Читать книгу La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II - Various - Страница 1
L'OPERA DI CAVOUR
ОглавлениеCONFERENZA
DI
EMILIO PINCHIA
Allorchè Tommaso Carlyle incominciava nel 1839 le sue celebri letture sugli Eroi, presentì la disputa che, colorandosi di scienza, si avvivò, ai nostri giorni, intorno al modo di essere dei grandi uomini, ricercandone con minuziosa indiscrezione le particolarità fisiologiche, ricostruendo, come si dice, l'ambiente entro il quale nacquero e si educarono, cercando di sorprendere il segreto delle esistenze meravigliose nelle funzioni dei nervi e del ventricolo.
Carlyle indovinava l'evoluzione di un pensiero scientifico tanto orgoglioso, che dalla conoscenza della materia organica ascende imperterrito ai misteri della psicologia.
Ancora l'ombra crucciata di Leopardi muove angoscioso lamento, perchè le ineffabili melanconie della sua anima innamorata e dolente, dalla profanazione invereconda, sono trasfigurate in psicosi epilettoide!
Diceva allora Tommaso Carlyle: «Mostrate ai nostri critici un grande uomo, un Lutero, per esempio; incomincieranno, come essi dicono, dallo spiegarlo; non lo ammireranno; ne prenderanno la misura e diranno che è un prodotto del tempo.»
Il tempo!
Ahimè, sappiamo di tempi che invocarono ad alte grida il loro grande uomo! Non vi era. La Provvidenza non l'aveva inviato; il tempo doveva sfasciarsi in confusione e ruina perchè egli, l'invocato, non voleva sopraggiungere.
Eccoci oggi, che è giorno di data augusta,1 quasi fatidica, di fronte alla figura del conte Camillo Benso di Cavour.
Egli è nato nel 1810 a Torino, in grembo ad una famiglia di alta nobiltà; nelle vene gli scorre un po' del sangue di San Francesco di Sales. Da moltissimi anni, da secoli i suoi antenati servivano in campo ed a Corte; egli stesso era stato tenuto a battesimo da un cognato di Napoleone, del quale il padre era ciambellano. Trascorse i primi anni nella intimità di due zie profondamente legittimiste e ultramontane – era allora una parola di moda per designare i clericali – in mezzo ad una serie di congiunti infervorati in quei ripicchi delle restaurazioni, che, dopo il 1815, si ripagavano delle umiliazioni di venticinque anni.
Ebbene, fui da quel tempo, una di quelle zie, la duchessa di Clermont Tonnerre compiangeva e deplorava: «Le pauvre enfant, diceva del giovane Camillo, est entièrement absorbé par les révolutions.»
Le pauvre enfant non voleva tornare indietro e, costretto alla milizia dalle tradizioni della schiatta, scelse il corpo del Genio, il meno militaresco, il meno aristocratico, ma il più studioso e serio.
Condotto a fare il paggio in Corte per diritto di sua nascita e per obbligo della sua condizione di cadetto, non tardava a buttar in aria quella che egli chiama, con poca reverenza, una livrea.
I novatori cominciano tutti ad un modo: si fanno ribelli. Ma sono codeste le ribellioni che costano di più. Non mutano le consuetudini, nè la compagnia: ma quelle diventano irritanti, questa ostile; ne sono turbate le amicizie; l'ironia, la celia, il benigno compatimento lasciano trasparire l'irrisione. Niun conforto, se non la serenità della coscienza e la sincerità dell'animo: niuna che non sappia di diffidenza e di canzonatura. Camillo di Cavour, frugolo, irrequieto baldanzoso, esuberante, vivacemente eccitato dagli spettacoli di un mondo che spezza i ceppi e tenta vie nuove; avido di vita e tumultuanti nel suo capo idee, ambizioni, propositi, esce un bel giorno in una profezia:
– Sarò ministro del regno d'Italia. —
Il regno d'Italia!
Voi lo sapete, che cosa significava nel 1830 questa espressione?
Ne parlavano gli avanzi dell'èra napoleonica come di un sogno o di un'allucinazione. Nessuno osava risuscitarlo, neanche come illusione, neanche come speranza! La più stravagante fra le chimere! Un delirio di pazzi o uno sproloquio di rimbambiti!
Questo il regno d'Italia dopo il '21, dopo Laybach, dopo Verona.
Ed ecco che il paggio turbolento e recalcitrante è confinato al forte di Bard, uno dei baluardi che la Santa Alleanza voleva rafforzati in odio della Francia e del liberalismo occidentale.
Il forte di Bard domina una stretta gola nella valle di Aosta, in uno dei punti più austeri e più cupi della valle, un torvo ciglione si accampa e la sbarra.
La fortezza vi sta sopra e le atticciate casamatte dominano il corso della Dora Baltea, che mugola impetuosamente, scavandosi il letto nel sasso. Intorno: altre rupi elevate, nude e bieche. Il paesaggio è rude, imponente, ma melanconico e selvaggio.
Il giovane ufficiale vi espia le intemperanze del linguaggio. Non è un gaio soggiorno, a vent'anni! Ma egli vi reca quel buon umore, che sarà la sua caratteristica, quella curiosità attiva, che gli farà imparare tante utili cose. Alla sera, verso il tramonto, egli suole scendere al fiume e si asside sopra un masso che l'acqua lambe.
