comincia a provare i sintomi della vertigine, i tuoi polmoni si allargano; ti senti portato a prender parte alla entusiastica dimostrazione, ad applaudire, a gridare – evviva! – ma a chi? La scena che si svolge davanti ai tuoi occhi non ha nulla di eccezionale, nulla di straordinario; la calma è perfetta, nessuna forte passione politica agita questo popolo, ognuno va per le sue faccende, parla de' suoi affari; è una giornata come tutte le altre, è la vita di Napoli nella sua perfetta normalità e nulla più.
Strano paese è questo! Quale impasto bizzarro di bellissimo e di orrendo, di eccellente e di pessimo, di gradevole e di nauseante. L'effetto che l'animo riceve da un tale insieme è come se si chiudessero e si riaprissero continuamente gli occhi: tenebre e luce, luce e tenebre. Accanto alla elegantissima dama, un gruppo di miserabili coperti di luridi cenci; immondizie e sudiciume fra i piedi, su in alto un cielo di smeraldo; da un lato una fresca veduta della marina, dall'altro pallide facce di miserabili che si affollano su l'apertura della loro tenebrosa spelonca; là in fondo, un gruppo di azzimati dandy fa cerchio intorno al cestello odoroso della fioraia, accanto uno sciame di guaglioni in camicia si svoltola tra le immondizie; qui un'onda profumata dal fiore d'arancio t'inebria, due passi più avanti la padella del friggitore ti strazia l'olfatto; la mesta canzone della comarella, che dolcissima scende dal balcone fiorito t'inebria, il raglio potente d'un somaro ti fracassa gli orecchi. E così potrei seguitare all'infinito.
La straordinaria ed abbagliante varietà di tutto quello che dà nell'occhio a chi è nuovo di questo paese è tale da far credere che tutti si siano dati le intese, per non fare la stessa cosa nella stessa maniera. Lo spirito di una indipendenza primitiva regna assoluto; ognuno fa quello che crede e che più gli accomoda senza curarsi se sarà ridicolo o se arrecherà ad altri molestia. Le guardie municipali sono impotenti o quasi in tanta baraonda. Il fabbro ferraio porta la sua fucina in mezzo della via ed altrettanto fanno tutti gli altri artigiani; gl'inquilini dei bassi o piani terreni, scacciati dalla oscurità o dalla malaria delle loro tane, si scaricano su la via coi loro mobili, coi loro cani, col gatto, col ciuccio, coi polli, con la pecora, e lì stanno a chiacchierare, a grattarsi, a lavorare, a dormire, a mangiare, a digerire, a… e così dal fare del giorno al calare della notte la intera città assume l'aspetto d'una immensa bottega di rigattiere.
In alcune vie il cielo è quasi nascosto da migliaja di panni stesi ad asciugare e ventilarsi su corde tirate da una parte all'altra della strada, che sgocciolano e brillano schioccando al vento come se anch'essi godessero di vedersi finalmente puliti davanti alla luce del sole. In altre vie la circolazione è qualche volta preclusa da ogni sorta d'ingombri, eppure a forza di lanci, di zig-zag, si passa, si tira avanti e si ride, e nessuno brontola e nessuno si lamenta, perchè nessuno è rimproverato nè ascolta lamenti se fa altrettanto dal canto suo.
Ma quanto è bello, amico mio, quanto è seducente per chi ha una dramma d'artista nell'anima, l'effetto pittoresco di questo spettacoloso disordine! Specialmente per colui che vi si trova framezzo, arrivando dalle altre provincie d'Italia, dove gli è necessario un permesso bollato anche per poter fare ciò che legalmente gli è stato imposto, e dove mille elaborati regolamenti ti vessano, ti tormentano e t'impacciano più di tutti gl'ingombri del più affollato vico di Napoli, l'effetto è tanto grande che spesso ti senti sfiorare le labbra da un sorriso di maliziosa compiacenza, quando arrivi ad accorgerti che in fine dei conti tutti gli estremi si toccano. Per carità non dire a nessuno di questa eresia, se no m'impalano. Ed anche tu siimi indulgente e compatisci questo povero diavolo che diventa barbaro provvisoriamente, per eccessivo amore a un ideale d'incivilimento, il quale forse non ha altro difetto che d'essere un po' troppo a modo suo.
