Emilio Salgari
IL CORSARO NERO
CAPITOLO I. I FILIBUSTIERI DELLA TORTUE
Una voce robusta, che aveva una specie di vibrazione metallica, s’alzò dal mare ed echeggiò fra le tenebre, lanciando queste parole minacciose:
– Uomini del canotto! Alt! o vi mando a picco!…
La piccola imbarcazione, montata da due soli uomini, che avanzava faticosamente sui flutti color inchiostro, fuggendo l’alta sponda che si delineava confusamente sulla linea dell’orizzonte, come se da quella parte temesse un grave pericolo, s’era bruscamente arrestata.
I due marinai, ritirati rapidamente i remi, si erano alzati d’un sol colpo, guardando con inquietudine dinanzi a loro, e fissando gli sguardi su di una grande ombra, che pareva fosse improvvisamente emersa dai flutti.
Erano entrambi sulla quarantina, ma dai lineamenti energici e angolosi, resi piú arditi dalle barbe folte, irte, e che forse mai avevano conosciuto l’uso del pettine e della spazzola.
Due ampi cappelli di feltro, in piú parti bucherellati e con le tese sbrindellate, coprivano le loro teste; camicie di flanella lacerate e scolorite, e prive di maniche, riparavano malamente i loro robusti petti, stretti alla cintura da fasce rosse, del pari ridotte in stato miserando, ma sostenenti un paio di grosse e pesanti pistole che si usavano verso la fine del sedicesimo secolo. Anche i loro corti calzoni erano laceri, e le gambe ed i piedi, privi di scarpe, erano imbrattati di fango nerastro.
Quei due uomini che si sarebbero potuti scambiare per due evasi da qualche penitenziario del Golfo del Messico, se in quel tempo fossero esistiti quelli fondati piú tardi alle Guiane, vedendo quella grande ombra che spiccava nettamente sul fondo azzurro cupo dell’orizzonte, fra lo scintillio delle stelle, si scambiarono uno sguardo inquieto.
– Guarda un po’, Carmaux, – disse colui che pareva il piú giovane. – Guarda bene, tu che hai la vista piú acuta di me. Sai che si tratta di vita o di morte.
– Vedo che è un vascello e sebbene non sia lontano piú di tre tiri di pistola non saprei dire se viene dalla Tortue o dalle colonie spagnole.
– Che siano amici?… Uhm! Osare spingersi fin qui, quasi sotto i cannoni dei forti, col pericolo d’incontrare qualche squadra di navi d’alto bordo scortante qualche galeone pieno d’oro!…
– Comunque sia ci hanno veduti, Wan Stiller, e non ci lasceranno fuggire. Se lo tentassimo, un colpo di mitraglia sarebbe sufficiente a mandarci tutti e due a casa di Belzebú.
La stessa voce di prima, potente e sonora, echeggiò per la seconda volta fra le tenebre, perdendosi lontana sulle acque del golfo:
– Chi vive?
– Il diavolo, – borbottò colui che si chiamava Wan Stiller.
Il compagno invece salí sul banco e con quanta voce aveva gridò:
– Chi è l’audace che vuol sapere da qual paese veniamo noi?… Se la curiosità lo divora, venga da noi e gliela pagheremo a colpi di pistola.
Quella smargiassata, invece di irritare l’uomo che interrogava dal ponte della nave, parve che lo rendesse lieto, poiché rispose:
– I valorosi s’avanzino e vengano ad abbracciare i Fratelli della Costa!…
I due uomini del canotto avevano mandato un grido di gioia.
– I Fratelli della Costa! – avevano esclamato.
Poi colui che si chiamava Carmaux aggiunse:
– Il mare m’inghiotta, se non ho conosciuta la voce che ci ha data questa bella nuova.
– Chi credi che sia? – chiese il compagno, che aveva ripreso il remo manovrandolo con supremo vigore.
– Un uomo solo, fra tutti i valorosi della Tortue, può osare spingersi fino sotto i forti spagnuoli.
– Chi?…
– Il Corsaro Nero.
– Tuoni d’Amburgo!… Lui!… Proprio lui!…
– Che triste notizia per quell’audace marinaio!… – mormorò Carmaux con un sospiro. – Ed è proprio morto!…
– Mentre lui forse sperava di giungere in tempo per strapparlo vivo dalle mani degli spagnuoli, è vero, amico?
– Si, Wan Stiller.
– Ed è il secondo che gli appiccano!…
– Il secondo, sí. Due fratelli, e tutti e due appesi alla forca infame!
– Si vendicherà, Carmaux.
– Lo credo, e noi saremo con lui. Il giorno che vedrò strangolare quel dannato governatore di Maracaibo, sarà il piú bello della mia vita e darò fine ai due smeraldi che tengo cuciti nei miei pantaloni. Saranno almeno mille piastre che mangerò coi camerati.
– Ah!… Ci siamo!… Te lo dicevo io? È la nave del Corsaro Nero!…
Il vascello, che poco prima non si poteva ben discernere in causa della profonda oscurità, non si trovava allora che a mezza gomena dal piccolo canotto.
Era uno di quei legni da corsa che adoperavano i filibustieri della Tortue per dare la caccia ai grossi galeoni spagnuoli, recanti in Europa i tesori dell’America Centrale, del Messico e delle regioni equatoriali.
Buoni velieri, muniti d’alta alberatura per potere approfittare delle brezze piú leggere, colla carena stretta, la prora e la poppa soprattutto altissime come si usavano in quell’epoca, e formidabilmente armati.
Dodici bocche da fuoco, dodici caronade, sporgevano le loro nere gole dai sabordi, minacciando a babordo ed a tribordo, mentre sull’alto cassero si allungavano due grossi cannoni da caccia, destinati a spazzare i ponti a colpi di mitraglia.
Il legno corsaro si era messo in panna per attendere il canotto, ma sulla prora si vedevano, alla luce d’un fanale, dieci o dodici uomini armati di fucili, i quali parevano pronti a far fuoco al minimo sospetto.
I due marinai del canotto, giunti sotto il bordo del veliero, afferrarono una fune che era stata loro gettata insieme ad una scala di corda, assicurarono l’imbarcazione, ritirarono i remi, poi si issarono sulla coperta con un’agilità sorprendente.
Due uomini, entrambi muniti di fucili, puntarono su di essi le armi, mentre un terzo si avvicinava, proiettando sui nuovi arrivati la luce d’una lanterna.
– Chi siete? – fu chiesto loro.
– Per Belzebú, mio patrono!… – esclamò Carmaux. – Non si conoscono piú gli amici?…
– Un pesce-cane mi mangi se questi non è il biscaglino Carmaux!… – gridò l’uomo della lanterna. – Come sei ancora vivo, mentre alla Tortue ti si credeva morto?… Toh!… Un altro risuscitato!… Non sei tu l’amburghese Wan Stiller?…
– In carne ed ossa, – rispose questi.
– Anche tu adunque sei sfuggito al capestro?…
– Eh!… La morte non mi voleva ed io ho pensato che era meglio vivere qualche anno ancora.
– Ed il capo?…
– Silenzio, – disse Carmaux.
– Puoi parlare: è morto?
– Banda di corvi!… Avete finito di gracchiare?… – gridò la voce metallica, che aveva lanciata quella frase minacciosa agli uomini del canotto.
– Tuoni d’Amburgo!… Il Corsaro Nero!… – borbottò Wan Stiller, con un brivido.
Carmaux, alzando la voce, rispose:
– Eccomi comandante.-
Un uomo era sceso allora dal ponte di comando e si dirigeva verso di loro, con una mano appoggiata al calcio d’una pistola che pendevagli dalla cintola.
Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico, uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d’una camicia, e che curavano piú le loro armi che gli indumenti.
Portava una ricca casacca di seta nera, adorna di pizzi di eguale colore, coi risvolti di pelle egualmente nera; calzoni pure di seta nera, stretti da una larga fascia frangiata; alti stivali alla scudiera e sul capo un grande cappello di feltro, adorno d’una lunga piuma nera che gli scendeva fino alle spalle.
Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un pò arricciata.
Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.
La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.
I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:
– Il Corsaro Nero!
– Chi siete voi e da dove venite? – chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.
– Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, – rispose Carmaux.
– E venite?
– Da Maracaybo.
– Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?
– Sí, comandante.
– A qual legno appartenevate?
– A quello del Corsaro Rosso. —
Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.
– Al legno di mio fratello, – disse poi, con un tremito nella voce.
Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.
Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:
– Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.
– Sí, comandante, – rispose l’altro. – Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.
Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:
– Ora parlerai.
– Sono ai vostri ordini, comandante. -
Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.
Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.
Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:
– Me l’hanno ucciso, è vero?
– Chi?
– Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.
– Sí, comandante, – rispose Carmaux, con un sospiro. – Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. —
Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.
Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.
Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.
Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:
– Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?
– Appiccato, signore.
– Sei certo di questo?
– L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.
– Quando l’hanno ucciso?
– Quest’oggi, dopo il mezzodí.
– È morto?…
– Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi…
– Continua.
– Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.
– A quel cane di Wan Guld?
– Sí, al duca fiammingo.
– Ancora lui! Sempre lui!… Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!
– Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.
– Ma mi rimane la vendetta!… – gridò il filibustiere con voce terribile. – No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!… Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?.
– Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.
Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo.Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo.All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma.Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci.Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.
– E mio fratello era del numero?
– Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.
– E mio fratello è morto!… – disse il Corsaro con una calma terribile.
– L’ho veduto come vedo ora voi.
– E sarà ancora appeso alla forca infame?
– Vi rimarrà tre giorni.
– E poi verrà gettato in qualche fogna.
– Certo comandante.-
Il Corsaro si era bruscamente alzato e si era avvicinato al filibustiere.
– Hai paura tu?… – gli chiese con strano accento.
– Nemmeno di Belzebú, comandante.
– Dunque tu non temi la morte?
– No.
– Mi seguiresti?
– Dove?
– A Maracaybo.
– Quando?
– Questa notte.
– Si va ad assalire la città?
– No, non siamo in numero sufficiente ora, ma piú tardi Wan Guld riceverà mie nuove. Ci andremo noi due ed il tuo compagno.
– Soli? – chiese Carmaux, con stupore.
– Noi soli.
– Ma che volete fare?
– Prendere la salma di mio fratello.
– Badate comandante! Correte il pericolo di farvi prendere.
– Tu sai chi è il Corsaro Nero?
– Lampi e folgori! È il filibustiere piú audace della Tortue.
– Va’ adunque ad aspettarmi sul ponte e fa preparare una scialuppa.
– È inutile, capitano, abbiamo il nostro canotto, una vera barca da corsa.
– Va’!
CAPITOLO II. UNA SPEDIZIONE AUDACE
Carmaux si era affrettato ad obbedire, sapendo che col formidabile Corsaro era pericoloso indugiare.
Wan Stiller lo attendeva dinanzi al boccaporto, in compagnia del mastro d’equipaggio e d’alcuni filibustieri, i quali lo interrogavano sulla disgraziata fine del Corsaro Rosso e del suo equipaggio, manifestando terribili propositi di vendetta contro gli spagnuoli di Maracaybo e soprattutto contro il governatore. Quando l’amburghese apprese che si doveva preparare il canotto per fare ritorno alla costa, dalla quale si erano allontanati precipitosamente per un vero miracolo, non poté nascondere il suo stupore e la sua apprensione.
– Tornare ancora laggiú!… – esclamò. – Ci lasceremo la pelle, Carmaux.
– Bah!… Non ci andremo soli questa volta.
– Chi ci accompagnerà dunque?
– Il Corsaro Nero.
– Allora non ho piú timori. Quel diavolo d’uomo vale cento filibustieri.
– Ma verrà solo.
– Non conta, Carmaux; con lui non vi è da temere. E rientreremo in Maracaybo?…
– Sí, mio caro, e saremo bravi se condurremo a buon fine l’impresa. Ehi, mastro, fà gettare nel canotto tre fucili, delle munizioni, un paio di sciabole d’arrembaggio per noi due, e qualche cosa da mettere sotto i denti. Non si sa mai ciò che può succedere e quando potremo tornare.
– È già fatto, – rispose il mastro. – Non mi sono dimenticato nemmeno il tabacco.
– Grazie, amico. Tu sei la perla dei mastri.
– Eccolo, – disse in quell’istante Wan Stiller.
Il Corsaro era comparso sul ponte. Indossava ancora il suo funebre costume, ma si era appesa al fianco una lunga spada, ed alla cintura un paio di grosse pistole ed uno di quegli acuti pugnali spagnuoli chiamati misericordie. Sul braccio portava un ampio ferraiuolo, nero come il vestito.
S’avvicinò all’uomo che stava sul ponte di comando e che doveva essere il comandante in seconda, scambiò con lui alcune parole, poi disse brevemente ai due filibustieri:
– Partiamo.
– Siamo pronti – rispose Carmaux.
Scesero tutti e tre nel canotto che era stato condotto sotto la poppa e già provvisto d’armi e di viveri. Il Corsaro si avvolse nel suo ferraiuolo e si sedette a prora, mentre i filibustieri, afferrati i remi, ricominciarono con grande lena la faticosa manovra.
La nave filibustiera aveva subito spento i fanali di posizione e, orientate le vele, si era messa a seguire il canotto, correndo bordate, onde non precederlo. Probabilmente il comandante in seconda voleva scortare il suo capo fin presso la costa per proteggerlo nel caso d’una sorpresa.
Il Corsaro, semisdraiato a prora, col capo appoggiato ad un braccio, stava silenzioso, ma il suo sguardo, acuto come quello di un’aquila, percorreva attentamente il fosco orizzonte, come se cercasse discernere la costa americana che le tenebre nascondevano.
Di tratto in tratto volgeva il capo verso la sua nave che sempre lo seguiva, ad una distanza di sette od otto gomene, poi tornava a guardare verso il sud.
Wan Stiller e Carmaux intanto arrancavano di gran lena, facendo volare, sui neri flutti, il sottile e svelto canotto. Né l’uno né l’altro parevano preoccupati di ritornare verso quella costa, popolata dai loro implacabili nemici, tanta era la fiducia che avevano nell’audacia e nella valentia del formidabile Corsaro, il cui solo nome bastava a spargere il terrore in tutte le città marittime del grande golfo messicano. Il mare interno di Maracaybo, essendo liscio come se fosse di olio, permetteva alla veloce imbarcazione di avanzare senza troppo affaticare i due rematori. Non essendovi in quel luogo, racchiuso fra due capi che lo proteggono dalle larghe ondate del Grande Golfo, coste ripide, non vi sono flutti di fondo, sicché è rado che l’acqua là entro si sconvolga.
I due filibustieri arrancavano da un’ora, quando il Corsaro Nero, che fino allora aveva mantenuto una immobilità quasi assoluta, si alzò bruscamente in piedi, come se volesse abbracciare collo sguardo maggiore orizzonte.
Un lume, che non si poteva confondere con una stella, brillava a fior d’acqua, verso il sud-ovest, ad intervalli d’un minuto.
– Maracaybo, – disse il Corsaro, con accento cupo, che tradiva un impeto di sordo furore.
– Sí, – rispose Carmaux, che si era voltato.
– Quanto distiamo?
– Forse tre miglia, capitano.
– Allora a mezzanotte noi vi saremo.
– Sí.
– Vi è qualche crociera?
– Quella dei doganieri.
– È necessario evitarla.
– Conosciamo un posto ove potremo sbarcare tranquilli e nascondere il canotto fra i paletuvieri.
– Avanti.
– Una parola, capitano.
– Parla.
– Sarebbe meglio che la nostra nave non si avvicinasse di piú.
– Ha già virato e ci aspetterà al largo, – rispose il Corsaro.
Stette silenzioso alcuni istanti, poi riprese:
– È vero che vi è una squadra nel lago?
– Sí, comandante, quella dell’ammiraglio Toledo che veglia su Maracaybo e Gibraltar.
– Ah!… Hanno paura? Ma l’Olonese è alla Tortue e fra noi due la manderemo a picco. Pazienza alcuni giorni ancora, poi Wan Guld saprà di che cosa saremo capaci noi. —
Si ravvolse di nuovo nel suo mantello, si calò il feltro sugli occhi, poi tornò a sedersi, tenendo gli sguardi fissi su quel punto luminoso che indicava il faro del porto. Il canotto riprese la corsa; non manteneva però piú la prora verso l’imboccatura di Maracaybo, volendo evitare la crociera delle guardie doganali, le quali non avrebbero mancato di fermarlo e di arrestare le persone che lo montavano.
Mezz’ora dopo, la costa del golfo era perfettamente visibile, non essendo lontana piú di tre o quattro gomene. La spiaggia scendeva in mare dolcemente, tutta ingombra di paletuvieri, piante che crescono per lo piú alla foce dei corsi d’acqua e che producono delle febbri terribili e che sono la causa del vomito prieto ossia della temuta febbre gialla.
Piú oltre si vedeva spiccare, sul fondo stellato del cielo, una cupa vegetazione, la quale lanciava in aria enormi ciuffi di foglie piumate, di dimensioni gigantesche.
Carmaux e Wan Stiller avevano rallentata la vogata e si erano voltati per vedere la costa. Non s’avanzavano che con grandi precauzioni, procurando di non fare rumore e guardando attentamente in tutte le direzioni, come se temessero qualche sorpresa.
Il Corsaro Nero non si era invece mosso, però aveva posto dinanzi a sé i tre fucili imbarcati dal mastro, per salutare, con una scarica, la prima scialuppa che avesse osato avvicinarsi.