Quali allora i pensieri di lui? Di certo, fra le sue pupille vagano le vaghe prospettive di cose nuove e sconosciute. Lo sguardo di Colombo fanciullo, in riva al mare.
Le montagne alte nereggiano intorno a quel biondeggiante capo destinato alla storia, la fronte spaziosa s'irradia dei chiarori di quel cielo limpido e freddo dell'alpe, che è tanto luminoso!
Passeranno molti anni, e i terrazzani avranno battezzato quel rustico sedile: la pietra di Cavour. Ma egli non ricorderà con piacere quelle giornate. È l'esilio, è l'esilio dal mondo, dove il petulante e attivo ingegno si alimenta. Però, non invano l'avrà visitato la meditazione e non invano quello spirito indipendente e spregiudicato avrà respirato la poesia della solitudine. Contro il sentimentalismo e la poesia, Cavour scoccherà i suoi frizzi: egli pretenderà di essere negato all'arte ed all'imaginazione. Ma intanto, quale poesia più affettuosa e delicata, quando appenderà innanzi al suo tavolo di lavoro la tunica del nipote Augusto, caduto a Goito per l'Italia e quel drappo forato da palle austriache, unica eredità che egli avrà voluto, sarà là come il pio simulacro del voto giurato nel suo cuore; il voto all'Italia, per la vita! È un voto di giovani anni e la solitaria rupe di Bard ne fu forse il primo testimone, a divampare dei presentimenti che la rivoluzione del 1830 accendeva nell'animo di lui.
Egli è così fatto che, appena imprese a meditare, i problemi morali e politici del suo tempo gli si affacciarono intieramente.
Li vide colla veemenza di un'interna visione e concepì l'altezza morale della libertà e dell'indipendenza, stimandole il fondamento di una saggia e dignitosa educazione civile.
Condotto dai suoi studi di matematica, dall'indole equilibrata a non scambiare il fatto con la parvenza, a mettere l'accordo fra il pensiero e l'azione, a nulla trascurare che rendesse questa più efficace, egli intendeva altresì che la libertà, la indipendenza nazionale erano necessarie al movimento sociale ed economico, che il suo perspicace intelletto gli dipingeva.
Breve fu l'esiglio di Bard. Il giovane patrizio, insofferente di formalismo, non potendo, per ossequio alla volontà paterna, mutare di cielo, come aveva fatto Vittorio Alfieri, muta, se non altro, occupazioni, abitudini, tenore di vita.
Egli si butta all'agricoltura.
Una vasta distesa di campi, in una pianura monotona, dalla quale a malapena, nelle giornate chiare, si scorge il bianco frastaglio dell'Alpe piemontese.
Un'abitazione rurale, intorno alla quale si affaticano contadini e brulicano mandre copiose, diventa il centro dell'attività di Cavour.
Quest'uomo che nega a sè stesso il dono di poesia e che, desto all'alba, passa i giorni nei campi, nelle risaie, nei prati, intento alle seminagioni, ai concimi, alle irrigazioni, all'incrocio dei merinos, all'ingrassare dei buoi, scrive nobili lettere, così lucide e liete, nelle quali la vita dei campi vibra di così grande efficacia morale ed intellettuale, come nessuna egloga virgiliana.
E intanto egli riconosce le quistioni economiche che dominano il mondo moderno. Nella pratica dell'agricoltura riscontra i concetti, le formule, i presagi dell'Economia politica: quando gli capiteranno i libri di Bastiat, avrà già intuito le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli e concepito che la libertà economica è il segreto dell'ora che volge.
Allorchè, nei riposi della vita austera e laboriosa, egli viaggerà in Francia e in Inghilterra, compiacendosi di investigare tutti i segreti della vita moderna, vi ritroverà quel che già aveva indovinato.
Ma l'agricoltura è anche un'occasione per divulgare, colle cognizioni scientifiche, lo spirito di associazione, di stimolare l'attività sociale che egli indirizza alla produzione tecnica, al credito, ai primi aneliti dell'industrialismo, strappando al pauroso dispotismo le timide licenze.
Egli pensa ad una banca per azioni e, insieme al suo amico Petitti, esamina il nuovo problema delle strade ferrate. È una rivelazione: l'avvenire politico dell'Italia si schiude nella mente di Cavour. Fin dal 1842, egli sogna una vertiginosa corsa di traffici dalle Alpi al Jonio. Questo grande intelletto moderno rivede per la sua Italia la grandiosità delle antiche vie romane! E, insieme a tutto ciò, la coscienza completa di quanto occorre alla rigenerazione delle plebi!
