La soddisfazione di avercela fatta
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Michele Bornaschella. La soddisfazione di avercela fatta
Ringraziamenti
Parole dello scrivano..
Prefazione
Capitolo I. Montaquila, il paese natale
Capitolo II. L’origine dell’immigrazione
Capitolo III. Il mondo dall’altra parte del mare
Capitolo IV. Crescere dall’altra parte del mare
Capitolo V. La cultura del lavoro e altre usanze italiane
Capitolo VI. I primi lavori
Capitolo VII. L’inizio di un lungo percorso lavorativo
Capitolo VIII. L’esercizio del commercio e il modello americano
Capitolo IX. La mia impresa
La prima volta que sono tornato in Italia
Capitolo X. Non ci sono due paradisi
Capitolo XI. La mia famiglia
Capitolo XII. Schiarire la mente e proseguire
Capitolo XIII. Iniziare tutto di nuovo (ancora)
Capitolo XIV. Un nuovo commercio internazionale
Capitolo XV. La calma dopo la tempesta
Capitolo XVI. Nuovi settori
Capitolo XVII. Un viaggio al contrario, 50 anni dopo
Capitolo XVIII. I miei nipoti
Capitolo XIX. L’ultima avventura?
Indice
Отрывок из книги
MICHELE BORNASCHELLA
LA SODDISFAZIONE DI AVERCELA FATTA
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Terminata la seconda guerra mondiale, oltre alle ferite che si vedevano e quelle che non si vedevano, c’erano altre conseguenze più concrete e meno dolorose. A causa dello spostamento al nord, per la fretta necessaria o per il bisogno di proteggersi, durante la loro ritirata le truppe lasciarono diverse cose lungo la loro strada. Quando tornò la pace e il paese e dintorni non furono più occupati dalle truppe dell’una o dell’altra parte, si potevano trovare dappertutto resti dei loro averi ed effetti personali. Era molto comune trovare stivali, camicie sporche, così come grandi quantità di proiettili in sacchi di stoffa, pneumatici fuori uso, pezzi di jeep e camion delle truppe e persino un carro armato. I pezzi di ferro erano raccolti e venduti come rottami in diversi punti del paese. Così si riusciva a migliorare un po’ la condizione economica di ognuno. Coi copertoni degli pneumatici si realizzavano calzature casalinghe chiamate “scarponi”. Erano veri e propri certificati di povertà, ma, in mancanza d’altro, risultavano di grande utilità. Le gambe si coprivano dai piedi fino a sotto alle ginocchia, con un pezzo di stoffa di lino. Quindi si collocavano i pezzi di gomma, ben tagliati in base alle dimensioni del piede, lasciando un bordo ad ogni lato con dei piccoli fori dove si facevano passare delle stringhe di cuoio. Queste stringhe si incrociavano cercando di emulare quelle dell’ “età moderna”, e con lo stesso procedimento si continuava fino a sotto le ginocchia. Più fortunati erano coloro che trovavano le gomme delle moto, poiché, essendo più strette, si adattavano al piede in modo “anatomico”. Inoltre, l’uno o l’altro tipo di calzatura permetteva di non dover pensare a piccolezze come doverle lucidare o distinguere il sinistro dal destro.
Una volta, un compaesano e mio padre trovarono una ruota. Era gonfia e aveva persino il cerchione. Pronti a farsene i propri “scarponi”, l’aggredirono con il primo attrezzo che avevano a portata di mano. Così cercarono di attaccarla con un’ascia, ma la ruota, come se fosse viva, restituì loro il colpo facendoli a sua volta rimbalzare l’uno sull’altro. Non si diedero per vinti e con l’ascia e altri attrezzi, riuscirono a ferirla abbastanza perché esalasse la sua aria fino all’utilizzo desiderato.
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