Doveva essere la mezzanotte quando il canotto si arenava in mezzo ai paletuvieri, cacciandosi piú di mezzo fra le piante e le contorte radici.
Il Corsaro si era alzato. Ispezionò rapidamente la costa, poi balzò agilmente a terra, legando l’imbarcazione ad un ramo.
– Lasciate i fucili – disse a Wan Stiller ed a Carmaux. – Avete le pistole?
– Sí, capitano, – rispose l’amburghese.
– Sapete dove siamo?
– A dieci o dodici miglia da Maracaybo.
– È situata dietro questo bosco la città?
– Sul margine di questa macchia gigantesca.
– Potremo entrare questa notte?…
– È impossibile capitano. Il bosco è foltissimo e non potremo attraversarlo prima di domani mattina.
– Sicché saremo costretti ad attendere fino a domani sera?
– Se non volete arrischiarvi di entrare in Maracaybo di giorno, bisognerà rassegnarsi ad aspettare.
– Mostrarci in città di giorno sarebbe un’imprudenza, – rispose il Corsaro, come parlando fra sé stesso. – Se avessi qui la mia nave pronta ad appoggiarci ed a raccoglierci, l’oserei, ma la Folgore incrocia ora nelle acque del gran golfo. -
Rimase alcuni istanti immobile e silenzioso, come se fosse immerso in profondi pensieri, quindi riprese:
– E mio fratello, potremo trovarlo ancora?
– Rimarrà esposto sulla Plaza de Granada tre giorni, – disse Carmaux. – Ve lo dissi già.
– Allora abbiamo tempo. Avete conoscenze in Maracaibo?
– Sí, un negro, quello che ci offrí il canotto per fuggire. Abita sul margine di questa foresta in una capanna isolata.
– Non ci tradirà?
– Rispondiamo di lui.
– In cammino.
Salirono la sponda, Carmaux dinanzi, il Corsaro in mezzo e Wan Stiller in coda e si cacciarono in mezzo all’oscura boscaglia procedendo cautamente, cogli orecchi tesi e le mani sui calci delle pistole, potendo cadere da un istante all’altro in un agguato.
La foresta si rizzava dinanzi a loro, tenebrosa come una immensa caverna. Tronchi d’ogni forma e dimensione si ergevano verso l’alto, sostenendo foglie smisurate, le quali impedivano assolutamente di scorgere la volta stellata.
Festoni di liane cadevano dappertutto, intrecciandosi in mille guise, salendo e scendendo dai tronchi delle palme e correndo da destra a sinistra, mentre al suolo strisciavano, attorcigliate le une alle altre, radici smisurate, le quali ostacolavano non poco la marcia dei tre filibustieri, costringendoli a fare dei lunghi giri per trovare un passaggio, o a mettere mano alle sciabole d’arrembaggio per reciderle.
Dei vaghi bagliori, come di grossi punti luminosi, che proiettavano ad intervalli dei veri sprazzi di luce, correvano in mezzo a quelle migliaia di tronchi, danzavano ora a livello del suolo ed ora in mezzo al fogliame. Si spegnevano bruscamente, poi si riaccendevano e formavano delle vere onde luminose di una incomparabile bellezza, che aveva qualche cosa di fantastico.
Erano le grosse lucciole dell’America Meridionale, le vaga lume che tramandano una luce cosí vivida da permettere di leggere le scritture piú minute anche alla distanza di qualche metro e che rinchiuse in un vasetto di cristallo in tre o quattro, bastano ad illuminare una stanza; e le lampyris occidental o perilampo, altri bellissimi insetti fosforescenti che si trovano in grandissimi sciami nelle foreste della Guiana e dell’Equatore.
I tre filibustieri, sempre nel piú profondo silenzio, continuavano la marcia, non lasciando le loro precauzioni, poiché oltre gli uomini, avevano da temere anche gli abitanti delle foreste, i sanguinari giaguari e soprattutto i serpenti, specialmente gli jaracarà, rettili velenosissimi, che sono difficili a scorgersi anche di giorno essendo la loro pelle del colore delle foglie secche.
Dovevano aver percorso due miglia, quando Carmaux, che si trovava sempre dinanzi, essendo il piú pratico dei luoghi, s’arrestò bruscamente armando con precipitazione una delle sue pistole.
– Un giaguaro od un uomo? – chiese il Corsaro, senza la minima apprensione.
– Può essere stato un giaguaro, ma anche una spia, – rispose Carmaux. – In questo paese non si è mai certi di vedere l’indomani.
– Dov’è passato?
– A venti passi da me.
Il Corsaro si curvò verso terra ed ascoltò attentamente, trattenendo il respiro. Un leggero scrosciare di foglie giunse fino a lui; era però cosí debole che solamente un orecchio molto esercitato ed acuto poteva udirlo.
– Può essere un animale, – rispose rialzandosi. – Bah!… Noi non siamo uomini da spaventarci. Impugnate le sciabole e seguitemi.
Girò intorno al tronco di un albero enorme che torreggiava in mezzo alle palme, poi sostò in mezzo ad un gruppo di foglie giganti scrutando le tenebre.
Lo scrosciare delle foglie secche era cessato, tuttavia al suo orecchio giunse un tintinnio metallico e poco dopo un colpo secco come se il cane d’un fucile venisse alzato.
– Fermi! Qui vi è qualcuno che ci spia e che aspetta il momento opportuno per farci fuoco addosso.
– Che ci abbiano veduti sbarcare? – borbottò Carmaux, con inquietudine. – Questi spagnuoli hanno spie dappertutto.
Il Corsaro aveva impugnata colla destra la spada e colla sinistra una pistola e cercava di girare quell’ammasso di foglie, senza produrre il minimo rumore. Ad un tratto Carmaux e Wan Stiller lo videro slanciarsi innanzi e piombare, con un solo salto, addosso ad una forma umana, che si era improvvisamente alzata in mezzo ad un cespuglio.
L’assalto del Corsaro era stato cosi improvviso ed impetuoso che l’uomo che si teneva imboscato era andato a gambe levate, percosso in pieno viso dalla guardia della spada.
Carmaux e Wan Stiller si erano subito precipitati su di lui, e mentre il primo s’affrettava a raccogliere il fucile che l’uomo imboscato aveva lasciato cadere, senza avere avuto il tempo di scaricarlo, l’altro puntava la pistola dicendo:
– Se ti muovi sei un uomo spacciato.
– È uno dei nostri nemici, – disse il Corsaro che si era curvato.
– Un soldato di quel dannato Wan Guld, – rispose Wan Stiller. – Che cosa faceva imboscato in questo luogo? Sarei curioso di saperlo.
Lo spagnuolo, che era stato stordito dalla guardia della spada del Corsaro, cominciava a riaversi, accennando ad alzarsi.
– Carrai! – borbottò con un tremito nella voce. – Che sia caduto tra le mani del diavolo?
– L’hai indovinato, – disse Carmaux. – Giacché a voi piace chiamare cosí noi filibustieri.
Lo spagnuolo provò un brivido cosí forte, che Carmaux se ne accorse.
– Non aver tanta paura, per ora, – gli disse, ridendo. – Risparmiala per piú tardi, per quando danzerai nel vuoto un fandango disordinato con un bel pezzo di solida canapa stretto alla gola.
Poi volgendosi verso il Corsaro, che guardava in silenzio il prigioniero, gli chiese:
– Devo finirlo con un colpo di pistola?
– No, – rispose il capitano.
– Preferite appiccarlo ai rami di quell’albero?
– Nemmeno.
– Forse è uno di quelli che hanno appiccato i Fratelli della Costa ed il Corsaro Rosso, mio capitano.
A quel ricordo un lampo terribile balenò negli occhi del Corsaro Nero, ma subito si spense.
– Non voglio che muoia, – disse con voce sorda. – Può esserci piú utile d’un appiccato.
– Allora leghiamolo per bene, – dissero i due filibustieri.
Si levarono le fasce di lana rossa che portavano ai fianchi e strinsero le braccia del prigioniero, senza che questi osasse fare resistenza.
– Ora vediamo un pò chi sei, – diesse Carmaux.
Accese un pezzo di miccia da cannone che teneva in tasca e l’accostò al viso dello spagnuolo.
Quel povero diavolo, caduto nelle mani dei formidabili corsari della Tortue, era un uomo di appena trent’anni, lungo e magro come il suo compatriota Don Chisciotte, con un viso angoloso, coperto da una barba rossiccia e due occhi grigi, dilatati dallo spavento.
Indossava una casacca di pelle gialla con qualche rabesco, corti e larghi calzoni a righe nere e rosse e calzava lunghi stivali di pelle nera. Sul capo invece portava un elmetto d’acciaio adorno di una vecchia piuma, la quale non aveva piú che rade barbe e dalla cintura gli pendeva una lunga spada, la cui guaina era assai irruginita alle sue estremità.
– Per Belzebú mio patrono!… – esclamò Carmaux, ridendo. – Se il Governatore di Maracaybo ha di questi prodi vuol dire che non li nutre di certo con capponi, poiché è piú magro di un’aringa affumicata. Credo, capitano, che valga la pena d’appiccarlo.
– Non ho detto d’appiccarlo – rispose il Corsaro.
Poi toccando il prigioniero con la punta della spada gli disse:
– Ora parlerai se ti preme la pelle.
– La pelle è già perduta – rispose lo spagnuolo. – Non si esce vivi dalle vostre mani e quando io avessi narrato a voi quanto vorreste sapere, non sarei certo di rivedere egualmente l’indomani.
– Lo spagnuolo ha del coraggio, – disse Wan Stiller.
– E la sua risposta vale la sua grazia, – aggiunse il Corsaro. – Via, parlerai?
– No, – rispose il prigioniero.
– Ti ho promesso salva la vita.
– E chi vi crederà?
– Chi?… Ma sai chi sono io?
– Un filibustiere.
– Sí, ma che si chiama il Corsaro Nero.
– Per la nostra Signora di Guadalupa! – esclamò lo spagnuolo, diventando livido. – Il Corsaro Nero qui!… Siete venuto per sterminarci tutti e vendicare il vostro fratello, il Corsaro Rosso?
– Sí, se non parlerai, – rispose il filibustiere con voce cupa. – Vi sterminerò tutti e di Maracaybo non rimarrà pietra su pietra!
– Por todos santos!… Voi qui? – ripeté il prigioniero, che non si era ancora rimesso dalla sorpresa.
– Parla!…
– Sono morto; è quindi inutile.
– Il Corsaro Nero è un gentiluomo, sappilo, ed un gentiluomo non ha mai mancato alla parola data, – rispose il capitano con voce solenne.
– Allora interrogatemi.
CAPITOLO III. IL PRIGIONIERO
Ad un cenno del capitano, Wan Stiller e Carmaux avevano sollevato il prigioniero e l’avevano seduto ai piedi d’un albero, senza però slegargli le mani, quantunque fossero certi che non avrebbe commesso la pazzia di tentare la fuga.
Il Corsaro gli sedette di fronte, su di una enorme radice che sorgeva dal suolo come un serpente gigantesco, mentre i due filibustieri si erano messi in sentinella alle estremità di quel macchione, non essendo ancora bene sicuri che il prigioniero fosse solo.
– Dimmi, – disse il Corsaro, dopo alcuni istanti di silenzio. – È ancora esposto mio fratello?…
– Sí, – rispose il prigioniero. – Il governatore ha ordinato di tenerlo appeso tre giorni e tre notti, prima di gettare il cadavere nella foresta, a pasto delle fiere.
– Credi che sia possibile rubare il cadavere?
– Forse, non essendovi di notte che una sentinella a guardia della Plaza de Granada. Quindici appiccati non possono ormai fuggire.
– Quindici!… – esclamò il Corsaro, con accento cupo. – Dunque quel feroce Wan Guld non ne ha risparmiato neppure uno?
– Nessuno.
– E non teme la vendetta dei filibustieri della Tortue?
– Maracaybo è ben munita di truppe e di cannoni.
Un sorriso di disprezzo sfiorò le labbra del fiero Corsaro.
– Che cosa fanno i cannoni a noi? – disse. – Le nostre sciabole d’arrembaggio valgono bene di piú; lo avete veduto ancora all’assalto di S. Francisco di Campeche, a S. Agostino della Florida ed in altri combattimenti.
– È vero, ma Wan Guld si tiene al sicuro in Maracaybo.
– Ah sí!… Ebbene, lo vedremo quando mi sarò abboccato coll’Olonese.
– Coll’Olonese!… – esclamò lo spagnuolo, con un fremito di terrore.
Parve che il Corsaro non avesse fatto attenzione allo spavento del prigioniero poiché riprese, cambiando tono:
– Che cosa facevi in questo bosco?
– Sorvegliavo la spiaggia.
– Solo?
– Sí, solo.
– Si temeva una sorpresa da parte nostra?
– Non lo nego, poiché era stata segnalata una nave sospetta, incrociante nel golfo.
– La mia?
– Se voi siete qui, quella nave doveva essere la vostra.
– Ed il governatore si sarà affrettato a fortificarsi.
– Ha fatto di piú; ha mandato alcuni fidi a Gibraltar ad avvertire l’ammiraglio.
Questa volta fu il Corsaro che provò un fremito, se non di spavento, certo d’inquietudine.
– Ah!… – esclamò, mentre la sua tinta pallida diventava livida. – La mia nave corre forse un grave pericolo?
Poi alzando le spalle, soggiunse:
– Bah! Quando i vascelli dell’ammiraglio giungeranno a Maracaybo, io sarò a bordo della Folgore.
S’alzò bruscamente, con un fischio chiamò i due filibustieri che vegliavano sul margine della macchia e disse brevemente:
– Partiamo.
– E di quest’uomo, che cosa dobbiamo farne? – chiese Carmaux.
– Conducetelo con noi; la vostra vita risponderà per la sua, se vi fugge.
– Tuoni d’Amburgo! – esclamò Wan Stiller. – Lo terrò per la cintola, onde non gli salti il ticchio di giuocare di gambe.
Si rimisero in cammino l’uno dietro l’altro, in fila indiana, Carmaux dinanzi e Wan Stiller ultimo, dietro al prigioniero, per non perderlo di vista un solo istante. Cominciava ad albeggiare. Le tenebre fuggivano rapidamente, cacciate dalla rosea luce che invadeva il cielo, e che si distendeva anche sotto gli alberi giganti della foresta. Le scimmie, che sono cosí numerose nell’America meridionale, specialmente nel Venezuela, si svegliavano, empiendo la foresta di grida strane.
Sulla cima di quelle graziose palme chiamate assai, dal tronco sottile ed elegante o fra il verde fogliame degli enormi eriodendron, od in mezzo alle sipos, grosse liane che si avviticchiano intorno agli alberi, od aggrappate alle radici aeree delle aroidee, od in mezzo alle splendide bromelie dai ricchi rami carichi di fiori scarlatti, si vedevano agitarsi, come folletti, ogni specie di quadrumani.
Là vi era una piccola tribú di mico, le scimmie piú graziose e nello stesso tempo le piú svelte e le piú intelligenti, quantunque siano cosí piccine da potersi nascondere in un taschino della giacca; piú oltre vi erano drappelli di sahuì rosse, un po’ piú grosse degli scoiattoli, adorne di una bellissima criniera che le fa rassomigliare ai leoncini; poi bande di mono, le scimmie piú magre di tutte, con gambe e braccia cosí lunghe che le fanno rassomigliare a ragni di dimensioni enormi, o truppe di prego, quadrumani che hanno la smania di tutto devastare e che sono il terrore dei poveri piantatori.
I volatili non mancavano e mescolavano le loro grida a quelle dei quadrumani. Fra le grandi foglie delle pomponasse, che servono alla fabbricazione dei bellissimi e leggeri cappelli di Panama, o fra i boschetti di laransia dai fiori esalanti acuti profumi o sulle quaresme, bellissime palme dai fiori purpurei, cicalavano a piena gola i piccoli mahitaco, specie di pappagalli dalla testa turchina; gli arà, grossi pappagalli tutti rossi, che da mane a sera, con una costanza degna di migliore causa, gridano incessantemente arà arà; o i choradeira detti anche uccelli piagnoni, poiché sembra che piangano e che abbiano sempre da lamentarsi.
I filibustieri e lo spagnuolo, già abituati a percorrere le grandi foreste del continente americano e delle isole del Golfo del Messico, non si arrestavano ad ammirare né le piante, né i quadrumani, né i volatili. Marciavano piú rapidamente che potevano, cercando i passaggi aperti dalle fiere o dagli indiani, frettolosi di giungere fuori di quel caos di vegetali e di scorgere Maracaybo.
Il Corsaro era diventato meditabondo e tetro, come già lo era quasi sempre, anche a bordo della sua nave o fra le gozzoviglie della Tortue.
Avvolto nel suo ampio mantello nero, col feltro calato sugli occhi e con la sinistra appoggiata alla guardia della spada, la testa china sul petto, camminava dietro a Carmaux, senza guardare né i compagni, né il prigioniero, come fosse stato solo a percorrere la foresta.