Egli ha studiato la quistione Irlandese e ne scrisse pagine che sono viventi anche oggi, ha indagato il pauperismo e quell'embrione di legislazione sociale che era la tassa dei poveri in Inghilterra. Allora, quello spirito liberale, vede che l'educazione è il primo passo all'affrancamento e si accinge ad introdurre in Piemonte le scuole del popolo. L'intento è pericoloso: il governo di allora non s'acconcia alla novità: tutto ciò che sa di associazione, quanto nella istruzione o nella cultura esce dalle vie tracciate, inflessibili come dogmi, appare un sintomo di rivoluzione. Cavour persiste. Una società agricola si fonda, si aprono i primi asili infantili. Nè Cavour è solo in questa opera. Tutta una agitazione aperta, feconda, generosa, alla quale prendono parte i migliori del Piemonte. Ingegni austeri e pensosi, che si raccolgono nella libreria del conte Sclopis e s'incoraggiano nell'ospitalità del signor di Barante, l'ambasciatore di Francia, nel cui salotto, un giovane segretario, il signor d'Haussonville recava gli echi di Coppet, l'intellettuale cenacolo del liberalismo europeo. Presso il signor di Barante si adunavano quanti, a Torino, volevano respirare. Dura, monotona, servile vita era allora quella di codesta capitale, e lo fu sovratutto nel tempo che corse dopo i tentativi del '31 e del '33, fin verso il '45. Epoca oscura, nella quale Carlo Alberto seguitava l'angosciosa tenzone, chiuso nel suo enigma, mentre i ministri di lui si esercitavano alla più sospettosa reazione.
Vi sono lettere di Cavour che narrano quella vita angusta: la prigionia entro la quale il grande ed agile spirito soffocava. Tuttavia la esistenza di lui in quel tempo è una preparazione psicologica ad un'intensa azione, intanto che il suo intelletto si addestra con ostinata costanza a tutte le peripezie di una vita pubblica feconda ed attiva. Non vede come arrivarci, talvolta ne dispera. Per giunta, il suo cuore è spezzato dal triste epilogo di una storia d'amore. Intorno ad essa è il mistero, ma ne traspare tanto da comprendere la profondità dei sentimenti in questo gagliardo e gioviale uomo d'affari, come egli ostentò di parere.
È stato veramente un uomo grande. Nessuna cosa della umanità è fuori di lui ed egli nobilita l'umanità e innalza il dolore e l'amore colla delicata sensibilità nell'afflizione pudicamente discreta.
Ebbe un amico carissimo, un'amica prediletta e sacra. Perdette l'uno e l'altra: ne sofferse, tacque e si volse alla patria.
Per tal modo, appena qualche bagliore di vita pubblica strisciò sull'orizzonte, Cavour fu tra i primi ad acclamarlo. Era pronto. Fu guida alla schiera modesta e gagliarda che si raccolse nelle sale del Risorgimento, il giornale tosto fondato, appena che venne concessa qualche larghezza alla stampa.
E nelle agitazioni che corsero l'Italia in quei giorni, quando un papa liberale sollevò gli animi, allorchè le moltitudini intravidero nelle promesse del pontefice un'aurora e incominciarono a pensare e volò il grido di riforme!, nella redazione del Risorgimento fu maturata la proposta che si chiedesse senz'altro indugio una costituzione.
In un'adunanza di liberali d'opposte parti parlò in questo senso Cavour, e le parole di lui destarono sospetto nelle ricongiunte fila della democrazia.
Questo nobile figlio del vicario – il capo della polizia – questo gran signore, noto per le sue predilezioni inglesi, dal fare sarcastico ed aggressivo, non piaceva. Lo chiamavano mylord Camillo; e, per parecchio tempo, la caricatura si esercitò a raffigurarlo con un piccolo codino. Era un codino di strano conio, che aveva pensato alla libertà e vi aveva creduto prima di tanti altri che se ne facevano allora gli araldi: un uomo che aveva studiato i più elevati problemi della morale politica colla energica tempra sorretta da fede e da ragione, con abitudini di libero esame; scevro di scrupoli e non intollerante.
Egli aveva da lungo tempo seguìto colla logica inflessibile della mente il cammino delle idee liberali a traverso l'Europa e lo aveva seguìto con quella tendenza spiritualista, che è singolare prestigio negli uomini di azione.
Grandi insegnamenti erano state le vicende del primo periodo riformatore in Inghilterra, la storia del regime parlamentare sotto la monarchia di Luglio, e le agitazioni della Penisola Iberica.
Egli aveva ammirato la previdente abilità di Wellington, di lord Gray, di Roberto Peel; deplorato le miserie del Carlismo e le fatali conseguenze dell'impeccabilità politica dei re: aveva conosciuto la triste povertà dei risultati di una politica demagogica all'infuori del reale, le perniciose deviazioni di un parlamentarismo, smarrito tra l'asservimento delle maggioranze, gli intrighi dei ministri, le ambizioni dei competitori e l'ostinazione egoistica del principe, come era accaduto in Francia, dopo la morte di Casimiro Perrier.
Questi spettacoli avevano suscitato entro di lui una coscienza politica impregnata di sano realismo, intanto che il suo genio matematico gli rivelava il dinamismo delle istituzioni costituzionali, in cui egli ravvisava la sicura guarentigia di libertà per i popoli, un sincero e potente mezzo di azione per i Governi.
Agli occhi suoi di veggente, le inclinazioni dei tempi apparivano in un'armonia completa delle promesse effuse a attraverso il mondo dalla rivoluzione, che aveva inaugurato il secolo colle prospettive che rinverdivano sul lucido orizzonte dell'avvenire. Spirava evidentemente l'alito di novità sul mondo occidentale.