Pur troppo verrà anche per questi aridi appunti l'ora delle dolenti note, e mi toccherà chiudere gli occhi spensierati dell'artista, quando mi accadrà d'ingolfarmi nei reconditi falansteri dell'abbrutimento e della miseria; ma ora lasciami caracollare a modo mio, lasciami respirare a larghi polmoni la voluttà di quest'aura marina che mi accarezza con le sue ali di velluto, lasciami vivere e godere, che io mi sbizzarisca fino alla sazietà, se non vuoi che in cambio di una gioja fanciullesca, ma schietta, ti ponga davanti la falsificazione di una serietà che ho perduta tra la folla e che inutilmente andrei ora a ricercare.
Chi prova dispetto o non si eccita piacevolmente dinanzi a un tale spettacolo, invochi e presto i soccorsi dell'arte salutare, perchè il suo sangue è guasto.
L'incontrare una faccia mesta in questa agitata marea di carne umana, è raro assai. Eppure le anime afflitte certo non mancheranno in tanta moltitudine di figli d'Adamo; ma il riflesso della gajezza che predomina su tale scena ti abbarbaglia per modo che le particolarità sfuggono a' tuoi occhi o, se le noti, l'impressione dolorosa che potresti riceverne, è così momentanea che le corde gentili dell'animo tuo non possono mantenere una sensibile vibrazione. È più facile sentirsi provocare una risata omerica dal frate che ti chiede il soldo, offrendoti in cambio i numeri per il lotto, che provare intiera la pietà di una madre, che pallida fino su le labbra ti stende la mano per la sua creatura che ha fame. – L'osservatore crede assistere ad una splendida pantomima; sfiora con l'occhio la superficie di tutto, e in ogni pezzo della maravigliosa macchina, in ogni comparsa che ride o piange sotto i suoi occhi, non vede altro che la fantasia del coreografo, e de' corifei che gli ballano davanti, altro non scorge che le vesti e la faccia rischiarata dai lumi della ribalta. —
Per colui che voglia presto acquistarne una idea generale e vedersi sfilare davanti tutti i personaggi della commedia di Napoli, la via di Toledo è, fra tutte le strade della città, quella che più si presta a tale scopo. La linea retta che questa mantiene per un lungo tratto fino alle sue estremità, dove sensibilmente s'incurva; il leggiero declivio del suo piano rotabile, per mezzo del quale, come dalla platea di un teatro, si può da qualunque punto dominarne il movimento al di sopra ed al di sotto di noi senza trovarci affogati tra la folla, si prestano mirabilmente al nostro desiderio, tanto più che da ogni quartiere, da ogni rione lontano si scarica e passa tumultuosamente confuso in questa arteria massima lo svariato popolo della città, che contiene entro la sua cerchia tutte sfumature della scala sociale, dal lezzo dell'Imbrecciata ai profumi del Pizzo Falcone.
Percorrendo questa bellissima via e voltandosi ora a destra ed ora a sinistra ad osservare le numerose vie secondarie che vi fanno capo, notabili specialmente in quell'intersecato gruppo compreso tra le strade Trinità degli Spagnoli e Montecalvario, le quali dopo i Gradoni di Chiaja, Rua Catalana, Borgo Loreto ed altre minori sono per me le più originali di Napoli, tu puoi anche formarti una esatta idea del materiale della città, poichè da questo centro di circolazione che resta incassato profondamente nella massa enorme dei fabbricati, di rado l'occhio e l'attenzione restano distratti dalla vista dei circostanti colli e della marina.