I due filibustieri, conoscendo le sue abitudini, si guardavano bene dall’interrogarlo e di strapparlo dalle sue meditazioni. Tutt’al piú scambiavano a bassa voce, tra di loro, qualche parola per consigliarsi sulla direzione da tenersi, poi allungavano sempre il passo inoltrandosi vieppiú fra quelle reti gigantesche di sipos smisurate, ed i tronchi delle palme, degli jacarandò e delle massaranduba, fugando colla loro presenza stormi di quei vaghi uccellini chiamati trochilidi od uccelli mosca, dalle splendide penne d’un azzurro scintillante e dal becco rosso, color del fuoco.
Camminavano da due ore, sempre piú rapidamente, quando Carmaux, dopo un istante di esitazione e dopo d’aver guardato piú volte gli alberi ed il suolo, s’arrestò indicando a Wan Stiller un macchione di cujueiro, piante che hanno foglie coriacee e che producono dei suoni bizzarri quando soffia il vento.
– È qui, Wan Stiller? – chiese. – Mi pare di non ingannarmi.
Quasi nello stesso momento, in mezzo alla macchia, si udirono echeggiare dei suoni melodiosi, dolcissimi, che pareva uscissero da qualche flauto.
– Che cos’è? – chiese il Corsaro, alzando bruscamente il capo e sbarazzandosi del mantello.
– È il flauto di Moko, – rispose Carmaux, con un sorriso.
– Chi è questo Moko?
– Il negro che ci ha aiutati a fuggire. La sua capanna è in mezzo a queste piante.
– E perché suona?
– Sarà occupato ad ammaestrare i suoi serpenti.
– È un incantatore di rettili?
– Sí, capitano.
– Ma questo flauto può tradirci.
– Glielo prenderò e manderemo i serpenti a passeggiare nel bosco.
Il Corsaro fece cenno di tirare innanzi, però estrasse la spada come se temesse qualche brutta sorpresa.
Carmaux si era già cacciato nel macchione avanzando su di un sentieruzzo appena visibile, poi era tornato ad arrestarsi mandando un grido di stupore misto a ribrezzo.
Dinanzi ad una catapecchia di rami intrecciati, col tetto coperto di grandi foglie di palme e semi-nascosta da una cujera, enorme pianta da zucche che ombreggia quasi sempre le capanne degli indiani, stava seduto un negro di forme erculee. Era uno dei piú bei campioni della razza africana, poiché era di statura alta, con spalle larghe e robuste, petto ampio e braccia e gambe muscolose, che dovevano sviluppare una forza gigantesca.
Il suo viso, quantunque avesse le labbra grosse, il naso schiacciato e gli zigomi sporgenti, non era brutto; aveva anzi qualche cosa di buono, d’ingenuo, d’infantile, senza la menoma traccia di quell’espressione feroce che si riscontra in molte razze africane.
Seduto su di un pezzo di tronco d’albero, suonava un flauto fatto con una canna sottile di bambú, traendone dei suoni dolci, prolungati, che producevano una strana sensazione di mollezza, mentre dinanzi a lui strisciavano dolcemente otto o dieci dei piú pericolosi rettili dell’America meridionale.
Vi erano alcuni jararacà, piccoli serpenti color tabacco colla testa depressa e triangolare, col collo sottilissimo e che sono cosí velenosi che dagli indiani vengono chiamati i maledetti; alcuni naja chiamati anche ay ay, tutti neri e che iniettano un veleno fulminante, dei boicinega o serpenti a sonaglio e qualche urutú, rettile a strisce bianche disposte in croce sul capo, e la cui morsicatura produce la paralisi del membro offeso.
Il negro, udendo il grido di Carmaux, alzò i suoi occhi grandi, che parevano di porcellana, fissandoli sul filibustiere, poi staccando dalle labbra il flauto, disse con stupore:
– Siete voi?… Ancora qui… Vi credevo già nel golfo, al sicuro dagli spagnuoli.
– Sí, siamo noi ma… il diavolo mi porti se io farò un passo con quei brutti rettili che ti circondano.
– Le mie bestie non fanno male agli amici, – rispose il negro, ridendo. – Aspetta un momento compare bianco e li manderò a dormire.
Prese un cesto di foglie intrecciate, vi mise dentro i serpenti, senza che questi si ribellassero, lo richiuse accuratamente mettendovi sopra, per maggior precauzione, un grosso sasso, poi disse:
– Ora puoi entrare senza timore nella mia capanna, compare bianco. Sei solo?
– No, conduco con me il capitano della mia nave, il fratello del Corsaro Rosso.
– Il Corsaro Nero?… Lui qui?… Maracaybo tremerà tutta!…
– Silenzio, negrotto mio. Metti a nostra disposizione la tua capanna, e non avrai da pentirti.
Il Corsaro era allora giunto assieme al prigioniero ed a Wan Stiller. Salutò con un cenno della mano il negro che lo attendeva dinanzi alla capanna, poi entrò dietro Carmaux, dicendo:
– È questo l’uomo che ti ha aiutato a fuggire?
– Sí, capitano.
– Odia forse gli spagnuoli?
– Al pari di noi.
– Conosce Maracaybo?
– Come noi conosciamo la Tortue.
Il Corsaro si volse a guardare il negro, ammirando la potente muscolatura di quel figlio dell’Africa, poi aggiunse, come parlando fra sé:
– Ecco un uomo che potrà giovarmi
Gettò uno sguardo nella capanna e vista in un angolo una rozza sedia di rami intrecciati, si sedette, tornando ad immergersi nei suoi pensieri.
Intanto il negro si era affrettato a portare alcune focacce di manioca, specie di farina estratta da certi tuberi velenosissimi, ma che dopo essere stati grattugiati e spremuti perdono le loro qualità venefiche; della frutta di anone muricata, sorta di pigne verdi che contengono, sotto le squame esterne, una crema biancastra squisitissima, e parecchie dozzine di quei profumati banani detti d’oro, piú piccoli degli altri, ma molto piú deliziosi e piú nutritivi.
A tutto quello aveva inoltre aggiunto una zucca ripiena di pulque, bibita fermentata che si estrae in notevole quantità dalle agavi.
I tre filibustieri, che non avevano sgretolato un sol biscotto durante l’intera notte, fecero onore a quella colazione non dimenticando il prigioniero; poi si accomodarono alla meglio su alcuni fasci di fresche foglie che il negro aveva portato nella capanna e s’addormentarono tranquillamente, come se si trovassero in piena sicurezza.
Moko si era però messo di sentinella, dopo aver legato per bene il prigioniero, che gli era stato raccomandato dal compare bianco.
Durante l’intera giornata nessuno dei tre filibustieri si mosse: però appena calate le tenebre, il Corsaro si era bruscamente alzato. Era diventato piú pallido del solito ed i suoi occhi neri erano animati da un cupo lampo.
Fece due o tre volte il giro della capanna con passo agitato, poi arrestandosi dinanzi al prigioniero gli disse.
– Io ti ho promesso di non ucciderti, mentre avrei avuto il diritto di appiccarti al primo albero della foresta; tu devi dirmi però se io potrei entrare inosservato nel palazzo del Governatore.
– Volete andare ad assassinarlo per vendicare la morte del Corsaro Rosso?
– Assassinarlo!… – esclamò il filibustiere, con ira. – Io mi batto, non uccido a tradimento, perché sono un gentiluomo. Un duello fra me e lui sí, non un assassinio.
– È vecchio, il governatore, mentre voi siete giovane, e poi non potreste introdurvi nella sua abitazione, senza venire arrestato dai numerosi soldati che vegliano presso di lui.
– So che è coraggioso.
– Come un leone.
– Sta bene: spero di ritrovarlo presto.
Si volse verso i due filibustieri che si erano alzati, dicendo a Wan Stiller:
– Tu rimarrai qui, a guardia di quest’uomo.
– Basta il negro, capitano.
– No, il negro è forte come un ercole e mi sarà di grande aiuto per trasportare la salma di mio fratello. Vieni, Carmaux, andremo a bere una bottiglia di vino di Spagna a Maracaybo.
– Mille pescicani!… A quest’ora, capitano!… – esclamò Carmaux.
– Hai paura?
– Con voi scenderei anche all’inferno, a prendere per il naso messer Belzebú, ma temo che vi scoprano.
Un sorriso beffardo contrasse le sottili labbra del Corsaro.
– La vedremo, – disse poi. – Vieni.
CAPITOLO IV. UN DUELLO FRA QUATTRO MURA
Maracaybo, quantunque non avesse una popolazione superiore alle diecimila anime, in quell’epoca era una delle piú importanti città che la Spagna possedesse sulle coste del Golfo del Messico.
Situata in una splendida posizione, all’estremità meridionale del Golfo di Maracaybo, dinanzi allo stretto che mette nell’ampio lago omonimo, che internasi per molte leghe nel continente, era diventata rapidamente importantissima, e serviva d’emporio a tutte le produzioni del Venezuela.
Gli spagnuoli l’avevano munita di un forte poderoso, armato d’un gran numero di cannoni e sulle due isole, che la difendevano dal lato del golfo, avevano messe guarnigioni fortissime, temendo sempre un’improvvisa irruzione dei formidabili filibustieri della Tortue.
Belle abitazioni erano state erette dai primi avventurieri che avevano posto piede su quelle sponde ed anche non pochi palazzi si vedevano, costruiti da architetti venuti dalla Spagna per cercare fortuna nel nuovo mondo; abbondavano soprattutto i pubblici ritrovi, dove si radunavano i ricchi proprietari di miniere, e dove, in tutte le stagioni, danzavasi il fandango od il bolero.
Quando il Corsaro ed i suoi compagni, Carmaux ed il negro, entrarono in Maracaybo indisturbati, le vie erano ancora popolate e le taverne dove spacciavansi vini d’oltre Atlantico erano affollate, poiché gli spagnuoli, anche nelle loro colonie, non avevano rinunciato a sorbirsi un ottimo bicchiere della natia Malaga o Xéres. Il Corsaro aveva rallentato il passo. Col feltro calato sugli occhi, avvolto nel suo mantello, quantunque la sera fosse calda, colla sinistra appoggiata fieramente sulla guardia della spada, osservava attentamente le vie e le case, come se avesse voluto imprimersele nella mente.
Giunti sulla Plaza de Granada che formava il centro della città, s’arrestò sull’angolo di una casa, appoggiandosi contro il muro, come se una improvvisa debolezza avesse colto quel fiero scorridore del golfo.
La piazza offriva uno spettacolo cosí lugubre, da fare fremere l’uomo piú impassibile della terra.
Da quindici forche, innalzate in semicerchio dinanzi ad un palazzo sul quale ondeggiava la bandiera spagnuola, pendevano quindici cadaveri umani.
Erano tutti scalzi, colle vesti a brandelli, eccettuato uno che indossava un costume dal colore del fuoco e che calzava alti stivali da mare.
Sopra quelle quindici forche, numerosi gruppi di zopilotes e di urubu, piccoli avvoltoi dalle penne tutte nere, incaricati della pulizia delle città dell’America centrale, pareva che non attendessero la putrefazione di quei disgraziati per gettarsi su quelle povere carni.
Carmaux si era avvicinato al Corsaro, dicendogli con voce commossa:
– Ecco i compagni.
– Sí, – rispose il Corsaro, con voce sorda. – Reclamano vendetta e l’avranno presto.
Si staccò dal muro facendo uno sforzo violento, chinò il capo sul petto come se avesse voluto celare la terribile emozione che aveva sconvolto i suoi lineamenti e s’allontanò a rapidi passi, entrando in una posada, specie d’albergo, dove abitualmente si radunano i nottambuli per vuotare con loro comodo parecchi boccali di vino.
Trovato un tavolo vuoto si sedette, o meglio si lasciò cadere su di una scranna, senza alzare il capo, mentre Carmaux urlava:
– Un boccale del tuo migliore Xeres, oste briccone!… Bada che sia autentico o non rispondo dei tuoi orecchi… L’aria del golfo mi ha fatta venire una tale sete, da asciugare tutta la tua cantina!…
Quelle parole, pronunciate in puro biscaglino, fecero accorrere piú che in fretta il trattore, con un fiasco di quell’eccellente vino.
Carmaux empí tre tazze, ma il Corsaro era cosí immerso nei suoi tetri pensieri, che non pensò di toccare la sua.
– Per mille pescicani, – borbottò Carmaux, urtando il negro. – Il padrone è in piena tempesta ed io non vorrei trovarmi nei panni degli spagnuoli. Bell’audacia, in fede mia, venire qui; ma già, lui non ha paura.
Si guardò intorno con una certa curiosità non esente da una vaga paura ed i suoi occhi s’incontrarono con quelli di cinque o sei individui armati di navaje smisurate, i quali lo guardavano con particolare attenzione.
– Pare che mi ascoltassero, – diss’egli al negro. – Chi sono costoro?…
– Baschi al servizio del Governatore.
– Compatrioti militanti sotto altre bandiere. Bah! Se credono di spaventarmi colle loro navaje, s’ingannano.
Quegl’individui frattanto avevano gettate le sigarette che stavano fumando e dopo essersi bagnata la gola con alcune tazze di Malaga, si erano messi a chiacchierare con voce cosí alta da farsi udire perfettamente da Carmaux.
– Avete veduti gli appiccati?… – aveva chiesto uno.
– Sono andato a vederli anche questa sera, – aveva risposto un altro. – È sempre un bello spettacolo che offrono quelle canaglie!… Ce n’è uno che fa scoppiare dalle risa, con quella lingua che gli esce dalla bocca mezzo palmo.
– Ed il Corsaro Rosso? – chiese un terzo. – Gli hanno messo in bocca perfino una sigaretta onde renderlo piú ridicolo.
– Ed io voglio porgli in mano un ombrello onde domani si ripari dal sole. Lo vedremo…
Un pugno formidabile, picchiato sul tavolo e che fece traballare le tazze gl’interruppe la frase.
Carmaux, impotente a frenarsi, prima ancora che il Corsaro Nero avesse pensato a trattenerlo, si era alzato di balzo ed aveva lasciato andare sulla tavola vicina quel formidabile pugno.
– Rayos de dios! – tuonò. – Bella prodezza deridere i morti; il bello è deridere i vivi, miei cari caballeros!…
I cinque bevitori, stupiti da quell’improvviso scoppio di rabbia dello sconosciuto, si erano alzati precipitosamente, tenendo la destra sulle navaje, poi uno di loro, il piú ardito senza dubbio, gli chiese con cipiglio:
– Chi siete voi, caballero?
– Un buon biscaglino che rispetta i morti, ma che sa bucare il ventre anche ai vivi.
I cinque bevitori a quella risposta, che poteva prendersi per una spacconata, si misero a ridere, facendo andare maggiormente in bestia il filibustiere.
– Ah!… È cosí? – disse questi, pallido d’ira.
Guardò il Corsaro, che non si era mosso come se quell’alterco non lo riguardasse, poi allungando una mano verso colui che lo aveva interrogato, lo respinse furiosamente urlandogli contro:
– Il lupo di mare mangerà il lupicino di terra!…
L’uomo respinto era caduto addosso ad un tavolo, ma si era prontamente rimesso in gambe, levandosi rapidamente dalla cintura la navaja, che aprí con un colpo secco. Stava senz’altro per scagliarsi contro Carmaux e passarlo da parte a parte, quando il negro, che fino allora era rimasto semplice spettatore, ad un cenno del Corsaro balzò fra i due litiganti, brandendo minacciosamente una pesante sedia di legno e di ferro.
– Fermo o t’accoppo!… – gridò all’uomo armato.
Vedendo quel gigante dalla pelle nera come il carbone la cui potente muscolatura pareva pronta a scattare, i cinque baschi erano indietreggiati, per non farsi stritolare da quella sedia che descriveva in aria delle curve minacciose.
Quindici o venti bevitori che si trovavano in una stanza attigua, udendo quel baccano, si erano affrettati ad accorrere, preceduti da un omaccio armato di uno spadone, un vero tipo di bravaccio, coll’ampio cappello piumato inclinato su di un orecchio ed il petto racchiuso entro una vecchia corazza di pelle di Cordova.
– Che cosa succede qui? – disse ruvidamente quell’uomo, sguainando il brando, con una mossa tragica.
– Succedono, mio caro caballero, – disse Carmaux, inchinandosi in modo buffo, – certe cose che non vi riguardano affatto.
– Eh!… per tutti i Santi… – gridò il bravaccio con cipiglio. – Si vede che voi non conoscete don Gamaraley Miranda, conte di Badajoz, nobile di Camargua, e visconte di…
– Di casa del diavolo, – disse il Corsaro Nero, alzandosi bruscamente e guardando fisso il bravaccio. – E cosí, caballero, conte, marchese, duca, eccetera?…
Il signor di Gamara e d’altri luoghi ancora arrossí come una peonia, poi impallidí, dicendo con voce rauca:
– Per tutte le streghe dell’inferno!… Non so chi mi tenga dal mandarvi all’altro mondo a tenere compagnia a quel cane di Corsaro Rosso che fa cosí bella mostra sulla Plaza de Granada ed ai suoi quattordici birbanti.
Questa volta fu il Corsaro che impallidí orribilmente. Con un gesto trattenne Carmaux che stava per scagliarsi contro l’avventuriero, si sbarazzò del mantello e del cappello e con un rapido gesto snudò la spada, dicendo con voce fremente:
– Il cane sei tu e chi andrà a tenere compagnia agli appiccati sarà la tua anima dannata.
Fece cenno agli spettatori di fare largo e si mise di fronte all’avversario, ponendosi in guardia con una eleganza e con una sicurezza da sconcertare l’avversario.