La vita moderna fremeva di ardori sconosciuti. Le invenzioni e le scoperte mettevano sottosopra la quietudine antica. È in quei tempi che il giornalismo conquista la sua potenza straordinaria e crea la opinione pubblica; che le macchine suscitano un mondo industriale, e il vapore e l'elettricità cominciano a mutare l'aspetto dei continenti e a trasformare sensibilmente gli ordini sociali.
La espansione nuova imponeva nuove forme di rapporti, e l'economia politica che già aveva rivelato tutta una serie di fenomeni inesplicati, si avvaleva di codesto espandersi, di codesto moltiplicarsi dell'attività e della ricchezza per reagire sull'assetto internazionale, sull'ordinamento interno degli Stati.
Studiando il tempo suo, Cavour previde che lo spirito liberale avrebbe eccitato l'opinione pubblica, stimolandola ad un'azione assai più grave e profonda di quella, cui credevano di doversi restringere i famosi dottrinarii francesi. Gente di onestissimi propositi, ma impigliata, senza avvedersene, in una specie di mandarinato politico. Onde egli, non senza ironia, amava proclamarsi «juste milieu;» espressione messa alla moda da Luigi Filippo.
Ma il suo «juste milieu» egli non intendeva che fosse il fermarsi come che sia. Proclamerà un giorno in Parlamento che «i cannoni e le baionette non sbarrano la strada alle idee.»
Era convinto che il movimento non si poteva nè si doveva trattenere. Ogni ordine di cittadini, intervenendo omai nella colossale collaborazione, occorreva accertare in loro cospetto che la libertà non è mezzo soltanto, ma fine di alta moralità da conseguire.
Posto in questi termini il problema di governo, il cómpito dello Stato materialmente si disegna nel secondare e coordinare l'impeto del rinnovamento.
Si è perciò che Cavour fu tra i più convinti fautori del regime rappresentativo.
Le formule costituzionali, le due Camere, non erano per lui una formale asseveranza di diritti nominali, una convenzionale espressione della sovranità popolare, bensì un sapiente metodo di governo, in tempi di progredita coltura e di gagliarda espansione individuale.
Ma questo concepimento dello Stato moderno esige un popolo che abbia ferma coscienza della vita nazionale, e per ciò il Cavour, se non da prima unitario, fu certamente sempre un ardente fautore dell'indipendenza.
Esaminando le condizioni dell'Europa, le aspirazioni alla nazionalità, – che la fallace resistenza ai moti del Belgio e di Grecia, lo stridore delle contese in Polonia, il fermento sulle rive del Danubio annunziavano come prossimo segnale di rivendicazioni e di battaglie, – ne traeva auspicii per la causa italiana.
Uomo politico avventurato, che i meditati disegni della sua giovinezza potè colorire nella realtà luminosa, vide sorgere dal profetico sogno l'evento, saldo sempre sul fondamento di principii, sopra del quale tutta l'azione politica sua si innalzò. Ad una parola inorridivano, non soltanto i reazionarii, ma anche i nuovi arrivati e gaudenti, coloro che arricchitisi colle sue spoglie, si inorgoglivano di essere chiamati figli della rivoluzione.
La parola appunto: rivoluzione.
Di qui, un ibrido conservatorismo, mantenuto in vita mediante spedienti e compromessi, transigendo con tutti, tutti scontentando, fra la universale irrequietudine.
Cavour, con sicuro istinto, riconobbe lealmente il fatto rivoluzionario, vi ravvisò l'annunziazione dell'avvenire.
Importava dirigerlo, richiamarlo, avviarlo a fini di governo. Questo egli volle.
E così, nei primi giorni dello Statuto, contrastò con freddo consiglio le esuberanze e le impazienze, tanto da perderci il seggio in parlamento.
Ma quando la democrazia ebbe per virtù del Gioberti il lampo chiaroveggente della lega italiana e dell'intervento in Toscana, Cavour fu con Gioberti.
In tutta la fase prima della rivoluzione italiana, nel periodo del 1848-49, dopo Novara, durante le angoscie, i tumulti, gli scoraggiamenti, le incertezze di un'ora nella quale patria e libertà parvero sommerse, il Cavour giornalista, deputato resistette all'irrompere delle estreme parti, si ostinò nella sua politica. Credette il volgo che egli volesse, immobile, ancorarsi sul presente, e già nel segreto dell'anima ardente balenavano le folgori di rivincite non lontane.
Iddio che, se suscita gli uomini grandi, fornisce loro il campo e i mezzi di azione, fece sorgere accanto a Camillo di Cavour colui che lo comprese. Vittorio Emanuele II, dal trono, glorificato con l'atto di baldanzosa lealtà al quale il generale Radesky si era dovuto inchinare, stese la mano a Cavour.
Cospirarono insieme, e lo gridò un giorno Cavour dal suo banco il ministro: di quella cospirazione venti milioni di italiani annodavano le fila, in silenzio.
Vittorio Emanuele salvò a Vignale la causa italiana. Il suo primo ministro di allora, Massimo d'Azeglio, preservò la costituzione dalla impotenza, lo Stato dall'anarchia.
In quei giorni Cavour ritornò alla tribuna parlamentare: sgabello o tripode, là è la fortuna dell'Italia nuova.
