Читать книгу Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - Джованни Боккаччо, Giovanni Boccaccio - Страница 1
CANTO NONO
I
Senso letterale
Оглавление«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti: nella prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone, e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse; nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza quivi: – «Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta quivi: «E noi movemmo i piedi».
Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio tornare in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, si come gli aveano i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole; ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto, quasi come vinto tornare in volta, invilí l’autore, temendo non gli convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole l’autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato avea nel viso, per la turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse cagione all’autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno turbato che non era.
E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio, ancora in conforto dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare che venga chi’l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice: «Attento si fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre a questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo», discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè tenebroso, per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua natura non è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.
E cosí attendendo, cominciò a dire: – «Pure a noi converrá vincer la punga» – d’entrar nella cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad ascoltare: – «se… non… tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza dell’orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio, soggiugne esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch’altri qui giunga» – il quale abbatta l’arroganza de’ dimòni che la porta serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.
«Io vidi ben, sí com’el ricoperse Lo ’ncominciar», cioè le parole cominciate (quando disse: – «Se… non… tal ne s’offerse» – ), «con l’altro che poi venne» (cioè col dire: – «Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!» – ), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l’autore perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva la parola tronca» (cioè «se… non… tal ne s’offerse), «Forse»; dice «forse» perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s’avesse inteso per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch’e’ non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l’autore Virgilio aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer la punga, Se… non… tal ne s’offerse», che, dove essi vincer la punga non avesser potuto, che il prencipe dello ’nferno dovesse punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle parole, all’autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato l’orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non era la ’ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi non possiam «vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di quello che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga», entrò l’autore in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
– «In questo fondo della trista conca», dello ’nferno, il quale nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma essenziale dello ’nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?» – Pon qui l’autore il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca» vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro, percioché noi diremmo d’uno che molto bevesse: colui «cionca».
«Questa quistion fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei: – Di rado Incontra», – cioè avviene, «mi rispose, – che di nui», li quali nel primo cerchio dimoriamo, «Faccia ’l cammino alcun pel quale io vado», cioè discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui», dove noi siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi incantamenti.
Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo libro, dove dice:
Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,
effera damnarat nimiae pietatis Erictho,
inque novos ritus pollutam duxerat artem, ecc.;
dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle incantazion de’ demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ’l padre di lui e Cesare.
«Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale, partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch’ella mi fece», questa Eritón, per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.
Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de’ congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono, a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti l’anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice, del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente si comprende per Eusebio in libro Temporum; e, che istoria questa si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono, compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro, diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano scioccamente e in loro perdizione.]
«Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel, che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli, e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
«Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare, per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
«Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto, nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere, quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira», – di coloro li quali contrariare n’hanno voluta l’entrata.
«E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto», cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo; «Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite, «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata; «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
«Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata «ydros»; e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda qualunque velenosissimo serpente.
«Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «ceras» in greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il capo de’ capelli loro.
«E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si piagnerá; – «Guarda, – mi disse, – le feroci Erine», cioè le feroci tre furie.
E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone», la terza furia,«è nel mezzo» – delle due nominate di sopra; «e tacque a tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
«Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto; Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo, «al poeta per sospetto».
E quello, che esse gridavano, era: – «Venga Medusa», quella femmina la quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto», – cioè di pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule, o verso lui; – «Mal non vengiammo in Teseo l’assalto», – il qual ne fe’, quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono, non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena, ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina, secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato, ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
– «Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto dalle furie, e l’essere stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati, accioché non la vedesse. Dice adunque: – «Volgiti indietro», accioché tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse: – Tieni chiuso il viso, – e dicegli la cagion perché: «Ché se ’l Gorgon», cioè Medusa chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare nol dice), «e tu ’l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso», – nel mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti tornare né partirti di qui. «Cosí disse ’l maestro», come detto è, «ed egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò, «alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí chiuso il viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si scrive che venne.
«O voi, ch’avete gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’aurore, e, lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che s’asconde Sotto ’l velame degli versi strani», la quale per certo è grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale; li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l’autore avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto disusati a cosí fatto stile.
«E giá venia». Qui rientra l’autore nella materia principale, e comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive l’autore la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venia», avendo mi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un fracasso», cioè un rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso, «Non altrimenti fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da sé, come è il turbo o la bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai, secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali vi dissi essere due, cioè typhon e enephias, e però qui reiterare non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori», cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero, non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento, in quanto si movea velocissimo con l’impeto del vento] «Che fier», questo vento, «la selva», alla quale s’abbatte [le cui frondi percosse il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva, «schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono, «e li pastori» con le lor greggi.
«Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e disse: – Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo, «su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di quelle che all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può assai chiaramente comprendere. Credere’ io che ella fosse alcuna fiamma usa continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo è piú acerbo», – cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.