– A noi, conte di casa del diavolo – disse coi denti stretti. – Fra poco qui vi sarà un morto.
L’avventuriero si era messo in guardia, ma ad un tratto si rialzò, dicendo:
– Un momento, caballero. Quando s’incrocia il ferro si ha il diritto di conoscere il nome dell’avversario.
– Sono piú nobile di te, ti basta?…
– No, è il nome che voglio sapere.
– Lo vuoi?… Sia, ma peggio per te, poiché non lo dirai piú a nessuno.
Gli si avvicinò e gli mormorò alcune parole in un orecchio.
L’avventuriero aveva mandato un grido di stupore e fors’anche di spavento e aveva fatto due passi indietro come se avesse voluto rifugiarsi fra gli spettatori e tradire il segreto; ma il Corsaro Nero aveva cominciato ad incalzarlo vivamente, costringendolo a difendersi.
I bevitori avevano formato un ampio circolo attorno ai duellanti. Il negro e Carmaux erano in prima linea, però non sembravano affatto preoccupati dell’esito di quello scontro, specialmente l’ultimo che sapeva di quanto era capace il fiero corsaro. L’avventuriero, fino dai primi colpi, si era accorto d’aver dinanzi un avversario formidabile, deciso ad ucciderlo al primo colpo falso, e ricorreva a tutte le risorse della scherma per parare le botte che grandinavano.
Quell’uomo non era però uno spadaccino da disprezzarsi. Alto di statura, grosso e robustissimo, dal polso fermo e dal braccio vigoroso, doveva opporre una lunga resistenza e si capiva che non era facile a stancarsi.
Il Corsaro tuttavia, snello, agile, dalla mano pronta, non gli dava un istante di tregua, come se temesse che approfittasse della minima sosta per tradirlo.
La sua spada lo minacciava sempre, costringendolo a continue parate. La punta scintillante balenava dappertutto, batteva forte il ferro dell’avventuriero, facendo sprizzare scintille, e andava a fondo con una velocità cosí fulminea da sconcertare l’avversario.
Dopo due minuti l’avventuriero, non ostante il suo vigore poco meno che erculeo, cominciava a sbuffare ed a rompere. Si sentiva imbarazzato a rispondere a tutte le botte del Corsaro e non conservava piú la calma primiera. Sentiva che la pelle correva un gran pericolo e che avrebbe finito davvero coll’andare a tenere poco allegra compagnia agli appiccati della Plaza de Granada.
Il Corsaro invece pareva che avesse appena sfoderata la spada. Balzava innanzi con un’agilità da giaguaro, incalzando sempre con crescente vigore l’avventuriero. Solamente i suoi sguardi, animati da un cupo fuoco, tradivano la collera della sua anima. Quegli occhi non si staccavano un solo istante da quelli dell’avversario, come se volessero affascinarlo e turbarlo. Il cerchio degli spettatori si era aperto per lasciare campo all’avventuriero, il quale retrocedeva sempre, avvicinandosi alla parete opposta.
Carmaux, sempre in prima fila, cominciava a ridere, prevedendo presto lo scioglimento di quel terribile scontro.
Ad un tratto l’avventuriero si trovò addosso al muro. Impallidí orribilmente e grosse gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.
– Basta… – rantolò, con voce affannosa.
– No, – gli disse il Corsaro, con accento sinistro. – Il mio segreto deve morire con te.
L’avversario tentò un colpo disperato. Si rannicchiò piú che poté, poi si scagliò innanzi, vibrando tre o quattro stoccate una dietro l’altra.
Il Corsaro, fermo come una rupe, le aveva parate con eguale rapidità.
– Ora t’inchioderò sulla parete, – gli disse.
L’avventuriero, pazzo di spavento, comprendendo ormai di essere perduto, si mise a urlare.
– Aiuto!… Egli è il Co…
Non finí. La spada del Corsaro gli era entrata nel petto, inchiodandolo nella parete e spegnendogli la frase.
Un getto di sangue gli uscí dalle labbra macchiandogli la corazza di pelle che non era stata sufficiente a ripararlo da quel tremendo colpo di spada, sbarrò spaventosamente gli occhi, guardando l’avversario con un ultimo lampo di terrore, poi stramazzò pesantemente al suolo, spezzando in due la lama che lo tratteneva al muro.
– Se n’è andato, – disse Carmaux, con un accento beffardo.
Si curvò sul cadavere, gli strappò di mano la spada e porgendola al capitano che guardava con occhio tetro l’avventuriero, gli disse:
– Giacché l’altra si è spezzata, prendete questa. Per bacco!… È una vera lama di Toledo, ve lo assicuro, signore.
Il Corsaro prese la spada del vinto senza dir verbo, andò a prendere il cappello, gettò sul tavolo un doblone d’oro e uscí dalla posada seguito da Carmaux e dal negro, senza che gli altri avessero osato trattenerlo.
CAPITOLO V. L’APPICCATO
Quando il Corsaro ed i suoi compagni giunsero sulla Plaza de Granada, l’oscurità era cosí profonda, da non potersi distinguere una persona a venti passi di distanza.
Un profondo silenzio regnava sulla piazza, rotto solamente dal lugubre gracidare di qualche urubu, vigilante sulle quindici forche degli appiccati. Non si udivano nemmeno piú i passi della sentinella posta dinanzi al palazzo del Governatore, la cui massa giganteggiava dinanzi alle forche.
Tenendosi presso i muri delle case o dietro ai tronchi delle palme, il Corsaro, Carmaux ed il negro s’avanzavano lentamente, cogli orecchi tesi, gli occhi bene aperti e le mani sulle armi, tentando di giungere inosservati presso i giustiziati.
Di tratto in tratto, quando qualche rumore echeggiava per la vasta piazza, s’arrestavano sotto la cupa ombra di qualche pianta o sotto l’oscura arcata di qualche porta, aspettando, con un certa ansietà, che il silenzio fosse tornato.
Erano già giunti a pochi passi dalla prima forca, dalla quale dondolava, mosso dalla brezza notturna, un povero diavolo quasi nudo, quando il Corsaro additò ai compagni una forma umana che si agitava sull’angolo del palazzo del Governatore.
– Per mille pescicani!… – borbottò Carmaux. – Ecco la sentinella!… Quell’uomo verrà a guastarci il lavoro.
– Ma Moko è forte, – disse il negro. – Io andrò a rapire quel soldato.
– E ti farai bucare il ventre, compare.
Il negro sorrise, mostrando due file di denti bianchi come l’avorio, e cosí acuti da fare invidia ad uno squalo, dicendo:
– Moko è astuto e sa strisciare come i serpenti che incanta.
– Va’, – gli disse il Corsaro. – Prima di prenderti con me, voglio avere una prova della tua audacia.
– L’avrete, padrone. Io prenderò quell’uomo come un tempo prendevo gli jacaré della laguna.
Si tolse dai fianchi una corda sottile, di cuoio intrecciato e che terminava in un anello, un vero lazo, simile a quello usato dai vaqueros messicani per dare la caccia ai tori, e s’allontanò silenziosamente, senza produrre il menomo rumore.
Il Corsaro, nascosto dietro il tronco d’una palma, lo guardava attentamente, ammirando forse la risolutezza di quel negro che, quasi inerme, andava ad affrontare un uomo bene armato e certamente risoluto.
– Ha del fegato il compare, – disse Carmaux.
Il Corsaro fece un cenno affermativo col capo, ma non pronunciò una sola parola. Continuava a guardare l’africano il quale strisciava al suolo come un serpente avvicinandosi lentamente al palazzo del Governatore.
Il soldato si allontanava allora dall’angolo, dirigendosi verso il portone, era armato di un’alabarda ed al fianco portava anche una spada.
Vedendo che gli volgeva le spalle, Moko strisciava piú velocemente tenendo in mano il lazo. Quando giunse a dodici passi si alzò rapidamente, fece volteggiare in aria due o tre volte la corda, poi la lanciò con mano sicura. S’udí un leggero sibilo, poi un grido soffocato ed il soldato stramazzò al suolo, lasciando cadere l’alabarda ed agitando pazzamente le gambe e le braccia.
Moko, con un balzo da leone, gli era piombato addosso. Imbavagliarlo strettamente colla fascia rossa che portava alla cintola, legarlo per bene e portarlo via come se fosse stato un fanciullo, fu l’affare di pochi istanti.
– Eccolo, – disse, gettandolo ruvidamente ai piedi del capitano.
– Sei un valente, – rispose il Corsaro. – Legalo a questo albero e seguimi.
Il negro obbedí aiutato da Carmaux, poi tutti e due raggiunsero il Corsaro, il quale esaminava gli appiccati dondolanti dalle forche.
Giunti in mezzo alla piazza, il capitano s’arrestò dinanzi ad un giustiziato che indossava un costume rosso e che, per amara derisione, teneva fra le labbra un pezzo di sigaro.
Nel vederlo, il Corsaro aveva mandato un vero grido di orrore.
– I maledetti!… – esclamò. – Mancava a loro l’ultimo disprezzo!
La sua voce, che pareva il lontano ruggito d’una fiera, terminò in uno straziante singhiozzo.
– Signore, – disse Carmaux, con voce commossa, – siate forte!
Il Corsaro fece un gesto colla mano indicandogli l’appiccato.
– Subito, mio capitano, – rispose Carmaux.
Il negro si era arrampicato sulla forca, tenendo fra le labbra il coltello del filibustiere. Recise con un colpo solo la fune, poi calò giú il cadavere, adagio, adagio.
Carmaux gli si era fatto sotto. Quantunque la putrefazione avesse cominciato a decomporre le carni del Corsaro Rosso, il filibustiere lo prese delicatamente fra le braccia e l’avvolse nel mantello nero che il capitano gli porgeva.
– Andiamo – disse il Corsaro, con un sospiro. – La nostra missione è finita e l’oceano aspetta la salma del valoroso.
Il negro prese il cadavere, se lo accomodò fra le braccia, lo coprí per bene col mantello, e poi tutti e tre abbandonarono la piazza, tristi e taciturni. Quando però giunsero all’estremità, il Corsaro si volse guardando un’ultima volta i quattordici appiccati, i cui corpi spiccavano lugubremente fra le tenebre, e disse con voce mesta:
– Addio, valorosi disgraziati; addio compagni del Corsaro Rosso! La filibusteria vendicherà ben presto la vostra morte.
Poi, fissando con due occhi ardenti il palazzo del Governatore giganteggiante in fondo alla piazza, aggiunse con voce cupa:
– Tra me e te, Wan Guld, sta la morte!…
Si misero in cammino, frettolosi di uscire da Maracaybo e di giungere al mare per tornare a bordo della nave corsara. Ormai piú nulla avevano da fare in quella città, entro le cui vie non si sentivano piú sicuri, dopo l’avventura della posada. Avevano già percorse tre o quattro viuzze deserte, quando Carmaux, che camminava dinanzi a tutti, credette di scorgere delle ombre umane, seminascoste sotto l’oscura arcata d’una porta.
– Adagio, – mormorò, volgendosi verso i compagni. – Se non sono diventato cieco, vi sono delle persone che mi pare ci attendano.
– Dove? – chiese il Corsaro.
– Là sotto.
– Forse ancora gli uomini della posada?
– Mille pesci… cani!… Che siano i cinque baschi colle loro navaje?
– Cinque non sono troppi per noi, e faremo pagare caro l’agguato, – disse il Corsaro sguainando la spada.
– La mia sciabola d’arrembaggio avrà buon gioco sulle loro navaje!… – disse Carmaux.
Tre uomini avvolti in grandi mantelli fioccati, dei serapé senza dubbio, si erano staccati dall’angolo d’un portone occupando il marciapiede di destra, mentre due altri, che fino allora si erano tenuti celati dietro un carro abbandonato, chiudevano il passo sul marciapiede di sinistra.
– Sono i cinque baschi, – disse Carmaux. – Vedo le navaje luccicare alle loro cintole.
– Tu incaricati dei due di sinistra ed io dei tre di destra, – disse il Corsaro, – e tu, Moko, non occuparti di noi e prendi il largo col cadavere. Ci aspetterai sul margine della foresta.
I cinque baschi si erano sbarazzati dei mantelli piegandoli in quattro e ponendoseli sul braccio sinistro, poi avevano aperto i loro lunghi coltellacci dalla punta acuta come le lame delle spade:
– Ah!… Ah!… – disse colui che era stato respinto da Carmaux.
– Pare che non ci siamo ingannati.
– Largo!… – gridò il Corsaro, che si era messo dinanzi ai compagni.
– Adagio, caballero, – disse il basco, facendosi innanzi.
– Che cosa vuoi tu?…
– Soddisfare una piccola curiosità che ci cruccia.
– E quale?
– Sapere chi siete voi, caballero.
– Un uomo che uccide chi gli dà impiccio, – rispose fieramente il Corsaro, avanzandosi colla spada in pugno.
– Allora vi dirò, caballero, che noi siamo uomini che non hanno paura, e che non ci faremo uccidere come quel povero diavolo che avete inchiodato al muro. Il vostro nome ed i vostri titoli o non uscirete da Maracaybo. Siamo ai servizi del signor Governatore e dobbiamo rispondere delle persone che passeggiano per le vie ad un’ora cosí tarda.
– Se volete saperlo, venite a chiedermi il mio nome, – disse il Corsaro mettendosi rapidamente in guardia. – A te i due di destra, Carmaux.
Il filibustiere aveva sguainata la sciabola d’arrembaggio e muoveva risolutamente contro i due avversari che impedivano il passo sul marciapiede opposto.
I cinque baschi non si erano mossi, aspettando l’assalto dei due filibustieri. Fermi sulle gambe che tenevano un po’ aperte per essere piú pronti a tutte le evoluzioni, colla mano sinistra stretta contro la cintura e la destra attorno al manico della navaja, ma col pollice appoggiato sulla parte piú larga della lama, aspettavano il momento opportuno per scagliare i colpi mortali.
Dovevano essere cinque diestros, ossia valenti, ai quali non dovevano essere sconosciuti i colpi piú famosi, né il javeque, ferita ignominiosa che sfregia il viso, né il terribile desjarretazo che si avventa per di dietro, sotto l’ultima costola e che recide la colonna vertebrale.
Vedendo che non si decidevano, il Corsaro, impaziente di aprirsi il passo, piombò sui tre avversari che gli stavano di fronte, vibrando botte a destra ed a manca con velocità fulminea, mentre Carmaux caricava gli altri due sciabolando come un pazzo.
I cinque diestros non si erano per questo sgomentati. Dotati di una agilità prodigiosa, balzavano indietro parando i colpi ora colle larghe lame dei loro coltellacci ed ora coi serapé, che tenevano avvolti intorno al braccio sinistro.
I due filibustieri erano diventati prudenti, essendosi accorti di avere da fare con degli avversari pericolosi.
Quando però videro il negro allontanarsi col cadavere e perdersi fra l’oscurità della via tornarono furiosamente alla carica, frettolosi di sbrigarsela prima che qualche guardia, attirata da quel cozzare di ferri, potesse giungere in aiuto dei baschi.
Il Corsaro, la cui spada era ben piú lunga delle navaje e la cui abilità nella scherma era straordinaria, poteva avere buon gioco, mentre Carmaux era costretto a tenersi molto in guardia essendo la sua sciabola assai corta.
I sette uomini lottavano con furore, ma in silenzio, essendo tutti assorti nel parare e vibrare colpi. S’avanzavano, indietreggiavano, balzavano ora a destra ed ora a manca, percuotendo forte i ferri.
Ad un tratto il Corsaro, vedendo uno dei tre avversari perdere l’equilibrio e fare un passo falso, scoprendo per un istante il petto, si allungò con una mossa fulminea.
La lama toccò e l’uomo cadde senza mandare un gemito.
– E uno, – disse il Corsaro, rivolgendosi agli altri. – Fra poco avrò la vostra pelle!
I due baschi, per nulla intimoriti, stettero fermi dinanzi a lui, senza fare un passo indietro; d’improvviso però il piú agile gli si precipitò addosso curvandosi verso terra e spingendo dinanzi il serapé che gli riparava il braccio, come se volesse portare il colpo della parte baja, che se riesce squarcia il ventre, ma poi si rialzò e scartandosi bruscamente tentò di vibrare la botta mortale, il desjarretazo.
Il Corsaro fu lesto a gettarsi da un lato e partí a fondo, però la sua lama s’imbarazzò nel serapé del valiente.
Tentò di rimettersi in guardia per parare i colpi che gli vibrava l’altro basco e quasi subito mandò un grido di rabbia.
La lama era stata spezzata a metà dal braccio dell’uomo che stava per vibrargli il desjarretazo.
Balzò indietro agitando il pezzo di spada, e urlando:
– A me, Carmaux!…
Il filibustiere che non era ancora riuscito a sbrigarsi dei suoi due avversari, quantunque li avesse costretti a indietreggiare fino all’angolo della via, in tre salti gli fu presso.
– Per mille pescicani!… – tuonò, – eccoci in un bell’impiccio!…Saremo bravi se riusciremo a levarci d’attorno questa muta di cani arrabbiati.
– Teniamo la vita di due di quei bricconi, – rispose il Corsaro, armando precipitosamente la pistola che teneva alla cintola.
Stava per far fuoco sul piú vicino, quando vide precipitarsi addosso ai quattro baschi, che si erano radunati, credendosi ormai certi della vittoria, un’ombra gigantesca. Quell’uomo, giunto in cosí buon punto, teneva in mano un grosso randello.