Nessun paese al mondo, io credo, conserva al pari di Napoli così scarsa e non pregevole quantità di tracce monumentali delle dinastie che vi si sono succedute nel dominio. La ragione di questo fatto credo non possa ripetersi altro che dalla breve durata delle singole occupazioni, e, più che da questo, dalle lotte continue che gl'invasori hanno dovuto sostenere fra loro per contrastarsi accanitamente questa agognata regione, tantochè le arti della guerra mai non hanno dato una tregua abbastanza lunga, da permettere l'incremento di quelle della pace, che ogni invasore avrebbe potuto, buone o cattive, trapiantarvi dal proprio paese. Dei Bisantini e dei Normanni qualche rara ed informe traccia, fuor che nei dintorni; degli Svevi e degli Angioini qualche chiesa e le loro solide reggie, meglio paragonabili a robusti fortilizi che a principesche dimore; degli Spagnoli molte chiese goffissime e pochi obelischi oscenamente barocchi. Una sola cosa di buono operarono costoro e fu di demolizione, quando aprirono la via Toledo. I soli Borboni avrebbero potuto decorare la città di un monumento importante e forse ne avranno avuta l'intenzione, ma non vi sono riusciti. Il loro capolavoro che sarebbe il San Francesco di Paola, malgrado di tutte le pretensioni che ha di somigliare il Pantheon nel suo corpo centrale e di ricordare molto felicemente il porticato del San Pietro nelle ali, non giunge ad altro che a rammentarti, con la scialba sua faccia e con la fredda monotonia delle sue linee, il goffo bigottismo di colui che spaventato all'idea della morte ne decretò la costruzione votiva fra la bevuta d'una pozione diuretica e il Memento homo del prete che gli risciacquava l'anima più citrulla che sporca.
Ho rammentato a preferenza questo edifizio come quello che scrocca una fama troppo superiore al merito, e perchè più d'ogni altro dà nell'occhio per l'aperta posizione, nella quale si trova e che tanto contribuirebbe ad arricchirne i pregi se qualcuno ne avesse. Non parlo dei Palazzi reali che a giustificare il loro titolo altro non hanno che la mole, poichè tanto nell'esterno quanto nell'interno non sono che case comuni in proporzioni colossali.
Ma neanche ai Borboni concessero i fati e l'invidia dei rivali lunghi periodi al godimento tranquillo della preda. Fughe vergognose, guerre fratricide e sanguinosi ritorni si alternarono a brevi intervalli sotto il loro infausto dominio. Ed intanto che faceva il povero orso dalle cinquecento mila teste tartassato in mezzo alla barbara tempesta? Si esauriva applaudendo a colui che baldanzoso arrivava; riceveva i colpi di colui che si tratteneva; fischiava dietro a quello che rabbiosamente fuggiva, e così, o sotto la livrea o sotto le verghe del padrone, perduto ogni sentimento di estetica, le abitazioni private che fece sorgere, se si eccettuano i palazzi Maddaloni, Gravina e qualche altro minore, non furono che nude o mal frastagliate pareti all'esterno ed intricati laberinti internamente. Opere da castori o da termiti e nulla più. E fa veramente maraviglia il notare come l'Architettura sia restata tanto negletta quaggiù in questi ultimi tempi, mentre la Pittura e la Scultura napoletana sono già salite a tanta altezza, da non temer confronti in Europa. Fabbriche modernissime ne ho vedute qualcuna di fuori e non mi sono piaciute; di dentro non ne ho viste, ma mi assicurano che oggi si costruisce assai bene. Tanto meglio per il decoro dei costruttori napoletani e per le venerate ombre dei Palladio, degli Scamozzi, degli Ammannati, dei Brunelleschi e della lunga schiera di grandi che tanto videro trascurati in questo paese i loro splendidi esempii! – Dopo le ragioni sociali di tanta povertà architettonica, altra più potente ed efficace la troverai passeggiando in un giorno sereno lungo le magiche rive del Golfo, quando ti sentirai forzato ad esclamare con l'animo commosso: «E a che scopo lottare coi nostri piccoli cervelli mortali contro la più bella opera della natura?» Immaginati la cupola di Brunellesco all'ombra del Vesuvio e pensa.