«Come le rane». Qui dimostra l’autore, per una brieve comparazione, quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli dimostrava, facessero l’anime de’ dannati che quivi erano, e dice che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l’acqua si dileguan tutte», fuggendo, «Fin ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè s’ammonzicchia l’una sopra l’altra, ficcandosi nel loto del fondo dell’acqua, nella qual dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia», usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello della idra, la quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica le rane, si come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di Stige, dove esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.
E poi segue: «Dal volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per le nebbie che v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso, «Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga, si come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía. «E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.
«Ben m’accors’io ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati, che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo ’nferno commuoversi alla venuta d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice: «E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare, appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’ segno», a me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad esso», facendogli reverenza.
«Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano. [E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote, era commosso.]
«Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella destra man portava, per la quale si disegna l’uficio del messo e l’autoritá di colui che ’l manda. [E, secondo che i santi vogliono, questo uficio commette Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie celesti, fuorché a’ cherubini non si legge essere stato commesso: e mentre che quello beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso, si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da «aggelos» graece, che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione, non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè «vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s’abbia.]
«L’aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere tutto il mondo.
– «O cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s’erano fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro a loro. Dice adunque: – «O cacciáti dal ciel» per la lor superbia, «gente dispetta», – cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su l’orribil soglia», della porta la quale era aperta, – «Onde», cioè da qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che voi fate, «in voi s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia», di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire, conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha cresciuta doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo dello ’nferno, sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di cozzo?»
Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro se non voler cozzare col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ’l muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel decimosettimo canto del Paradiso. Ma, percioché qui, poeticamente parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, in libro De natura deorum, scrive queste essere state figliuole d’Erebo e della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate», dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è intitolata Edipo, dove dice:
Fatis agimur, credite Fatis:
non sollicitae possunt curae
mutare rati stamina fusi.
Quidquid patimur mortale genus,
quidquid facimus, venit ex alto,
servatque sua decreta colus
Lachesis. Dura revoluta manu,
omnia certo tramite vadunt,
primusque dies dedit extremum.
Non illa deo vertisse licet,
quae nexa suis currunt causis.
It cuique ratus, prece non ulla
mobilis, ordo; multis ipsum
timuisse nocet: multi ad fatum
venere suum, dum Fata timent, ecc.
E questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume, dove introduce Giove cosí parlante a Venere:
…tu sola insuperabile Fatum,
nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum
tecta trium: cernes illic molimine vasto
ex aere, et solido rerum tabularia ferro:
quae neque concursum caeli, neque fulminis iram,
nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas.
Invenies illic incisa adamante perenniFata tui generis, ecc.
Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state da’ poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state attribuite al servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio dice, nelle sue Mitologie, queste essere attribuite al servigio di Plutone, iddio dello ’nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo l’opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi, secondo una significazion di quelle.]
[E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa fata s’appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato, accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione» o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato fuori in luce, Lachesis l’ha a ricevere e trarlo avanti nella vita. Atropos è detta ab «a», quod est «sine», e «tropos», quod est «conversio», cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense, filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e dell’opere di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama Cosmografia, scrive cosí: «Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum, id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere. Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis, quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus desit», ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene, guidata e menata.]
[Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa, se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e, peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque, secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo, come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]
[Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «for faris», il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel libro De civitate Dei: ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto delle fate.]
Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore: – «Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». – Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò.
«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.
«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine. «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
«Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati, per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno, quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]
E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela nel secondo libro della sua Cosmografia scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’ quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo De historia naturali, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo: «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono Carnares. «Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «evello evellis», percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso, cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed io: – Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»? – la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si possono.
«Ed egli a me: – Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome ab «haeresis» et «arce», quod est «princeps», quasi «principe d’eresi». «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono; e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il quale sant’Agostino scrive Degli eresiarci, e delle qualitá de’ loro errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro, cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano, Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti, ma esservi «Co’ lor seguaci», ed esservi «d’ogni setta» d’eretici. E chiamale «sètte», il qual nome viene da «seco secas», il qual vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla cattolica fede, e poi son divisi infra sé, si come coloro li quali niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo tempo questa perfidia.
«Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in una medesima arca col prencipe loro.
«E’ monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo canto l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»; nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei», «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi «seorsum a pulchro», percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai, essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si dice «tumba», quasi «tumulus bombans», cioè cosa rilevata che rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’ riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo», per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo, e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di chi v’è dentro seppellito, e dicesi da «sarca», graece, che tanto vuol dire quanto «carne», e «paghos», che tanto vuol dire quanto «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito. Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri, si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie, fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa; percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria, e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero. Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo» nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.
E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto», Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi che quivi espediti erano.