– Moko!… – esclamarono il Corsaro e Carmaux.
Il negro invece di rispondere alzò il bastone e si mise a tempestare gli avversari con tale furia, che quei disgraziati in un baleno furono tutti a terra, chi colla testa rotta e chi colle costole sfondate.
– Grazie compare!… – gridò Carmaux. – Mille fulmini!… che grandinata!…
– Fuggiamo, – disse il Corsaro. – Qui piú nulla abbiamo da fare.
Alcuni abitanti, svegliati dalle grida dei feriti, cominciavano ad aprire le finestre per vedere di che cosa si trattava.
I due filibustieri ed il negro, sbarazzatisi dei cinque assalitori, svoltarono precipitosamente l’angolo della via.
– Dove hai lasciato il cadavere? – chiese il Corsaro all’africano.
– È già fuori della città – rispose il negro.
– Grazie del tuo soccorso.
– Avevo pensato che il mio intervento poteva esservi utile e mi sono affrettato a ritornare.
– Vi è nessuno all’estremità del borgo?
– Non ho veduto alcuno.
– Allora affrettiamoci a battere in ritirata, prima che giungano altri avversari, – disse il Corsaro.
Stavano per mettersi in marcia, quando Carmaux, che s’era spinto innanzi per perlustrare una via laterale, tornò rapidamente indietro, dicendo:
– Capitano, sta per giungere una pattuglia!…
– Da dove?
– Da quella viuzza.
– Ne prenderemo un’altra. Le armi in mano, miei prodi, e avanti!…
Va’ a disarmare il biscaglino che ho ucciso; in mancanza di altro è buona anche una navaja.
– Col vostro permesso v’offro la mia sciabola, capitano; io so adoperare quei lunghi coltelli.
Il bravo marinaio porse al Corsaro la propria sciabola, poi tornò indietro e andò a raccogliere la navaja di uno dei biscaglini, arma formidabile anche in mano sua.
Il drappello s’avvicinava a grandi passi. Forse aveva udito le grida dei combattenti ed il cozzare delle armi e s’affrettava ad accorrere.
I filibustieri, preceduti da Moko, si misero a correre tenendosi presso i muri delle case; percorsi circa centocinquanta passi, udirono il passo cadenzato di un altra pattuglia.
– Tuoni! – esclamò Carmaux. – Stiamo per essere presi in mezzo.
Il Corsaro Nero s’era arrestato, impugnando la corta sciabola del filibustiere.
– Che siamo stati traditi?… – mormorò.
– Capitano, – disse l’africano. – Vedo otto uomini armati di alabarde e di moschettoni avanzarsi verso di noi.
– Amici, – disse il Corsaro, – qui si tratta di vendere cara la vita.
– Comandate che cosa si deve fare e noi siamo pronti – risposero il filibustiere ed il negro, con voce decisa.
– Moko!
– Padrone!
– Affido a te l’incarico di portare a bordo il cadavere di mio fratello. Sei capace di farlo? Troverai la nostra scialuppa sulla spiaggia e ti porrai in salvo con Wan Stiller.
– Sí, padrone.
– Noi faremo il possibile per sbarazzarci dei nostri avversari, ma se dovessimo venire sopraffatti, Morgan sa cosa dovrà fare. Va’, porta il cadavere a bordo, poi verrai qui a vedere se siamo ancora vivi o morti.
– Non so decidermi a lasciarvi, padrone; io sono forte e posso esservi di molta utilità.
– Mi preme che mio fratello sia sepolto in mare come il Corsaro Verde e poi tu puoi renderci maggiori servigi recandoti a bordo della mia Folgore, che qui.
– Ritornerò con dei rinforzi, signore.
– Morgan verrà, sono certo di questo. Vattene: ecco la pattuglia.
Il negro non se lo fece ripetere due volte. Essendo però la via sbarrata dalle due pattuglie, si cacciò in una via laterale mettendo capo ad una muraglia che serviva di riparo ad un giardino.
Il Corsaro, vistolo scomparire, si volse verso il filibustiere, dicendo:
– Prepariamoci a piombare sulla pattuglia che ci sta dinanzi. Se riusciamo con un improvviso attacco ad aprirci il passo, forse potremo guadagnare la campagna e poi la foresta.
Si trovavano allora sull’angolo della via. La seconda pattuglia, già scorta dal negro, non era lontana piú di trenta passi, mentre la prima non si scorgeva ancora, essendosi forse arrestata.
– Teniamoci pronti, – disse il Corsaro.
– Lo sono, – disse il filibustiere, che s’era nascosto dietro l’angolo della casa.
Gli otto alabardieri avevano rallentato il passo come se temessero qualche sorpresa, anzi uno di loro, forse il comandante, aveva detto:
– Adagio, giovanotti! Quei bricconi devono trovarsi poco lontano di certo.
– Siamo in otto, signor Elvaez, – disse un soldato, – mentre il taverniere ci ha detto che i filibustieri erano solamente tre.
– Ah! Furfante d’un oste! – mormorò Carmaux. – Ci ha traditi! Se mi capita fra le mani gli farò un occhiello nel ventre, e cosí grande da fargli uscire tutto il vino che avrà bevuto in una settimana!
Il Corsaro Nero aveva alzato la sciabola pronto a scagliarsi.
– Avanti!… – urlò.
I due filibustieri si rovesciarono con impeto irresistibile addosso alla pattuglia che stava per svoltare l’angolo della via, vibrando colpi disperati a destra ed a manca, con rapidità fulminea.
Gli alabardieri, sorpresi da quell’improvviso attacco, non poterono resistere e si gettarono chi da una parte e chi dall’altra, per sottrarsi a quella gragnuola di colpi. Quando si furono rimessi dallo stupore, il Corsaro ed il suo compagno erano già lontani. Accortisi però che avevano avuto da fare con due soli uomini, si slanciarono sulle loro tracce, urlando a squarciagola:
– Fermateli! I filibustieri! I filibustieri!…
Il Corsaro e Carmaux correvano alla disperata, senza però sapere dove andassero. Si erano cacciati in mezzo ad un dedalo di viuzze e voltavano ad ogni istante angoli di case senza però riuscire a guadagnare la campagna.
Gli abitanti, svegliati dalle urla della pattuglia ed allarmati dalla presenza di quei formidabili scorridori del mare, cosí temuti in tutte le città spagnole dell’America, si erano alzati e si udivano porte e finestre aprirsi o chiudersi con fracasso, mentre qualche colpo di fucile rimbombava.
La situazione dei fuggiaschi stava per diventare, da un istante all’altro, disperata; quelle grida e quegli spari potevano spargere l’allarme anche nel centro della città e fare accorrere l’intera guarnigione.
– Tuoni!… – esclamava Carmaux, galoppando furiosamente. – Tutte queste grida di oche spaventate finiranno col perderci! Se non troviamo il modo di gettarci nella campagna, finiremo su una forca con una solida corda al collo.
Sempre correndo, erano allora giunti all’estremità d’una viuzza la quale pareva che non avesse nessuno sbocco.
– Capitano! – gridò Carmaux, che si trovava dinanzi. – Noi ci siamo cacciati in una trappola.
– Che cosa vuoi dire? – chiese il Corsaro.
– Che la via è chiusa.
– Non vi è alcun muro da scalare?
– Non vi sono che case alte assai.
– Torniamo, Carmaux. Gl’inseguitori sono ancora lontani e possiamo forse trovare qualche nuova via che ci conduca fuori di città.
Stava per riprendere la corsa, quando disse bruscamente:
– No, Carmaux! Mi è balenata una nuova idea nel cervello. Io credo che con un po’ d’astuzia possiamo fare perdere le nostre tracce.
Egli si era rapidamente diretto verso la casa che chiudeva la estremità di quella viuzza. Era quella una modesta abitazione a due piani, costruita parte in muratura e parte in legno, con una piccola terrazza verso la cima, adorna di vasi e di fiori.
– Carmaux, – disse il Corsaro. – Aprimi questa porta.
– Ci nascondiamo in questa casa?
– Mi sembra il mezzo migliore per fare perdere le nostre tracce ai soldati.
– Benissimo, capitano. Diventeremo proprietari senza pagare un soldo di pigione.
Presa la lunga navaja, introdusse la punta nella fessura della porta e facendo forza fece saltare il chiavistello.
I due filibustieri si affrettarono ad entrare, chiudendo tosto la porta, mentre i soldati passavano all’estremità della viuzza, urlando sempre a squarciagola:
– Fermateli! fermateli!
Brancolando fra l’oscurità, i due filibustieri giunsero ben presto ad una scala che salirono senza esitare, fermandosi solo sul pianerottolo superiore.
– Bisogna vedere dove si va, – disse Carmaux, – e conoscere gli inquilini. Che brutta sorpresa per quei poveri diavoli!
Estrasse un acciarino ed un pezzo di miccia da cannone e l’accese, soffiandovi sopra per ravvivare la fiamma.
– To’!… Vi è una porta aperta, – disse.
– E qualcuno che russa, – aggiunse il Corsaro.
– Buon segno!… Colui che dorme è una persona pacifica.
Il Corsaro intanto aveva aperta la porta procurando di non fare rumore ed era entrato in una stanza ammobiliata modestamente e dove si vedeva un letto che pareva occupato da una persona.
Prese la miccia, accese una candela che aveva scorta su di una vecchia cassa che doveva servire da canterano, poi si avvicinò al letto ed alzò risolutamente la coperta. Un uomo occupava il posto. Era un vecchietto già calvo, rugoso, dalla pelle incartapecorita e color del mattone, con una barbetta da capra e due baffi arruffati. Dormiva cosí saporitamente da non accorgersi che la stanza era stata illuminata.
– Non sarà certamente quest’uomo che ci darà dei fastidi, – disse il Corsaro.
Lo afferrò per un braccio e lo scosse ruvidamente, però dapprima senza successo.
– Bisognerà sparargli una trombonata in un orecchio – disse Carmaux.
Alla terza scossa però, piú vigorosa delle altre, il vecchio si decise ad aprire gli occhi. Scorgendo quei due uomini armati, si alzò rapidamente a sedere, sgranando due occhi spaventati ed esclamando con voce strozzata dal terrore:
– Sono morto!
– Ehi, amico! C’è del tempo a morire, – disse Carmaux. – Mi sembra anzi che ora siate piú vivo di prima.
– Chi siete? – chiese il Corsaro.
– Un povero uomo che non ha mai fatto male a nessuno – rispose il vecchio, battendo i denti.
– Noi non abbiamo intenzione di farvi del male, se risponderete a quanto vorremo sapere.
– Vostra eccellenza non è dunque un ladro?…
– Sono un filibustiere della Tortue.
– Un fili… bu… stiere!… Allora… sono… morto!…
– Vi ho detto che non vi si farà nulla di male.
– Cosa volete adunque da un povero uomo come me?
– Sapere innanzi tutto se siete solo in questa casa.
– Sono solo, signore.
– Chi abita in questi dintorni?
– Dei bravi borghesi.
– Che cosa fate voi?
– Sono un povero uomo.
– Sí, un povero uomo che possiede una casa, mentre io non ho nemmeno un letto, – disse Carmaux. – Ah!… vecchia volpe, tu hai paura per i tuoi denari!…
– Non ho denari, eccellenza.
Carmaux scoppiò in una risata.
– Un filibustiere che diventa eccellenza!… Ma quest’uomo è il piú allegro compare che io abbia mai incontrato.
Il vecchio lo sbirciò di traverso, però si guardò bene dal mostrarsi offeso.
– Alle corte, – disse il Corsaro, con un tono minaccioso. – Che cosa fate voi a Maracaybo?
– Sono un povero notaio, signore.
– Sta bene: sappi intanto che noi prendiamo alloggio nella tua casa, finché giungerà l’occasione di andarcene. Noi non ti faremo male alcuno; bada però che se ci tradisci, la tua testa lascierà il tuo collo. Mi hai compreso?
– Ma che cosa volete da me? – piagnucolò il disgraziato.
– Nulla per ora. Indossa le tue vesti e non mandare un grido o metteremo in esecuzione la minaccia.
Il notaio si affrettò ad obbedire; era però cosí spaventato e tremava tanto, che Carmaux fu costretto ad aiutarlo.
– Ora legherai quest’uomo, – disse il Corsaro. – Stà attento che non fugga.
– Rispondo di lui come di me stesso, capitano. Lo legherò cosí bene che non potrà fare il piú piccolo movimento.
Mentre il filibustiere riduceva all’impotenza il vecchio, il Corsaro aveva aperta la finestra che guardava sulla viuzza, per vedere che cosa succedeva al di fuori.
Pareva che le pattuglie si fossero ormai allontanate, non udendosi piú le loro grida; però delle persone, svegliate da quegli allarmi, si vedevano alle finestre delle case vicine e si udivano chiacchierare ad alta voce.
– Avete udito? – gridava un omaccione che mostrava un lungo archibugio. – Pare che i filibustieri abbiano tentato un colpo sulla città.
– È impossibile, – risposero alcune voci.
– Ho udito i soldati a gridare.
– Sono stati messi in fuga?
– Lo credo poiché non si ode piú nulla.
– Una bella audacia!… Entrare in città con tanti soldati che vi sono qui!…
– Volevano certamente salvare il Corsaro Rosso.
– Ed invece lo hanno trovato appiccato.
– Che brutta sorpresa per quei ladroni!…
– Speriamo che i soldati ne prendano degli altri da appiccare – disse l’uomo dell’archibugio. – Del legno ce n’è ancora per rizzare delle forche. Buona notte, amici!… A domani!…
– Sí, – mormorò il Corsaro. – Del legno ve n’è ancora, ma sulle nostre navi vi sono ancora tante palle da distruggere Maracaybo. Un giorno avrete mie nuove.
Rinchiuse prudentemente la finestra e tornò nella stanza del notaio.
Carmaux intanto aveva frugata tutta la casa ed aveva fatto man bassa sulla dispensa. Il brav’uomo si era ricordato che la sera innanzi non aveva avuto tempo di cenare, ed avendo trovato un volatile ed un bel pesce arrostito che forse il povero notaio s’era serbato per la colazione, si era affrettato a mettere l’uno e l’altro a disposizione del capitano.
Oltre a quei cibi, aveva scovato, in fondo ad un armadio, alcune bottiglie assai polverose, che portavano le marche dei migliori vini di Spagna: Xéres, Porto, Alicante e anche Madera.
– Signore, – disse Carmaux, colla sua piú bella voce, rivolgendosi verso il Corsaro, – mentre gli spagnuoli corrono dietro alle nostre ombre, date un colpo di dente a questo pesce, una tinca superba di lago, ed assaggiate questo pezzo d’anitra selvatica. Ho poi scoperto certe bottiglie che il nostro notaio teneva forse per le grandi occasioni, che vi metteranno un po’ di buon umore addosso. Ah! Si vede che l’amico era amante dei liquidi d’oltre Atlantico! Sentiremo se era di buon gusto.
– Grazie, – rispose il Corsaro, il quale però era ridiventato tetro.
Si sedette, ma fece poco onore al pasto. Era ritornato silenzioso e triste come già lo avevano quasi sempre visto i filibustieri. Assaggiò il pesce, bevette alcuni bicchieri, poi si alzò bruscamente, mettendosi a passeggiare per la stanza.
Il filibustiere invece non solo divorò il resto, ma vuotò anche un paio di bottiglie con grande disperazione del povero notaio, il quale non finiva di lagnarsi, vedendo consumare cosí presto quei vini che aveva fatto venire, con grandi spese, dalla lontana patria. Il marinaio però, messo di buon umore da quella bevuta, fu tanto gentile da offrirgliene un bicchiere, per fargli passare la paura provata e la rabbia che lo rodeva.
– Tuoni! – esclamò. – Non credevo che la notte dovesse passare cosí allegramente. Trovarsi fra due fuochi e colla minaccia di terminare la vita con una solida corda al collo, e finire invece in mezzo a queste deliziose bottiglie, non era cosa da sperarsi.
– Il pericolo non è però ancora passato, mio caro, – disse il Corsaro. – Chi ci assicura che domani gli spagnuoli, non avendoci piú trovati, non vengano a scovarci? Si sta bene qui, ma amerei meglio trovarmi a bordo della mia Folgore.
– Con voi io non ho alcun timore, mio capitano; voi solo valete cento uomini.
– Tu forse hai dimenticato che il Governatore di Maracaybo è una vecchia volpe e che tutto oserebbe pure di avermi in sua mano. Sai che fra me e lui si è impegnata una guerra a morte.
– Nessuno sa che voi siete qui.
– Si potrebbe sospettarlo e poi, hai dimenticato i biscaglini? Io credo che hanno saputo che l’uccisore di quello spaccone di conte era il fratello del povero Corsaro Rosso e del Verde.
– Forse avete ragione, signore. Credete che Morgan ci manderà dei soccorsi?
– Il luogotenente non è uomo da abbandonare il suo comandante nelle mani degli spagnuoli. È un audace, un valoroso e non sarei sorpreso se tentasse di forzare il passo, per far piovere sulla città una tempesta di palle.
– Sarebbe una pazzia che potrebbe pagare cara, signore.
– Eh!.. Quante non ne abbiamo commesse noi, e sempre o quasi sempre con esito fortunato.!
– Questo è vero.