Mentre, ieri sera, mi perdevo dietro a tali fantasticherie, osservando dal parapetto della Via del Gigante la bruna mole del vulcano che tranquillo mandava al cielo la sua bianca nubeola di fumo, sentii dietro alle mie spalle un rumore nuovo come di molti e forti e lunghi sospiri. L'illusione mi fece credere ad un tratto fossero le ombre dei grandi evocate poco fa dal mio pensiero e mi voltai trepidante per salutarle… Era una mandra di dodici vacche in carne e ossa, sciolte e guidate da un solo guardiano, che tranquillamente scendevano a Santa Lucia, mescolate alla folla dei landaux principeschi, che scintillanti di borchie e di stemmi argentini movevano maestosamente verso la riviera di Chiaja.
Quella apparizione improvvisa mi ricondusse bruscamente alla realtà, ed avendo gettato di nuovo lo sguardo sulla svariata moltitudine, rimasi qualche tempo ad osservarla ed entrando poi in una carrozzella, mi allontanai per diporto. Queste carrozzelle, quasi tutte incrostate profusamente di piastre d'ottone, sono comode, abbastanza eleganti e tirate da cavalli generalmente piccoli, ma di aspetto robusto; corrono regolatamente, ma assai celeri sotto le redini dei più esperti guidatori d'Europa dopo quelli inglesi. Il cavallo più selvaggio diventa un agnello nelle loro mani, il che deve anche attribuirsi all'esser tenute queste focose bestiole, invece che sul morso, sopra una forte seghetta munita lateralmente di due lunghe aste di metallo che formano due potenti bracci di leva, per mezzo dei quali ogni cavallo è trattato indistintamente come nelle altre provincie d'Italia si trattano per eccezione i più indomiti. Ma in ogni modo i cocchieri sono eccellenti. Con queste carrozzelle corrono, si insinuano in ogni più angusto passaggio e strisciano e s'incrociano continuamente in ogni verso. Ora si ficcano a trotto serrato giù per le più ripide chine ed ora si arrampicano come tarantole su per montate fortissime, e sempre vispi e sempre allegri, animando i loro ronzini con un diluvio di Iaah! Iaah! E mai uno scontro, mai un urto, mai un'arrotatura fra loro, in mezzo alla baraonda continua di altri legni, di pedoni, di cavallerizzi, di mandre di pecore, di capre e di somarelli carichi d'ogni ben di Dio che sgambettano, ragliano, sculettano e fanno tante altre cose che è un vero prodigio il sentire che noi pestiamo tanta roba senza esser mai pestati da loro.
Spesso calando per una rapida scesa accade di sentire che il cavallo non cammina più, ma patina andandosene giù a rotta di collo di sdrucciolone in sdrucciolone… – Ci siamo! – dici subito fra te – San Venanzio miracolosissimo, eccomi nelle vostre braccia, assistetemi voi… Ehi! vetturino… ma che lavoro è questo? vetturino! – Il vetturino ti guarda e non risponde. – Bà… bada! bada a quella signora, a quel ciuco, a quel ragazzo, a quel ragazzo!.. – Chiudi gli occhi per non vedere un eccidio e ti volti in dietro, ma in quel momento senti rallentare la corsa, il cavallo ha smesso di patinare, cammina regolarmente e siamo in fondo, aaah! – Non hai anche finito il sospiro di consolazione che incomincia una salita del trentacinque o quaranta per cento. Il cavallo s'inerpica meglio d'una capra, si divincola, si ripiega su se stesso, dà falcate e scatta com'un ranocchio, ma il suo piede non attacca sulla lava lustra dall'incessante attrito… – Cocchiere, cotesto cavallo non ce la fa fino in cima. Vuoi tornare indietro, devo scendere? – Cavallo napoletano, signorino, non dubitate di nulla, cavallo napoletano – ei ti risponde, e a forza di tirate di briglia, di iaaah!, e di pizzicotti sotto la pancia, lo rallegra, lo tien ritto prodigiosamente e ti trovi arrivato in cima a certe pettate, dove se i cavalli avessero un po' di religione dovrebbero inginocchiarsi e nitrire un Teddeum a Sant'Antonio miracoloso. San Gennaro e Sant'Antonio devono essere in eccellenti relazioni fra loro.