Diceva allora Cesare Balbo: «lo Statuto, null'altro che lo Statuto.»
Replicava Cavour: «lo Statuto con tutte le sue conseguenze.»
È la Rivoluzione fatta governo, che si modera per proporzionare i mezzi ai fini ed a ciascun giorno assegna il cómpito, risoluta, impavida, certa che nessun reggimento vale, se non è sincero fino all'estremo, checchè si dica.
Ecco profilarsi il vero conte di Cavour: l'uomo nuovo, nato proprio per il suo tempo. Non ha rancori nè pregiudizi.
Appartenente ad una casta spodestata dalla rivoluzione, non soltanto rinuncia allegramente al privilegio, ma si compiace che trionfi la dignità umana. Questo sentimento domina tutte le azioni sue: egli vi fonda le sue ambizioni di patriotta e di liberale.
L'avvenire della Società europea gli appare chiaramente a traverso questo lucido cristallo, e gli sorride che la patria sua sia esempio di dignità coraggiosa.
Così egli si circonda di nobile poesia, che l'istinto popolare decora co' suoi entusiasmi.
Egli è già quel Cavour, che nelle imaginazioni e nei ricordi del popolo italiano vive in un chiarore, che splenderà finchè duri la memoria del nostro secolo.
Il suo indipendente carattere lo emancipava fino dalla giovinezza. Non egli dovette disdirsi, rinnegarsi.
Nè abbandoni nè apostasie. Allorchè l'ora scoccò, era sciolto da ogni impegno verso il passato. In quel punto, potè essere capo dei liberali in Piemonte e come quegli che, nella assoluta indipendenza dello spirito, aveva ripudiato le tenerezze della casta e i favori aristocratici, sentiva in cuore il diritto di irrigidirsi contro le invidie ed i sospetti della demagogia, di reclamare altamente la gloria di dare il nome suo all'opera di libertà: arbitro e moderatore.
Un'immensa forza questa per lui e, ad accrescerla, il valore pratico della mente, la famigliarità degli affari, la penetrazione acuta del congegno di tutta la vita contemporanea.
Cedendo a lui il posto, Massimo d'Azeglio poteva scrivere: «Sano di mente e di corpo, una attività indiavolata e poi… tanta voglia di stare al governo! Ottimo d'Azeglio! Questa voglia era fatta di fede e di sincerità, di ardore appassionato e di convinzione profonda.
Bisogna penetrare un po' addentro a queste anime e sentire come palpitano, ferventi. Ambizione, ambizione! È denigrare noi stessi il supporlo, quando la patria aspetta, e le più alte idealità umane sorridono. È predestinazione, non ambizione.
È il segnato in fronte che afferra il labaro e muove alla conquista.
Egli cammina innanzi alle turbe!
Immaginiamo quei giorni.
Fresche ancora le ferite di Novara, la gente cominciava appena a riaversi ed a guardare attorno.
Una fazione potente per schiatta illustre, per servizi alla monarchia, altera nella incorrotta fama, che fu il pregio grande dell'aristocrazia subalpina, avversava il nuovo ordine di cose.
Era gente che aveva difeso in battaglia lo Statuto e la causa nazionale, ma non credeva all'Italia, nè alla costituzione. Ci vedeva il precipizio della dinastia: armeggiava in Corte. Non attorno al Re, inaccessibile e risoluto, bensì presso la regina, la madre e la moglie del Re, timide, pie, austriache entrambi. Angeli di bontà, ma nel cuore, arciduchesse. Una parte di codesti signori si adoprava in Senato. Una specie di vecchia fronda, senza duchesse di Longueville, ma con qualche virgulto di cardinale di Retz. Il profilo ne balza dalle pagine di un memorandum lasciato dal capo, il conte Solaro della Margherita: un piccolo Metternich, si diceva.
Ma era un Metternich buon diavolo.
Accanto a costoro, si schierava in altezzosa dignità, la falange dei conservatori che avevano consigliato e sottoscritto lo Statuto, illustri e sapienti, liberali per natura e generosità di animo, conservatori per tradizione, per scrupolo, per istintiva repugnanza alla democrazia in azione, per timore di esserne soverchiati.
Seguivano i liberali democratici, propensi per indole, per studi, per istintiva saviezza ai consigli prudenti, ma decisi al trionfo dei principii liberali, ad ogni costo; ardenti per la causa italiana, diffidenti di persone e di cose che rammentassero il governo passato, sospettosi della Corte, della nobiltà, dell'alto clero.
Seguivano i democratici ad oltranza, i rivoluzionari per temperamento o per professione, reboanti di declamazioni contro i troni e le chieriche, esalanti verso il barbaro ed i tiranni le più rumorose contumelie, frementi ancora del lievito quarantottesco: santo e benedetto lievito che aveva fatto le barricate, ma che nell'ora melanconica del raccoglimento, dopo la sconfitta, appariva meno opportuno.
Intorno al mondo politico: una nobiltà restìa, un clero avverso, una borghesia scontrosa e un popolo sbalordito da tante novità, che si risolvevano in maggior carico di tributi.
A poche marcie da Torino, l'Austria che vegliava e nulla avea dimenticato.