Il Corsaro si sedette sorseggiando un bicchiere, poi si alzò e si diresse verso una finestra che s’apriva sul pianerottolo e che dominava l’intera viuzza. Si era messo in osservazione da una mezz’ora, quando Carmaux lo vide entrare precipitosamente nella stanza, dicendo:
– È sicuro il negro?
– È un uomo fidato, comandante.
– Incapace di tradirci?…
– Metterei una mano sul fuoco per lui.
– Egli è qui…
– L’avete veduto?
– Ronza nella viuzza.
– Bisogna farlo salire, comandante.
– E del cadavere di mio fratello, che cosa ne avrà fatto? – chiese il Corsaro, aggrottando la fronte.
– Quando sarà qui lo sapremo.
– Và a chiamarlo, ma sii prudente. Se ti scorgono non risponderei piú della nostra vita.
– Lasciate pensare a me, signore, – disse Carmaux, con un sorriso. – Vi domando solamente dieci minuti di tempo per diventare il notaio di Maracaybo.
CAPITOLO VI. LA SITUAZIONE DEI FILIBUSTIERI SI AGGRAVA
I dieci minuti non erano ancora trascorsi, quando Carmaux lasciava la casa del notaio per mettersi in cerca del negro che il Corsaro aveva veduto ronzare nella viuzza.
In quel brevissimo tempo, il bravo e coraggioso filibustiere si era cosí completamente trasformato, da diventare irriconoscibile. Con pochi colpi di forbice si era accorciata l’incolta barba ed i lunghi capelli arruffati, poi aveva indossato lestamente un costume spagnuolo che il notaio doveva aver serbato per le grandi occasioni e che gli si adattava benissimo, essendo entrambi della medesima statura.
Cosí vestito, il terribile scorridore del mare poteva passare per un tranquillo ed onesto borghese di Gibraltar, se non per il notaio stesso. Da uomo prudente però, nelle profonde e comodissime tasche, si era nascosto le pistole, non fidandosi nemmeno di quel costume.
Cosí trasformato, lasciò l’abitazione come un pacifico cittadino che va a respirare una boccata d’aria mattutina, guardando in alto per vedere se l’alba, già non lontana, si decideva a fugare le tenebre.
La viuzza era deserta, ma se il comandante aveva poco prima scorto il negro, questi non doveva essere andato molto lontano.
– In qualche luogo lo scoverò, – mormorò il filibustiere. – Se compare sacco di carbone s’è deciso a ritornare, vuol dire che dei gravi motivi gli hanno impedito di abbandonare Maracaybo. Che quel dannato di Wan Guld abbia saputo che è stato il Corsaro Nero a fare il colpo? Che sia proprio destino che i tre valorosi fratelli debbano cadere tutti nelle mani di quel sinistro vecchio?… Ma vivaddio!… Noi usciremo di qui per rendergli un giorno dente per dente, occhio per occhio, vita per vita!…
Cosí monologando era uscito dalla viuzza e si preparava a voltare l’angolo d’una casa, quando un soldato armato d’un archibugio e che erasi tenuto nascosto sotto l’arcata d’un portone, gli sbarrò improvvisamente il passo, dicendogli con voce minacciosa:
– Alto là!…
– Morte e dannazione! – brontolò Carmaux, cacciando una mano in tasca ed impugnando una delle pistole. – Ci siamo già!…
Poi assumendo l’aspetto d’un buon borghese, disse:
– Che cosa desiderate, signor soldato?
– Sapere chi siete.
– Come!… Non mi conoscete?… Io sono il notaio del quartiere, signor soldato.
– Scusate, sono giunto da poco a Maracaybo, signor notaio. Dove andate, si può saperlo?
– C’è un povero diavolo che sta per morire e capirete bene che quando si prepara ad andarsene all’altro mondo, bisogna che pensi agli eredi.
– È vero, signor notaio, guardate però di non incontrare i filibustieri.
– Dio mio! – esclamò Carmaux, fingendosi spaventato. – I filibustieri qui? Come mai quelle canaglie hanno osato di sbarcare a Maracaybo città quasi impenetrabile e governata da quel valoroso soldato che si chiama Wan Guld?
– Non si sa in quale modo siano riusciti a sbarcare, non essendo stata scorta alcuna nave filibustiera né presso le isole, né al golfo di Coro; però che qui siano venuti ormai non se ne dubita piú. Vi basti sapere che hanno ucciso tre o quattro uomini e che hanno avuto l’audacia di rapire il cadavere del Corsaro Rosso, il quale era stato appiccato dinanzi al palazzo del Governatore assieme al suo equipaggio.
– Che birbanti!… E dove sono?
– Si crede che siano fuggiti per la campagna. Delle truppe sono state spedite in vari luoghi e si spera di catturarli e di mandarli a tenere poco allegra compagnia agli appiccati.
– Che siano invece nascosti in città?…
– Non è possibile; sono stati visti fuggire verso la campagna.
Carmaux ne sapeva abbastanza e credette essere giunto il momento di andarsene, onde non perdere il negro.
– Mi guarderò dall’incontrarli, – disse – Buona guardia, signor soldato. Io me ne vado o giungerò troppo tardi presso il mio cliente moribondo.
– Buona fortuna, signor notaio.
Il furbo filibustiere si calò il cappello sugli occhi e si allontanò frettolosamente, fingendo di guardarsi intorno per simulare meglio le paure che non sentiva affatto.
– Ah! Ah!… – esclamò quando fu lontano. – Ci credono usciti dalla città!… Benissimo miei cari!… Ce ne staremo pacificamente nella casa di quell’ottimo notaio, finché i soldati saranno rientrati, poi prenderemo tranquillamente il largo. Che superba idea ha avuto il comandante!… L’Olonese, che si vanta il piú astuto filibustiere della Tortue, non ne avrebbe avuta una migliore.
Aveva già voltato l’angolo della via per prenderne un’altra piú larga, fiancheggiata da belle casette circondate da eleganti verande sostenute da pali variopinti, quando scorse un’ombra nerissima e di statura gigantesca, ferma presso una palma che cresceva dinanzi ad una graziosa palazzina.
– Se non m’inganno è il mio compare sacco di carbone, – mormorò il filibustiere. – Questa volta noi abbiamo una fortuna straordinaria, ma già si sa che il diavolo ci protegge, cosí almeno dicono gli spagnuoli.
L’uomo che si teneva semi-nascosto dietro il tronco del palmizio, vedendo Carmaux avvicinarsi, cercò di appiattarsi sotto il portone della palazzina, credendo forse di avere da fare con qualche soldato, poi, non credendosi sicuro nemmeno colà, voltò rapidamente l’angolo dell’abitazione, onde raggiungere forse una delle tante viuzze della città.
Il filibustiere aveva avuto il tempo di accertarsi che si trattava veramente del negro.
In pochi salti giunse presso la palazzina e svoltò l’angolo, gridando a mezza voce:
– Ehi, compare!…Compare!…
Il negro s’era subito arrestato, poi dopo qualche istante di esitazione era tornato indietro. Riconoscendo Carmaux, quantunque questi si fosse bene camuffato da borghese spagnuolo, una esclamazione di gioia e di stupore gli sfuggí.
– Tu compare bianco!…
– Hai due buoni occhi, compare sacco di carbone, – disse il filibustiere, ridendo.
– Ed il capitano?
– Non occuparti di lui, per ora è salvo e basta. Perché sei ritornato? Il comandante ti aveva ordinato di portare il cadavere a bordo della nave.
– Non l’ho potuto, compare. La foresta è stata invasa da parecchi drappelli di soldati giunti probabilmente dalla costa.
– Si erano già accorti del nostro sbarco?
– Lo temo, compare bianco.
– Ed il cadavere, dove l’hai nascosto?
– Nella mia capanna, in mezzo ad un fitto strato di fresche foglie.
– Non lo troveranno gli spagnuoli?
– Ho avuto la precauzione di mettere in libertà tutti i serpenti. Se i soldati vorranno entrare nella capanna, vedranno i rettili e fuggiranno.
– Sei furbo, compare.
– Si fa quello che si può.
– Tu dunque non credi possibile prendere il largo per ora?
– Ti ho detto che nella foresta vi sono dei soldati.
– La cosa è grave. Morgan, il comandante in seconda della Folgore, non vedendoci tornare può commettere qualche imprudenza, – mormorò il filibustiere. Vedremo come finirà questa avventura.Compare, sei conosciuto in Maracaibo?
– Tutti mi conoscono, venendo sovente a vendere delle erbe che guariscono le ferite.
– Nessuno sospetterà di te?
– No, compare.
– Allora seguimi: andiamo dal comandante.
– Un momento, compare.
– Che vuoi?
– Ho condotto anche il vostro compagno.
– Chi? Wan Stiller?…
– Correva inutilmente il pericolo di farsi prendere, ed egli ha pensato che poteva rendere maggiori servizi qui che standosene a guardia della capanna.
– Ed il prigioniero?
– Lo abbiamo legato cosí bene, che lo ritroveremo ancora se i suoi camerati non andranno a liberarlo.
– E dov’è Wan Stiller?
– Aspetta un momento, compare.
Il negro s’accostò ambo le mani alle labbra e mandò un lieve grido che si poteva confondere con quello d’un vampiro, uno di quei grossi pipistrelli che sono cosí numerosi nell’America del Sud.
Un istante dopo un uomo superava la muraglia del giardino e balzava quasi addosso a Carmaux, dicendo:
– Ben felice di vederti ancora vivo, camerata.
– Ed io piú felice di te, amico Wan Stiller, – rispose Carmaux.
– Credi che il capitano mi rimprovererà di essere venuto qui? Sapendovi in pericolo, io non potevo starmene nascosto nel bosco a guardare gli alberi.
– Il comandante sarà contento, mio caro. Un valoroso di piú è un uomo troppo prezioso in questi momenti.
– Amici, andiamo!…
Cominciava allora ad albeggiare. Le stelle rapidamente impallidivano non essendovi veramente l’alba in quelle regioni, anzi nemmeno l’aurora; alla notte succede di colpo il giorno. Il sole spunta quasi d’improvviso e colla potenza dei suoi raggi scaccia bruscamente le tenebre, le quali in un istante si dileguano.
Gli abitanti di Maracaybo, quasi tutti mattinieri, cominciavano a svegliarsi. Le finestre si aprivano e qualche testa appariva; si udivano qua e là dei sonori starnuti e degli sbadigli ed il chiacchierio cominciava nelle case.
Certamente si commentavano gli avvenimenti della notte, che avevano sparso non poco terrore fra tutti, essendo i filibustieri assai temuti in tutte le colonie spagnole dell’immenso Golfo del Messico.
Carmaux che non voleva fare incontri, per tema di venire riconosciuto da qualcuno dei bevitori della taverna, allungava il passo seguito dal negro e dall’amburghese.
Giunto presso la viuzza, trovò ancora il soldato che passeggiava da un angolo all’altro della via, tenendo a spalla l’alabarda.
– Già di ritorno, signor notaio? – chiese scorgendo Carmaux.
– Che cosa volete, – rispose il filibustiere, – il mio cliente aveva fretta di lasciare questa valle di lacrime e s’è sbrigato presto.
– Vi ha lasciato forse in eredità questo superbo negro? – chiese, indicando l’incantatore di serpenti. – Caramba! Un colosso che vale delle migliaia di piastre.
– Sí, me lo ha regalato. Buon giorno, signor soldato.
Voltarono frettolosamente l’angolo, si cacciarono nella viuzza, ed entrarono nell’abitazione del notaio, chiudendo poi la porta e sbarrandola.
Il Corsaro Nero li aspettava sul pianerottolo, in preda ad una viva impazienza che non sapeva nascondere.
– Dunque – chiese. – Perché il negro è tornato? Ed il cadavere di mio fratello?… Ed anche tu qui, Wan Stiller?
Carmaux in poche parole lo informò dei motivi che avevano costretto il negro a fare ritorno a Maracaybo e deciso Wan Stiller ad accorrere in loro aiuto, poi di ciò che aveva potuto sapere dal soldato che vegliava all’estremità della viuzza.
– Le notizie che tu rechi sono gravi, – disse il capitano, rivolgendosi al negro. – Se gli spagnuoli battono la campagna e la costa, non so come potremo raggiungere la mia Folgore. Non è per me che io temo, ma per la mia nave che può venire sorpresa dalla squadra dell’ammiraglio Toledo.
– Tuoni! – esclamò Carmaux. – Non mancherebbe che questo!
– Io comincio a temere che questa avventura finisca male, – mormorò Wan Stiller. – Bah!… Dovevamo già essere appiccati da due giorni, possiamo quindi accontentarci di essere vissuti altre quarantotto ore.
Il Corsaro Nero si era messo a passeggiare per la stanza, girando e rigirando attorno alla cassa che aveva servito da tavola. Pareva assai preoccupato e nervoso: di tratto in tratto interrompeva quei giri, fermandosi bruscamente dinanzi ai suoi uomini, poi riprendeva le mosse, crollando il capo.
D’improvviso s’arrestò dinanzi al notaio che giaceva sul letto strettamente legato, e piantandogli in viso uno sguardo minaccioso gli disse:
– Tu conosci i dintorni di Maracaybo?
– Sí, eccellenza, – rispose il povero uomo con voce tremante.
– Potresti farci uscire dalla città senza venire sorpresi dai tuoi compatrioti e condurci in qualche luogo sicuro?
– Come potrei farlo, signore?… Appena fuori della mia casa vi riconoscerebbero e vi prenderebbero ed io assieme a voi; poi si incolperebbe me di avere cercato di salvarvi, ed il Governatore, che è un uomo che non scherza, mi farebbe appiccare.
– Ah!… Si ha paura di Wan Guld, – disse il Corsaro, coi denti stretti, mentre un cupo lampo gli balenava negli occhi. – Sí, quell’uomo è energico, fiero ed anche spietato: egli sa farsi temere e fare tremare tutti. Tutti! No, non tutti! Sarà lui un giorno, che io vedrò tremare!… Quel giorno egli pagherà colla vita la morte dei miei fratelli!
– Voi volete uccidere il Governatore? – chiese il notaio, con tono incredulo.
– Silenzio, vecchio, se ti preme la pelle, – disse Carmaux.
Il Corsaro pareva che non avesse udito né l’uno né l’altro. Era uscito dalla stanza dirigendosi verso la finestra dell’attiguo corridoio e dalla quale, come fu detto, si poteva dominare l’intera viuzza.
– Eccoci in un bell’imbarazzo, – disse Wan Stiller, volgendosi verso il negro. – Nostro compare sacco di carbone non ha nel suo cranio qualche eccellente idea che ci tragga da questa situazione poco allegra?… Non mi sento troppo sicuro in questa casa.
– Forse ne ho una, – rispose il negro.
– Gettala fuori, compare, – disse Carmaux. – Se la tua idea è realizzabile, ti prometto un abbraccio, io che non ho mai abbracciato un uomo di color nero, né giallo, né rosso.
– Bisogna però attendere la sera.
– Non abbiamo fretta, per ora.
– Vestitevi da spagnuoli e uscite tranquillamente dalla città.
– Forse non ho indosso le vesti del notaio?
– Non bastano.
– Cosa vuoi che mi metta adunque?
– Un bel costume da moschettiere o da alabardiere. Se voi uscite dalla città vestiti da borghesi, le truppe che battono la campagna non tarderebbero ad arrestarvi.
– Lampi!… Che superba idea!… – esclamò Carmaux. – Tu hai ragione, compare sacco di carbone!… Vestiti da soldati, a nessuno verrebbe di certo il ticchio di fermarci per chiederci dove andiamo e chi siamo, specialmente di notte. Ci crederanno una ronda e noi potremo prendere comodamente il largo ed imbarcarci.
– E le vesti, dove trovarle? – chiese Wan Stiller.
– Dove?… Si va a sbudellare un paio di soldati e si spogliano, – disse risolutamente Carmaux. – Sai bene che noi siamo lesti di mano.
– Non è necessario esporvi a tanto pericolo, – disse il negro. – Io sono conosciuto in città, nessuno sospetta di me, dunque posso recarmi a comperare delle vesti ed anche delle armi.
– Compare sacco di carbone, tu sei un brav’uomo ed io ti darò un abbraccio da fratello.
Cosí dicendo il filibustiere aveva aperte le braccia per stringere il negro, ma gli mancò il tempo. Un colpo sonoro era rimbombato sulla via echeggiando sulle scale.
– Lampi!… – esclamò Carmaux. – Qualcuno picchia alla porta!…
In quel momento il Corsaro Nero entrò, dicendo:
– V’è un uomo che forse chiede di voi, notaio.
– Sarà qualche mio cliente, signore, – rispose il prigioniero, con un sospiro. – Qualche cliente che forse mi avrebbe fatto guadagnare una buona giornata, mentre io invece…
– Basta, finiscila, – disse Carmaux. – Ne sappiamo abbastanza, chiacchierone.
Un secondo colpo, piú violento del primo, fece tremare la porta, seguito da queste parole:
– Aprite, signor notaio! Non vi è tempo da perdere!…
– Carmaux, – disse il Corsaro, che aveva presa una rapida risoluzione. – Se noi ci ostinassimo a non aprire, quell’uomo potrebbe insospettirsi, temere che qualche accidente abbia colto il vecchio e recarsi ad avvertire l’alcalde del quartiere.
– Che cosa devo fare comandante?