E da questo attrito, da questa enorme agglomerazione di popolo e da qualche cos'altro, resulta tutto quel lordume che ingombra le vie e che fa di Napoli una delle città più sudice d'Europa. Mi è stato detto da qualcuno che da dieci anni in poi è tanto rimpulizzita da non riconoscersi più. Me ne rallegro tanto tanto e non metto in dubbio quanto mi viene assicurato, ma confesso che la mia fantasia, s'arrabatti pur quanto vuole, non arriva ad immaginarsi un sudiciume più sudicio del sudiciume. – Se un cacciatore mi avesse detto che i corvi, dieci anni fa, eran molto più neri di quel che son ora, mi troverei nello stesso imbroglio.
La monotonia non annoia per certo in questo paese. Ad ogni passo incontri qualche cosa di strano e di bizzarramente nuovo che attira la tua attenzione. Il sistema, per esempio, di utilizzare ogni quadrupede domestico come bestia da tiro, e l'originalità de' connubii che si vedono posti in atto con questi pazienti animali, somministra larghissimo campo al curioso osservatore. Certo non si troveranno i lupi e gli agnelli, i falchi e le colombe aggiogati allo stesso carro, ma un bove e un can mastino che gli faceva da trapelo io gli ho veduti da vero, come ho veduto un bufalo e un microscopico somaro tirare la stessa carretta. Ma questi casi non sono molto comuni. Comunissimi però sono quelli di altri accoppiamenti come: una vacca ed un mulo; un cavallo ed un somaro; due somari e un bove ed altri simili, dove questi filosofi diseredati se ne vanno d'amore e d'accordo, mugliando, nitrendo e ragliando senza rider mai, come se anch'essi la trovassero la cosa più naturale di questo mondo. – E nemmeno gli ovini sfuggono alla utilizzatrice poltroneria dell'Homo sapiens di questi paraggi. Su per una delle gradinate che conducono a Sant'Elmo, vidi una capra bardata di tutto punto con sella all'inglese e briglie e staffe elegantissime che caracollava sotto un cavallerizzo settenne, e in una via del basso porto una pecora che trascinava un piccolo carretto carico d'ortaggio. – Questo parrebbe il non plus ultra dell'originale, parrebbe che tutti dovessero fermarsi e sbellicarsi dalle risa davanti ad ognuna di queste apparizioni grottesche, ma nulla di tutto ciò. Ed è naturale, perchè se ad ogni originalità che ci capita sott'occhio ci dovessimo fermare, si farebbero forse venti passi in tutta la giornata in un paese, dove, fra le altre cose, possono vedersi esposti insieme alla vendita: acque ferruginose e fetz turchi; pane e reggiòle di maiolica; Gesù morti e olive indolcite; e poi miracoli bell'e fatti, eppoi ritratti senza testa e perfino botteghe di barbieri flebotomi, dove in pochi minuti e per pochi soldi ti levano il sangue, i calli, la barba, i capelli e la voglia di tornarvi, e chi sa quante altre belle cose che in tanta baraonda mi saranno sfuggite.
Venite, correte, o pittori del passato, del presente e dell'avvenire; calate, calate a sfamarvi, o titani dell'arte, ai quali manca un soggetto; qui c'è pane per tutti i denti, perchè senza escire dalla città, anzi senza allontanarvi dal centro, troverete e motivi e soggetti da empir tele quante ne fabbrica l'Olanda. Anfore greche, pompejane ed etrusche; carriaggi andalusi; tipi di beduini e di ateniesi; costumi europei del Seicento come lettighe, portantine e rococò d'ogni genere; trasporti funebri spartani; cocottes parigine; cafoni e mandre della Sila e via e via e via. – Calate, calate, scegliete, scegliete e se avete occhi, mani e pennelli, arruotateli, strusciateli, consumateli fino alle barbe, perchè ora è tempo.