Per l'Europa correvano ancora i brividi del '48, quando la rivoluzione era penetrata anche a Vienna; era stato appunto codesto scoppio di uragano che avea ribadito in Cavour il convincimento di una politica liberale e progressiva. Ma in quanti pochi a seguirlo!
Poichè la paura dominava gli uni, il furore acciecava gli altri e il vecchio spirito europeo stava coi primi. I principi italiani, nell'Emilia, a Napoli, ne erano incatenati; il papa scagliava l'anatema al Piemonte, e fin la Francia, terrorizzata dal colpo di stato di Napoleone III, appariva nel momento un'incomoda vicina, dalla quale i costituzionali subalpini non speravano consigli ed incoraggiamenti. Doveano star paghi delle lontane e platoniche simpatie dei whigs inglesi.
D'altra parte, non erano spente le ire, ne sopite le audacie dei demagoghi, alleati con tutti i vinti del '48, coi reduci di tutte le insurrezioni, di tutte le barricate: dispersi per la Svizzera, per l'Inghilterra o rifugiati in Piemonte.
Le potenze centrali, Prussia e Confederazione germanica, si tenevano mute, avvinte all'Austria: Niccolò di Russia ricordava all'Europa di essere il depositario del 1815, il personale avversario delle Costituzioni.
Correvano presentimenti sinistri.
L'Ungheria fremeva ricordando i suoi martiri; la Polonia rodevasi, debellata non vinta, e quel tricolore innalzato là, ai piedi delle Alpi, segnacolo di agitazione, speranza di rivoluzionari, intorno al quale si raccoglievano profughi e parlavano di nazionalità, di indipendenza; quel vessillo che copriva coll'allegria de' suoi colori festosi una costituzione ed un parlamento, sembrava una provocazione, una sfida.
Il Piemonte era il temuto ribelle!
Comporre negli animi la concordia, la fede negli ordini nuovi, rassicurare l'Europa serbando fede alla causa italiana, preparare Re, parlamento e popolo agli ardimenti, creare in Piemonte una coscienza patriottica suscitandovi l'ardore dello spirito nazionale, infondere negli uni la confidenza e l'audacia, negli altri la prudenza, effondere sovra tutti il magico alito della libertà, questo fu il grande, il magnifico pensiero di Cavour.
In questa coraggiosa preparazione è la principale opera sua, la vera opera sua. La sua azione in quel tempo fu tanta e così potente, che avvinse la storia.
Essa dovette seguirlo ed obbedirlo.
Mostrò, allora, subito quel che occorreva.
Il suo memorabile discorso del 7 marzo 1850, meglio un manifesto che un discorso, è programma di azione.
«Come starsene immobili?
«Pensiamo un po'. La rivoluzione da una parte, co' suoi urti, le sue improntitudini; L'Europa monarchica e conservatrice dall'altra, sospettosa, diffidente, cupida di soffocare ogni idea liberale.
«La immobilità sarebbe l'umiliazione e la ruina. Il Piemonte scenderebbe al livello degli altri staterelli, l'Italia perderebbe ogni speranza. Altri fini, diceva, altri fini deve conseguire la nostra nazione, deve conseguire l'Italia!
«Lo Statuto non può rimanere una formula vana: esso è strumento capace e poderoso.
«Adopriamolo.» Questo, in succinto, è il pensiero. Nella mente di Cavour, la costituzione era cosa viva: i partiti dovevano fecondarla; partiti organici, logicamente ordinati con idee e con programmi. E questi partiti occorreva crearli, perchè le agitazioni estreme svanissero, infeconde. Occorrevano riforme, per evitar le violenze. Egli scriveva nel 1860: «prevenendo gli avvenimenti, secondando ciò che vi è di giusto e di nobile negli istinti popolari, si rendono impossibili le rivoluzioni.» Fu il primo serio tentativo della vita libera in Italia.
Il discorso del marzo ottenne l'effetto che Cavour desiderava: quello di schiarire la situazione innanzi all'opinione pubblica.
Un anno dopo Novara, per bocca di Cavour, la Camera Subalpina preannunciava il parlamento del 1861. Nessuna meraviglia quindi, se codeste parole rintronarono fra le moltitudini.
Cavour incarnò, fin da quel giorno, le speranze italiane, e quando, pochi giorni dipoi, Vittorio Emanuele firmava il decreto che lo faceva ministro, dicendo al d'Azeglio: «Badate, costui vi scavalcherà tutti,» forse nel conscio animo del Re trepidava la profezia del pallido Gioberti, la parola ultima che dal letto di morte il doloroso profugo gettava all'Italia, perchè dalla sventura non dileguasse il conforto di suprema speranza. Quella grande anima, perdonando, divinava il Re ed il Ministro.
Da quel giorno, anche agli occhi dei più diffidenti, questa monarchia che si trasformava così sinceramente in regime di libertà, che mostrava di accogliere così spontaneamente tutte le idee moderne e le favoriva e si rinnovellava in esse, legittimandosi italiana nel sentimento e nell'entusiasmo, onde i profughi delle altre regioni sedevano nei consigli della Corona; e in parlamento e dalle cattedre spandevano sulla gioventù la luce di insegnamenti, maturati nelle sventure, per cagione della patria e a torme altri profughi erano accolti e protetti in Torino, apparve un fatto così straordinario, così miracoloso, da colpire le immaginazioni, come una rivelazione della Provvidenza.