– Aprire, poi legare per bene quell’importuno e mandarlo a tenere compagnia al notaio.
Non aveva ancora finito di parlare che già Carmaux era sulle scale, accompagnato dal gigantesco negro.
Udendo risuonare un terzo colpo che per poco non fece saltare le tavole della porta, si affrettò ad aprire, dicendo:
– Uh!… Che furia, signore!…
Un giovanotto di diciotto o vent’anni, vestito signorilmente ed armato d’un elegante pugnaletto che teneva appeso alla cintura, entrò frettolosamente, gridando:
– È cosí che si fanno attendere le persone che hanno fretta?… Carr…
Vedendo Carmaux ed il negro, egli s’era arrestato guardandoli con stupore ed anche con un po’ d’inquietudine, poi cercò di fare un passo indietro ma la porta era stata prontamente chiusa dietro di lui.
– Chi siete voi? – chiese.
– Due servi del signor notaio – rispose Carmaux, facendo un goffo inchino.
– Ah!… Ah!… – esclamò il giovanotto. – Don Turillo è diventato tutto d’un tratto ricco, per permettersi il lusso di avere due servi?…
– Sí, ha ereditato da un suo zio morto nel Perú, – disse il filibustiere, ridendo.
– Conducetemi subito da lui. Era già avvertito che oggi doveva avere luogo il mio matrimonio colla señorita Carmen di Vasconcellos. Ha bisogno di farsi pregare quel…
La frase gli era stata bruscamente strozzata da una mano del negro piombatagli improvvisamente fra le due spalle. Il povero giovane, mezzo strangolato da una rapida stretta, cadde sulle ginocchia mentre gli occhi gli uscivano dalle orbite e la sua pelle diventava bruna.
– Eh, adagio, compare, – disse Carmaux. – Se stringi ancora un pò me lo soffochi completamente. Bisogna essere un pò gentili coi clienti del notaio!…
– Non temere, compare bianco, – rispose l’incantatore di serpenti.
Il giovanotto, il quale d’altronde era cosí spaventato da non pensare ad opporre la minima resistenza, fu portato nella stanza superiore, disarmato del pugnaletto, legato per bene e gettato a fianco del notaio.
– Ecco fatto, capitano, – disse Carmaux.
Questi approvò il colpo di mano del marinaio con un gesto del capo, poi avvicinatosi al giovanotto che lo guardava con due occhi smarriti gli chiese:
– Voi siete?
– È uno dei miei migliori clienti, signore, – disse il notaio. – Questo bravo giovane mi avrebbe fatto guadagnare quest’oggi almeno…
– Tacete voi, – disse il Corsaro con accento secco.
– Il notaio diventa un vero pappagallo! – esclamò Carmaux. – Se la continua cosí, bisognerà tagliargli un pezzo di lingua.
Il bel giovanotto si era voltato verso il Corsaro e dopo averlo guardato per alcuno istanti, con un certo stupore, rispose:
– Io sono il figlio del giudice di Maracaybo, don Alonzo de Conxevio. Spero che ora mi spiegherete il motivo di questo sequestro personale.
– È inutile che lo sappiate, però se starete tranquillo non vi sarà fatto alcun male, e domani, se non accadranno avvenimenti imprevisti, sarete libero.
– Domani!… – esclamò il giovanotto, con doloroso stupore. – Pensate, signore, che oggi io devo impalmare la figlia del capitano Vasconcellos.
– Vi sposerete domani.
– Badate!… Mio padre è amico del Governatore e voi potreste pagare ben caro questo vostro misterioso procedere a mio riguardo. Qui a Maracaybo vi sono soldati e cannoni.
Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra dell’uomo di mare.
– Non li temo, – disse poi. – Anch’io ho uomini ben piú formidabili di quelli che vegliano in Maracaybo, ed anche dei cannoni.
– Ma chi siete voi?
– È inutile che lo sappiate.
Ciò detto il Corsaro gli volse bruscamente le spalle ed uscí, mettendosi di sentinella alla finestra, mentre Carmaux ed il negro frugavano la casa dalla cantina al solaio, per vedere se era possibile preparare una colazione e Wan Stiller si accomodava presso i due prigionieri onde impedire qualsiasi tentativo di fuga.
Il compare bianco ed il compare negro, dopo avere messo sotto sopra tutta l’abitazione, riuscirono a scoprire un prosciutto affumicato ed un certo formaggio assai piccante che doveva mettere tutti di buon umore e fare meglio gustare l’eccellente vino del notaio, almeno cosí assicurava l’amabile filibustiere.
Già avevano avvertito il Corsaro che la colazione era pronta ed avevano stappate alcune bottiglie di Porto, quando udirono picchiare nuovamente alla porta.
– Chi può essere? – si chiese Carmaux. – Un altro cliente che desidera andare a tenere compagnia al notaio?…
– Và a vedere, – disse il Corsaro, che s’era già assiso alla tavola improvvisata.
Il marinaio non si fece ripetere l’ordine due volte ed affacciatosi alla finestra, senza però alzare la persiana, vide dinanzi alla porta un uomo un po’ attempato e che pareva un servo od un usciere di tribunale.
– Diavolo! – mormorò. – Verrà a cercare il giovanotto. La sparizione misteriosa del fidanzato avrà preoccupato sposa, padrini e gli invitati. Uhm!… La faccenda comincia ad imbrogliarsi!…
Il servo intanto, non ricevendo risposta, continuava a martellare con crescente lena facendo un fracasso tale, da attirare alle finestre tutti gli abitanti delle case vicine.
Bisognava assolutamente aprire ed impadronirsi anche di quell’importuno prima che i vicini, messi in sospetto, non accorressero ad abbattere porta o mandassero a chiamare i soldati.
Carmaux ed il negro si affrettarono quindi a scendere e ad aprire, non appena quel servo od usciere che fosse si trovò nel corridoio fu preso per la gola onde non potesse gridare, legato, imbavagliato, quindi portato nella camera superiore a tenere compagnia al disgraziato padroncino ed al non meno sfortunato notaio.
– Il diavolo se li porti tutti!… – esclamò Carmaux. – Noi faremo prigioniera l’intera popolazione di Maracaybo, se continua ancora per qualche tempo.
CAPITOLO VII. UN DUELLO FRA GENTILUOMINI
La colazione, contrariamente alle previsioni di Carmaux, fu poco allegra ed il buon umore mancò, non ostante quell’eccellente prosciutto, il formaggio piccante e le bottiglie del povero notaio.
Tutti cominciavano a diventare inquieti per la brutta piega che prendevano gli avvenimenti, a causa di quel disgraziato giovanotto e del suo matrimonio. La sua sparizione misteriosa, unitamente a quella del servo, non avrebbe di certo mancato di spaventare i parenti ed erano da aspettarsi presto delle nuove visite di servi o di amici, o, peggio ancora, di soldati o di qualche giudice o di qualche alguazil.
Quello stato di cose non poteva assolutamente durare a lungo. I filibustieri avrebbero fatto ancora altri prigionieri, ma poi sarebbero certamente venuti i soldati, e non uno alla volta per farsi prendere.
Il Corsaro ed i suoi due marinai avevano ventilati parecchi progetti, ma nemmeno uno era sembrato buono. La fuga per il momento era assolutamente impossibile; sarebbero stati di certo riconosciuti, arrestati e senz’altro appiccati come il povero Corsaro Rosso ed i suoi sventurati compagni. Bisognava attendere la notte; era però poco probabile che i parenti del giovanotto dovessero lasciarli tranquilli.
I tre filibustieri, ordinariamente cosí fecondi di trovate e di astuzie al pari di tutti i loro compagni della Tortue, si trovavano in quel momento completamente imbarazzati.
Carmaux aveva suggerita l’idea di indossare le vesti dei prigionieri e di uscire audacemente, ma si era subito accorto dell’impossibilità di realizzare il suo piano, non potendosi utilizzare il costume del giovanotto, perché nessuno avrebbe potuto indossarlo, e poi la cosa era stata giudicata troppo pericolosa, coi soldati che battevano le campagne vicine. Il negro era invece tornato alla sua prima idea, cioé di recarsi ad acquistare delle divise di alabardieri o di moschettieri; anche questo per il momento era stato scartato, essendo costretti ad aspettare la notte per poterla effettuare con qualche successo.
Stavano pensando e ripensando per scovare qualche nuovo progetto, che fornisse loro il mezzo di uscire da quella situazione, che diveniva di minuto in minuto piú imbarazzante e pericolosa, quando un terzo individuo venne a battere alla porta del notaio.
Questa volta non si trattava di un servo, bensí d’un gentiluomo castigliano, armato di spada e di pugnale, qualche parente forse del giovanotto o qualcuno dei padrini.
– Tuoni! – esclamò Carmaux. – È una processione di gente che viene a questa dannata casa!… Prima il giovanotto, poi un servo, ora un gentiluomo, piú tardi sarà il padre dello sposo, poi i padrini, gli amici eccetera. Finiremo per fare il matrimonio qui!…
Il castigliano, vedendo che nessuno si era affrettato ad aprire, aveva cominciato a raddoppiare i colpi, alzando e lasciando cadere senza posa il pesante battente di ferro. Quell’uomo doveva essere certo poco paziente e probabilmente ben piú pericoloso del giovanotto e del servo.
– Và, Carmaux, – disse il Corsaro.
– Temo però, comandante, che non sia cosa facile prenderlo e legarlo Quell’uomo è solido, ve lo assicuro, ed opporrà una resistenza disperata.
– Ci sarò anch’io e tu sai che le mie braccia sono robuste.
Il Corsaro, avendo visto in un angolo della stanza una spada, qualche vecchia arma di famiglia che il notaio aveva conservata, l’aveva presa e dopo avere provata l’elasticità della lama se l’era appesa al fianco, mormorando:
– Acciaio di Toledo: darà da fare al castigliano.
Carmaux ed il negro avevano in quel frattempo aperta la porta che minacciava di venire sfondata sotto i furiosi ed incessanti colpi del battente ed il gentiluomo era entrato collo sguardo crucciato, la fronte aggrottata e la sinistra sulla guardia della spada, dicendo con voce collerica:
– Occorre il cannone qui, per farsi aprire?…
Il nuovo venuto era un bell’uomo sulla quarantina, alto di statura, robusto, dal tipo maschio ed altero, con due occhi nerissimi ed una folta barba pure nera, che gli dava un aspetto marziale.
Indossava un elegante costume spagnuolo di seta nera e calzava alti stivali di pelle gialla, colle trombe dentellate, e speroni.
– Perdonate signore, se abbiamo tardato, – rispose Carmaux, inchinandosi grottescamente dinanzi a lui, – ma eravamo occupatissimi.
– A fare che cosa? – chiese il castigliano.
– A curare il signor notaio.
– È ammalato forse?
– È stato preso da una potentissima febbre, signore.
– Chiamatemi conte, furfante.
– Scusatemi signor conte; io non avevo l’onore di conoscervi.
– Andatevene al diavolo!… Dov’è mio nipote?… Sono due ore che è venuto qui.
– Noi non abbiamo veduto nessuno.
– Tu vuoi burlarti di me!… Dov’è il notaio?…
– È a letto, signore.
– Conducimi subito da lui.
Carmaux che voleva attirarlo in fondo al corridoio prima di fare segno al negro di porre in opera la sua prodigiosa forza muscolare, si mise innanzi al castigliano; poi, appena giunse alla base della scala, si volse bruscamente, dicendo:
– A te, compare!
Il negro si gettò rapidamente sul castigliano; questi, che si teneva probabilmente in guardia e che possedeva un’agilità da dare dei punti ad un marinaio, con un solo salto varcò i tre primi gradini, scartando Carmaux con un urto violento e snudò risolutamente la spada gridando:
– Ah!… Mariuoli!… Che cosa significa questo attacco? Ora vi taglierò gli orecchi!…
– Se volete sapere che cosa significa questo attacco, ve lo spiegherò io, signore, – disse una voce.
Il Corsaro Nero era comparso improvvisamente sul pianerottolo, colla spada in pugno, ed aveva cominciato a scendere i primi gradini.
Il castigliano si era voltato senza però perdere di vista Carmaux ed il negro, i quali si erano ritirati in fondo al corridoio, mettendosi di guardia dinanzi alla porta. Il primo aveva impugnata la lunga navaja ed il secondo s’era armato di una traversa di legno, arma formidabile nelle sue mani.
– Chi siete voi, signore? – chiese il castigliano senza manifestare il minimo timore. – Dalle vesti che indossate vi si potrebbe credere un gentiluomo, ma l’abito non fa sempre il monaco o potreste esser anche qualche bandito.
– Ecco una parola che potrebbe costarvi cara, mio gentiluomo, – rispose il Corsaro.
– Bah!… Lo si vedrà piú tardi.
– Siete coraggioso, signore; tanto meglio. Vi consiglierei però di deporre la spada e di arrendervi.
– A chi?…
– A me.
– Ad un bandito che tende un agguato per assassinare a tradimento le persone?…
– No, al cavaliere Emilio di Roccanera, signore di Ventimiglia.
– Ah!… Voi siete un gentiluomo!… Vorrei almeno sapere allora perché il signore di Ventimiglia cerca di farmi assassinare dai suoi servi.
– È una supposizione affatto vostra, signore; nessuno ha mai pensato ad assassinarvi. Si voleva disarmarvi e tenervi prigioniero per qualche giorno e nient’altro.
– E per quale motivo?
– Onde impedirvi di avvertire le autorità di Maracaybo che qui mi trovo io, – rispose il Corsaro.
– Forse che il signor di Ventimiglia ha dei conti da regolare colle autorità di Maracaybo?
– Non sono troppo amato da loro o meglio da Wan Guld, il quale sarebbe troppo felice di avermi in sua mano, come io sarei ben lieto di averlo in mio potere.
– Non vi comprendo signore, – disse il castigliano.
– Ciò non vi interessa. Orsú, volete arrendervi?
– Oh!… E voi lo pensate! Un uomo di spada cedere senza difendersi?
– Allora mi costringete ad uccidervi. Non posso permettervi di andarvene, o io ed i miei compagni saremmo perduti.
– Ma chi siete voi infine?
– Dovreste ormai averlo indovinato: noi siamo filibustieri della Tortue. Signore, difendetevi, perché ora vi ucciderò.
– Lo credo dovendo fare fronte a tre avversari.
– Non preoccupatevi di loro, – disse il Corsaro, indicando Carmaux ed il negro. – Quando il loro comandante si batte hanno l’abitudine di non immischiarsene.
– In tal caso spero di mettervi presto fuori di combattimento. Voi non conoscete ancora il braccio del conte di Lerma.
– Come voi non conoscete quello del signore di Ventimiglia. Conte, difendetevi!…
– Una parola se me lo permettete. Che cosa avete fatto di mio nipote e del suo domestico?
– Sono prigionieri assieme al notaio, ma non inquietatevi per loro. Domani saranno liberi e vostro nipote potrà impalmare la sua bella.
– Grazie, cavaliere.
Il Corsaro Nero s’inchinò lievemente, poi scese rapidamente i gradini ed incalzò il castigliano con tanta furia, che questi fu costretto a retrocedere di due passi.
Per alcuni istanti nell’angusto corridoio si udí solo lo stridore dei ferri. Carmaux ed il negro, appoggiati contro la porta, colle braccia incrociate assistevano al duello senza parlare, cercando di seguire cogli sguardi il fulmineo guizzare delle lame. Il castigliano si batteva splendidamente, da spadaccino valente, parando con grande sangue freddo e vibrando stoccate bene dirette; dovette ben presto convincersi però d’avere dinanzi un avversario dei piú terribili e che possedeva dei muscoli d’acciaio.
Dopo le prime botte, il Corsaro Nero aveva riacquistata la sua calma. Non attaccava che di rado, limitandosi a difendersi come se volesse prima stancare l’avversario e studiare il suo gioco. Fermo sulle sue gambe nervose, col corpo diritto, la mano sinistra avanzata orizzontalmente, gli occhi lampeggianti, pareva che giocasse.
Invano il castigliano aveva cercato di spingerlo verso la scala colla segreta speranza di farlo cadere, vibrandogli una tempesta di stoccate. Il Corsaro non aveva fatto un solo passo indietro ed era rimasto irremovibile fra quello scintillio della lama, ribattendo i colpi con una rapidità prodigiosa, senza uscire di linea.
D’improvviso però si slanciò a fondo. Battere di terza la lama dell’avversario con un colpo secco, legarla di seconda e fargliela cadere al suolo, fu un colpo solo.
Il castigliano, trovandosi inerme, era diventato pallido e si era lasciato sfuggire un grido. La punta scintillante della lama del Corsaro rimase un istante tesa, minacciandogli il petto, poi subito si rialzò.
– Voi siete un valoroso, – disse, salutando l’avversario. – Voi non volevate cedere la vostra arma: ora io me la prendo, ma vi lascio la vita.
Il castigliano era rimasto immobile col piú profondo stupore scolpito in viso. Gli sembrava forse impossibile di trovarsi ancora vivo. Ad un tratto fece rapidamente due passi innanzi e tese la destra al Corsaro, dicendo:
– I miei compatrioti dicono che i filibustieri sono uomini senza fede, senza legge, dediti solamente al ladronaggio di mare; io posso ora dire come fra costoro si trovano anche dei valorosi, che in fatto di cavalleria e di generosità possono dare dei punti ai piú compiti gentiluomini d’Europa. Signor cavaliere, ecco la mia mano: grazie!…
Il Corsaro gliela strinse cordialmente, poi raccogliendo la spada caduta e porgendola al conte rispose:
– Conservate la vostra arma, signore; a me basta che voi mi promettiate di non adoperarla, fino a domani, contro di noi.