Fermiamoci un momento ad osservare i venditori ambulanti: ma chi può tener dietro a questa fantasmagoria? Il numero di tutti questi urloni che, dal levar del sole a tarda notte, girano continuamente colla loro merce sulla testa o guidando per la coda piccoli somarelli stracarichi d'ogni ben di Dio, è favoloso. E venditori d'ortaggio, e pescivendoli e ostricari, e maruzzari e acquafrescai, e venditori d'ananassi, e di castagne, e di carubbe; e limonai, e aranciai, e ciabattini ambulanti, e venditori di giornali, di numeri del lotto, di stampe, di libri, di chincaglierie, di mazze, di burattini… ma chi è buono a contarli? E tutti urlano e nessuno si ferma e nessuno si cheta mai, mai, mai. Ogni dieci passi un versetto della loro piagnucolosa cantilena e via! e sopra ogni trivio una brevissima fermata, dove, guardando in aria e arroncigliando le labbra, berciano e gesticolano, finchè non vedono calare il panierino della loro cliente del settimo piano. Allora solamente si chetano, ma non per stare zitti, veh! Dio ne guardi! ma per contrattare la vendita a venticinque o trenta metri di distanza.
È tale l'abuso che si fa di questo sistema, che assolutamente non mi avrebbe fatto maraviglia l'incontrare un chirurgo a tagliar gambe per la via o un sacerdote con l'altare ad armacollo dire la Messa correndo e il chierico e il popolo dietro per ascoltarla. O che non sarebbero intonate anche queste con tutto il resto? Io dico di sì.
Il lustrascarpe urla invitandoti e fa tonfi battendo la spazzola su la cassetta; il vetturino passa schioccando e se non ha persone sul legno, non cessa mai di sibilare e gridare a destra e a sinistra: – Scì, scì, scì, scì! a vulite, a vulite? – (la volete, la volete?) Facchini carichi come bestie; operai che portano o riportano lavoro, i quali gridano per farsi largo tra la folla; e se a tutto questo si aggiungano: campanacci che tintinnano al collo di capre e pecore in truppe numerose; e belati, e ragli, e nitriti, e muggiti, e organini che suonano correndo continuamente, e corni e cornette di omnibus e tramway, e sonagliere di carriaggi della campagna e strepiti di venditori di giornali coi loro incessanti: – o Pì, o Pun – (il Piccolo, il Pungolo) e la romba continua di migliaja di veicoli; e tonfi e botte e schianti di magnani, falegnami, carrozzieri e centinaja di altri operai che lavorano su la via strillando e gesticolando come pinzati dalla tarantola, si capirà come le persone più tranquille siano costrette, se vogliono intendersi fra loro, ad urlare, e quelle accanto ad urlare più forte di loro, e quell'altre più che mai; e così tutta Napoli è costretta a strillare con un crescendo tale che qualche volta, arrivandomi alle orecchie intronate il suono di campane, le ho benedette e fissandomivi con l'attenzione, mi hanno servito di riposo e ne ho preso refrigerio e conforto.
… In un bollente vetro
Gittato mi sarei per rinfrescarmi.
Quante volte dal folto di questo pandemonio, allorchè udivo appena il cannone di Sant'Elmo scaricato a mezzogiorno negli orecchi di Napoli, ho mandato un pensiero e un sospiro alla languida signora dell'Adriatico, ai suoi vuoti palazzi ed al silenzio de' suoi canali che lascia intendere il fiotto dei remi d'una gondola lontana e il tubare de' colombi su le cuspidi delle sue torri affilate! – Bellissime ambedue queste regine del mare, ma quanto diversamente belle! – Su la laguna posa languidamente la bellissima e pallida matrona, stanca sotto il peso degli anni, povera in mezzo alle sue gemme, ma ricca d'orgoglio per antica nobiltà. Ai piedi del Vesuvio, la voluttuosa e procace Almea, balla in ciabatte la tarantella, e canta e suda povera di tutto, ma ricca di speranze, di giovinezza e di sangue. Quella si nutrisce di mestizia e di gloria; questa, di maccheroni e di luce. Quella coperta di laceri broccati, ma lindi; questa seminuda e lercia, dalle ciabatte sfondate alla folta chioma nerissima ed arruffata.