Gli animi di quel tempo spiravano amore, fede, poesia. Erano in Dio credenti, e credevano nella patria.
Tutta la genialità vibrante nell'arte italiana, il veemente desiderio sprigionatosi fin dai primi anni del secolo, librato sui monti, sulle marine, sui memori piani, quando la benedizione del pontefice accendeva nei cuori il fuoco mistico di religioso entusiasmo, nel quale l'amore di patria si purificava e raggiava sulla fronte una luce ineffabilmente spirituale! Meraviglioso stato d'animo per osare.
Non è strano se in quel fermento sorgesse il disegno di far partecipe il Piemonte alla guerra che allora si combatteva sul Mar Nero, per assicurare il cosiddetto equilibrio del Mediterraneo, mossa in favore della Turchia, avverso la Russia, dalla Francia e dall'Inghilterra.
Se nel salotto politico della marchesa Alfieri o nella tesa dove Farini aspettava le quaglie, o nella sola mente di Cavour, oppure nella fantasia di Vittorio Emanuele sia sorto per la prima volta il pensiero dell'alleanza di Crimea, è vano ricercare. Correva per l'aria l'impeto delle audacie.
Nelle condizioni dell'Europa, mentre la Russia provocava, l'Austria si disponeva a stupire il mondo colla sua ingratitudine, e la questione d'Oriente risorgeva in modo nuovo e diverso, e non era temerario il supporre che sul Danubio divampasse la fiamma augurale della nazionalità, l'inoperosità del Piemonte pesava su quelli, che ne' suoi destini vedevano l'indipendenza d'Italia, al Re che conosceva come in cuore dell'esercito e del popolo durasse il tormento di Novara.
A Vittorio Emanuele la figura mistica dell'antica croce sabauda sventolante ancora una volta sugli azzurri del mare d'Oriente, appariva come presagio di rinnovate fortune.
Egli voleva capitanare l'esercito, e, a malincuore persuaso dalla ragione di Stato, cedette il comando al generale La Marmora.
Il partito della guerra fu vittorioso in Parlamento, esclusivamente per il prestigio di Cavour.
Pareva un'avventura. Lo scontroso patriottismo temeva dell'Austria, i meno diffidenti presagivano la ruina economica.
È storia da non potersi riassumere in poche parole. Meriterebbe, essa sola, una conferenza. Occorrono più conferenze per illustrare la storia d'Italia dal '56 al '61 e questa storia d'Italia è storia di Cavour.
Di certo, nella guerra di Crimea la parte del Piemonte fu rischiosa tanto, che anche il gran ministro ne temette. Oh! l'annunzio della Cernaia! E la vittoria che bacia il tricolore! E le divisioni di La Marmora emule dei primi soldati d'Europa, acclamate in cospetto del mondo!
Fu l'anno sfolgorante e clamoroso. Dopo tanta tenebra profonda, tanto duro silenzio, l'anima del popolo si sollevò fiduciosa. La bandiera, nel suo nuovo prestigio, oltre il Ticino irradiò i bei colori che dicevano la speranza. Il popolo d'Italia scriveva sui muri: «Viva Verdi,» cioè: «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia.»
Sedizioso emblema! E il conte di Cavour si avviava a Parigi, per raccogliere, sul tavolo della diplomazia, l'alloro che l'esercito sardo aveva mietuto in Crimea.
La storia della civiltà nostra dirà del Congresso di Parigi che esso fu la manifestazione dei sentimenti e delle illusioni di un secolo, il quale sentì l'ansia dei fini umani.
Il secolo che doveva chiudersi con la conferenza per la pace, vi preludiò a mezzo il cammino col «non intervento, l'abolizione della corsa, il diritto dei popoli di manifestare liberamente i loro voti.»
Napoleone III segnò in quel punto l'apoteosi del suo regno, e l'Europa la moderazione di lui ammirò.
Cavour rinvenne l'alleato.
– Che si può fare per l'Italia? – Gli chiese un giorno l'Imperatore. E Cavour, cogliendo al balzo le intenzioni e la proposta, gli esponeva il suo piano; si arrischia, e con temerario slancio butta sul tappeto verde del Congresso la questione italiana.
Questo avvenne il giorno 8 aprile 1856.
Fu la prima volta che in un congresso europeo l'Italia «nazione» apparì.
Ben lo intese il gentile spirito dei patriotti toscani, quando al ministro piemontese ritornato in patria offerivano nel bronzo: «Colui che la difese a viso aperto.»
Intanto i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.
Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.
Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.
Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.
La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.
Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.
E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.
Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.
Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!
La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.
L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.
Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.
Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.
Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:
– Sur quel air venez-vous? – chiese.
– Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:
– Il n'y aura pas d'intervention, – dichiarò recisamente Napoleone.2
Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.
Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?
Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.
«Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»
Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!
L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!
Questo è miracolo voluto, combinato, eseguito con una perspicacia che sorveglia sè stessa acutamente, con un'attività pensata a un tempo e turbinosa, fucinata sul maglio di un'energia indomabile, in una terribile tensione dello spirito.
– Oh! – sclamerebbe la forte e dolce Nennele, la simpatica eroina, la nuova creazione di Giuseppe Giacosa – oh veramente colui si dava alle cose!3
Per tal modo, il giovanile prorompere dell'ufficialetto di Bard, imprimendosi nella maestà della storia, coronava la vulcanica esistenza, dominata da un pensiero!
Cavour era ministro del regno d'Italia! E nei clamori della prima festa nazionale, in onore di quello Statuto, che era stato per la sua volontà un miracoloso talismano, nella letizia dei compiacimenti ufficiali che dall'Europa venivano al nuovo regno, si dileguava nell'eternità gloriosa l'infaticabile spirito nel quale il sospiro dei secoli aveva assunto robusta e vitale forma.
Temperamento fatto di logica e di libertà. Spaziò in un campo intellettuale supremo, dove non setta, non pregiudizio, non volgarità di onori, ma solamente la fatidica progressione della storia lo guidava. E questa lo condusse al premio ineffabile, e dona alla memoria di lui, rompendo l'ombra e rischiarandola, la serena popolarità che circondò la sua persona.
Ma egli maturava nell'ampio e profondo cervello immensi e benefici disegni!
Avete udito, sul letto di morte, le ultime sue parole?
– Frate, frate, – e appuntava su padre Giacomo il fuoco supremo dei suoi occhi spalancati: – libera Chiesa, in libero Stato.
Egli poteva darci una salutare riforma religiosa!
Fino dalla gioventù, la preoccupazione delle forze morali che sorreggono le comunioni umane aveva sollevato il suo animo alla vertigine delle altezze, il sublime lo tentava nel magnifico miraggio: la religione e la libertà!
La sua formula, incompresa o trascurata, racchiude forse il segreto di una risurrezione di fede, quale non videro le mistiche età, di una spiritualizzazione del sentimento religioso, quale non sanno concepire coloro che abbassano la Chiesa al livello di una Società politica.
– Santo Padre! – esclamava in cospetto dei nuovi eletti d'Italia, il conte di Cavour – Santo Padre, noi vi daremo la libertà, che da tre secoli invano chiedete alle potenze cattoliche; date a noi Roma la madre alma, la stella polare nostra: noi proclameremo la libertà della Chiesa! —
Era una promessa degna della mente politica più vasta e comprensiva dell'età nostra, della mente che rispecchia l'immagine più schietta e completa, più morale del mondo moderno!
Pochi, pochi anni, troppo pochi anni durò quella fioritura vivida e generosa di colore, di luce; durò quel governo intellettuale contesto di persuasione e di fàscino.
Ma la forza di una dominazione fondata sulla vivace parola, sul dibattito aperto, in parlamento, azione di avveduta pazienza e di indomabile fede. non è mirabile, stupenda, misteriosamente seduttrice, efficace e illustre assai più di quella che si suole richiedere agli eserciti ed alle burocrazie?
Il significato morale dell'opera di Cavour, equilibrata, sana, condotta secondo ragione, non è qualche cosa di molto elevato, di veramente edificante e buono, che ravviva la confidenza nelle qualità umane, nella possibilità di un destino che corrisponda agli intimi soavi accordi dell'intelletto e del cuore?
Oh, di certo, una nazione redenta, un popolo restituito a dignità, il sangue dei caduti vendicato coll'onore della patria raggiante nella coscienza di cittadini risorti alla serietà del dovere e alla letizia della libertà, codeste sono opere immortali.
Ma lo spiritual significato di un'esistenza utile, laboriosa, onesta e grande come quella di Cavour non è forse anche più ragguardevole cosa e degna di rimanere in perpetuo esempio?
Di codesta purissima luce, effusa sulla nuova storia della nostra patria, dobbiamo rendere grazie a quell'uomo, e, sia benedetta la Provvidenza, che la rivoluzione d'Italia si impersona in una delle figure più elette del secolo.
Nè consentiamo alla puerile bestemmia che egli sia morto a tempo per la gloria sua.
Per la sua felicità, forse.
Ma, per la gloria? Che possiamo dirne noi? Che ne sappiamo?
Che cosa possiamo noi prevedere di una intelligenza, di un'anima entro la quale ardeva e folgorava così potentemente il raggio di Dio?
Un giorno, standosi il conte di Cavour sulle rive del lago di Ginevra, lo accostò un alto e biondo bernese, soldato della libera Elvezia repubblicana.
Lo fissò, e poi gli chiese:
– Sie sind Cavour? —
E, avutane risposta affermativa, gli occhi del popolano si velarono di lacrime. Afferrò le mani del grande liberale, le baciò precipitosamente, commosso. Poi si allontanò.
Si era al 1860: l'Italia sorgeva.
Oh come felici, se nella sconsolata via, venisse innanzi a noi il trionfante fantasma ideale!
Con quale trepidante desiderio, anche noi, interrogheremmo:
– Sie sind Cavour? —
1
Il 14 marzo, genetliaco di Vittorio Emanuele II e di Umberto I.
2
Aneddoto raccontatomi dall'illustre presidente della Camera italiana: Giuseppe Biancheri.
3
Come le foglie. Atto III.