– Ve lo prometto, cavaliere, sul mio onore.
– Ora lasciatevi legare senza opporre resistenza. Mi rincresce dovere ricorrere a questa necessità; ma non posso farne a meno.
– Fate quello che credete.
Ad un cenno del Corsaro, Carmaux si avvicinò al castigliano e gli legò le mani, poi lo affidò al negro, il quale s’affrettò a condurlo nella stanza superiore a tenere compagnia al nipote, al servo ed al notaio.
– Speriamo che la processione sia finita, – disse Carmaux, rivolgendosi verso il Corsaro.
– Io credo invece che fra poco altre persone verranno ad importunarci, – rispose il capitano. – Tutte queste misteriose sparizioni non tarderanno a creare dei gravi sospetti fra i familiari del conte e del giovanotto, e le autorità di Maracaybo vorranno immischiarsene. Noi faremo bene a barricare le porte e prepararci alla difesa. Hai osservato se vi sono armi da fuoco in questa casa?…
– Ho trovato nel granaio un archibugio e delle munizioni, oltre ad una vecchia alabarda arrugginita ed una corazza.
– Il fucile potrà servirci.
– E come potremo resistere, comandante, se i soldati verranno ad assalire la casa?…
– Lo si vedrà poi; ti assicuro che, vivo, Wan Guld non mi avrà mai!… Orsú, prepariamoci alla difesa. Piú tardi, se avremo tempo, penseremo alla colazione.
Il negro era tornato, lasciando Wan Stiller a guardia dei prigionieri. Messo al corrente di ciò che si doveva fare, si mise alacremente all’opera.
Aiutato da Carmaux, portò nel corridoio tutti i mobili piú pesanti e piú voluminosi della casa, non senza provocare, da parte del povero notaio, una sequela di proteste affatto inutili. Casse, armadi, tavoli massicci, canterani furono accumulati contro la porta, in modo da barricarla completamente.
Non contenti, i filibustieri rizzarono con altre casse ed altri mobili una seconda barricata alla base della scala, per potere contrastare il passo agli assalitori, nel caso che la porta non avesse potuto piú resistere.
Avevano appena terminati quei preparativi di difesa, quando videro Wan Stiller scendere la scala a precipizio.
– Comandante, – disse, – nella viuzza si sono aggruppati parecchi cittadini e tutti guardano verso questa casa. Io credo che ormai si siano accorti che qui succedono delle misteriose sparizioni d’uomini.
– Ah!… – si limitò ad esclamare il Corsaro, senza che un muscolo del suo viso si fosse alterato.
Salí tranquillamente la scala e si affacciò alla finestra che dominava la viuzza tenendosi nascosto dietro le persiane.
Wan Stiller aveva detto il vero. Una cinquantina di persone, divise in vari gruppetti, ingombravano l’opposta estremità della viuzza. Quei borghesi parlavano con animazione e s’indicavano vicendevolmente la casa del notaio, mentre alle finestre delle case vicine si vedevano apparire e scomparire gli inquilini.
– Ciò che temevo sta per succedere, – mormorò il Corsaro, aggrottando la fronte. – Orsú, se devo morire anch’io in Maracaybo, cosí doveva essere scritto sul libro del mio destino. Poveri fratelli miei, caduti forse invendicati!… Oh!… Ma la morte non è ancora giunta e la fortuna protegge i filibustieri della Tortue… Carmaux, a me!…
Il marinaio sentendosi chiamare non aveva indugiato ad accorrere, dicendo:
– Eccomi, mio comandante.
– Tu mi hai detto d’aver trovato delle munizioni.
– Un barilotto di polvere della capacità di otto o dieci libbre, signore.
– Lo collocherai nel corridoio, dietro la porta e vi metterai una miccia.
– Lampi!… Faremo saltare la casa?
– Sí, se sarà necessario.
– Ed i prigionieri?
– Peggio per loro se i soldati vorranno prenderci. Noi abbiamo il diritto di difenderci e lo faremo senza esitare.
– Ah!… Eccoli… – esclamò Carmaux che teneva gli occhi fissi sulla viuzza.
– Chi?
– I soldati, comandante.
– Va’ a prendere il barile, poi verrai a raggiungermi assieme a Wan Stiller. Non dimenticare l’archibugio.
Alla estremità della viuzza era comparso un drappello di archibugieri comandati da un tenente e seguito da un codazzo di curiosi. Erano due dozzine di soldati, perfettamente equipaggiati come se si recassero alla guerra, con fucili, spade e misericordie alla cintura.
Accanto al tenente, il Corsaro scorse un vecchio signore, dalla barba bianca, armato di spada, e sospettò che fosse qualche parente del conte o del giovanotto. Il drappello si fece largo fra i borghesi che ingombravano la viuzza e fece alt a dieci passi dalla casa del notaio, disponendosi su una triplice linea e preparando i fucili come se dovessero aprire senz’altro il fuoco.
Il tenente osservò per alcuni istanti le finestre, scambiò alcune parole col vecchio che gli stava vicino, poi si avvicinò risolutamente alla porta e lasciò cadere il pesante martello, gridando:
– In nome del Governatore, aprite!…
– Siete pronti, miei prodi? – chiese il Corsaro.
– Siamo pronti, signore, – risposero Carmaux, Wan Stiller ed il negro.
– Voi rimarrete con me e tu, mio bravo africano, sali al piano superiore e guarda se puoi scoprire qualche abbaino che ci permetta di fuggire sui tetti.
Ciò detto aprí le imposte e curvandosi sul davanzale, chiese:
– Che cosa desiderate, signore?…
Il tenente vedendo comparire, in luogo del notaio, quell’uomo dai lineamenti arditi, con quell’ampio cappello nero adorno della lunga piuma nera, era rimasto immobile guardandolo con stupore.
– Chi siete voi? – gli chiese, dopo qualche istante. – Io domando del notaio.
– Per lui rispondo io, non potendo egli muoversi, per il momento.
– Allora apritemi: ordine del Governatore.
– E se io non volessi?
– In tal caso non risponderei delle conseguenze. Sono accadute delle cose assai strane in questa casa, mio gentiluomo, ed ho avuto l’ordine di sapere che cosa è avvenuto del Signor Pedro Conxevio, del suo servo, e di suo zio, il conte di Lerma.
– Se vi preme di saperlo, vi dirò che sono in questa casa vivi tutti, anzi di buon umore.
– Fateli scendere.
– È impossibile, signore, – rispose il Corsaro.
– Vi intimo di obbedire o farò sfasciare la porta.
– Fatelo, vi avverto però che dietro la porta ho fatto collocare un barilotto di polvere e che al primo vostro tentativo di forzarla, io darò fuoco alla miccia e farò saltare la casa assieme al notaio, al signor Conxevio al servo ed al conte di Lerma. Ora provatevi, se l’osate!…
Udendo quelle parole pronunciate con voce calma, fredda, recisa e con tono da non ammettere alcun dubbio sulla terribile minaccia, un fremito di terrore aveva scossi i soldati ed i curiosi che li avevano seguiti, anzi parecchi di questi si erano affrettati a prendere il largo, temendo che la casa fosse lí lí per saltare in aria. Perfino il tenente aveva fatto involontariamente alcuni passi indietro.
Il Corsaro era rimasto tranquillamente alla finestra come se fosse un semplice spettatore, non perdendo però di vista gli archibugi dei soldati mentre Carmaux e Wan Stiller, che si trovavano dietro di lui, spiavano le mosse dei vicini, i quali erano accorsi in massa sulle terrazze e sui poggiuoli.
– Ma chi siete voi? – chiese finalmente il tenente.
– Un uomo che non vuol essere disturbato da chicchessia, nemmeno dagli ufficiali del governatore, – rispose il Corsaro.
– Vi intimo di dirmi il vostro nome.
– A me non garba affatto.
– Vi costringerò.
– Ed io farò saltare la casa.
– Ma voi siete pazzo.
– Quanto lo siete voi.
– Ah! Insultate?
– Niente affatto, signor mio, rispondo.
– Finitela!… Lo scherzo è durato troppo.
– Lo volete? Ehi, Carmaux… Và a mettere fuoco al barile di polvere!…
CAPITOLO VIII. UNA FUGA PRODIGIOSA
Udendo quel comando un immenso urlo di terrore si era alzato non solo fra la folla dei curiosi, ma anche fra i soldati. Soprattutto i vicini e non a torto, poiché saltando la casa del notaio sarebbero di certo crollate anche quelle occupate da loro, urlavano a squarciagola, come già si sentissero mandare in aria dallo scoppio.
Borghesi e soldati si erano affrettati a sgombrare mettendosi in salvo all’estremità della viuzza, mentre i vicini si precipitavano all’impazzata giú dalle scale, cercando di portare con loro almeno gli oggetti piú preziosi. Tutti ormai erano certi che quell’uomo, qualche pazzo secondo alcuni, dovesse davvero mettere in esecuzione la terribile minaccia.
Solo il tenente era rimasto coraggiosamente al suo posto, ma dagli sguardi ansiosi che lanciava verso la casa, si poteva comprendere che se fosse stato solo, o non avesse avuti quei galloni di comandante, non si sarebbe di certo fermato colà.
– No!… Fermatevi, signore!… – aveva gridato. – Siete pazzo?
– Desiderate qualche cosa? – gli chiese il Corsaro, colla sua solita voce tranquilla.
– Vi dico di non mettere in esecuzione il vostro triste progetto.
– Volentieri, purché mi lasciate tranquillo.
– Lasciate in libertà il conte di Lerma e gli altri e vi prometto di non seccarvi.
– Lo farei volentieri se voleste accettare prima le mie condizioni.
– Quali sarebbero?
– Di fare ritirare le truppe, innanzi tutto.
– Poi?
– Procurare, a me ed ai miei compagni, un salvacondotto firmato dal Governatore, per poter lasciare la città senza venire disturbati dai soldati che battono la campagna.
– Ma chi siete voi, per avere bisogno di un salvacondotto?… – chiese il tenente, il cui stupore aumentava insieme ai sospetti.
– Un gentiluomo d’oltremare, – rispose il Corsaro, con nobile fierezza.
– Allora non vi necessita alcun salvacondotto per lasciare la città.
– Al contrario.
– Ma allora voi avete qualche delitto sulla coscienza. Ditemi il vostro nome, signore.
In quell’istante un uomo che portava attorno al capo una pezzuola macchiata in piú luoghi di sangue e che si avanzava penosamente, come se avesse una gamba storpiata, giunse presso il tenente.
Carmaux, che si teneva sempre dietro il Corsaro, spiando i soldati, lo vide ed un grido gli sfuggí.
– Lampi!… – esclamò.
– Che cos’hai, mio bravo? – chiese il Corsaro volgendosi vivamente.
– Noi stiamo per venire traditi, comandante. Quell’uomo è uno dei biscaglini che ci hanno assaliti colle navaje.
– Ah!… – fece il Corsaro, alzando le spalle.
Il biscaglino, poiché era proprio uno di quelli che avevano assistito al duello della taverna e che poi avevano aggredito i filibustieri coi loro smisurati coltelli, si volse verso il tenente, dicendogli:
– Voi volete sapere chi è quel gentiluomo dal feltro nero, è vero?
– Sí, – rispose il tenente. – Lo conosci tu?
– Carrai!… È stato uno dei suoi uomini che mi ha conciato in questo modo. Signor tenente, badate che non vi sfugga!… Egli è uno dei filibustieri!…
Un urlo, ma questa volta non piú di spavento, bensí di furore, scoppiò da tutte le parti, seguito da uno sparo e da un grido di dolore. Carmaux, ad un cenno del Corsaro, aveva alzato rapidamente il moschettone, e con una palla ben aggiustata aveva abbattuto il biscaglino.
Era troppo!… Venti archibugi si alzarono verso la finestra occupata dal Corsaro, mentre la folla urlava a squarciagola:
– Accoppate quelle canaglie!…
– No, prendeteli ed appiccateli sulla plaza.
– Arrostiteli vivi!…
– A morte!… A morte!…
Il tenente con un rapido gesto aveva fatto abbassare i fucili, e spintosi sotto la finestra, disse al Corsaro, che non si era mosso dal suo posto, come se tutte quelle minacce non lo riguardassero:
– Mio gentiluomo, la commedia è finita: arrendetevi!
Il Corsaro rispose con un’alzata di spalle.
– Mi avete capito? – gridò il tenente, rosso di collera.
– Perfettamente, signore.
– Arrendetevi o farò abbattere la porta.
– Fatelo, – rispose freddamente il Corsaro. – Vi avverto solo che il barile di polvere è pronto e che farò saltare la casa assieme ai prigionieri.
– Ma salterete anche voi!
– Bah!… Morire in mezzo al rimbombo delle fumanti rovine è da preferirsi alla morte ignominiosa, che voi mi fareste subire dopo la mia resa.
– Vi prometto salva la vita.
– Delle vostre promesse non so che cosa farne, poiché so che cosa valgono. Signore, sono le sei pomeridiane ed io non ho ancora fatta colazione. Mentre decidete sul da farsi, andrò a mangiare un boccone assieme al conte di Lerma ed a suo nipote e faremo il possibile per vuotare un bicchiere alla sua salute, se la casa non salterà in aria prima.
Ciò detto il Corsaro si levò il cappello, salutandolo con perfetta cortesia e rientrò lasciando il tenente, i soldati e la folla piú stupiti e piú imbarazzati che mai.
– Venite, miei bravi, – disse il Corsaro a Carmaux e a Wan Stiller. – Credo che avremo il tempo necessario per scambiare due chiacchiere.
– E quei soldati? – chiese Carmaux, che non era meno stupito degli spagnuoli per il sangue freddo e l’audacia, assolutamente fenomenali del comandante.
– Lasciamoli gridare se lo vogliono.
– Andiamo a fare la cena della morte adunque, mio capitano.
– Bah!… L’ultima nostra ora è piú lontana di quello che tu credi, – rispose il Corsaro. – Aspetta che calino le tenebre e tu vedrai quel barilotto di polvere fare dei miracoli.
Entrò nella stanza senza spiegarsi di piú, andò a tagliare le corde che imprigionavano il conte di Lerma ed il giovanotto e li invitò a sedersi al desco improvvisato, dicendo loro:
– Tenetemi compagnia, conte, ed anche voi, giovanotto; conto però sulla vostra parola di nulla tentare contro di noi.
– Sarebbe impossibile intraprendere qualche cosa, cavaliere, – rispose il conte sorridendo. – Mio nipote è inerme e poi so ormai quanto sia pericolosa la vostra spada. E cosí, che cosa fanno i miei compatrioti?… Ho udito un baccano assordante.
– Per ora si limitano ad assediarci.
– Mi rincresce dirvelo, ma temo, cavaliere, che finiranno coll’abbattere la porta.
– Io credo il contrario, conte.
– Allora vi assedieranno e presto o tardi vi costringeranno alla resa. Vivaddio! Vi assicuro che mi dispiacerebbe di vedere un uomo cosí valoroso ed amabile come siete voi, nelle mani del Governatore. Quell’uomo non perdona ai filibustieri.
– Wan Guld non mi avrà. È necessario che io viva per saldare un vecchio conto che ho da regolare con quel fiammingo.
– Lo conoscete?
– L’ho conosciuto per mia sventura, – disse il Corsaro, con un sospiro. – E stato un uomo fatale per la mia famiglia e se sono diventato filibustiere lo devo a lui. Orsú, non parliamo piú di ciò; tutte le volte che penso a lui io mi sento il sangue saturarsi d’odio implacabile, e divento triste come un funerale. Bevete, conte. Carmaux, che cosa fanno gli spagnuoli?
– Stanno confabulando tra di loro, comandante, – rispose il filibustiere che tornava allora dalla finestra. – Pare che non sappiano decidersi ad assalirci.
– Lo faranno piú tardi, ma forse noi allora non saremo piú qui. Veglia sempre il negro?
– È sul solaio.
– Wan Stiller, porta da bere a quell’uomo.
Ciò detto il Corsaro parve s’immergesse in profondi pensieri, pur continuando a mangiare. Era diventato piú triste che mai, e preoccupato, tanto da non udire nemmeno piú le parole che gli rivolgeva il conte.
La cena terminò in silenzio, senza che venisse interrotta. Pareva che i soldati, malgrado la loro rabbia ed il vivissimo desiderio che avevano di appiccare e di bruciare vivi i filibustieri, non sapessero prendere alcuna decisione. Non già che difettassero di coraggio, anzi, tutt’altro, o che paventassero lo scoppio del barile, poco importava loro che la casa saltasse in aria; temevano pel conte di Lerma e per suo nipote, due persone ragguardevoli della città e che volevano ad ogni costo salvare.
Le tenebre erano già calate, quando Carmaux avvertí il Corsaro che un drappello di archibugieri, rinforzato da una dozzina di alabardieri, era giunto, occupando lo sbocco della viuzza.
– Ciò significa che si preparano ad intraprendere qualche cosa, – rispose il Corsaro. – Chiama il negro.
L’africano, dopo qualche minuto, si trovò dinanzi a lui.
– Hai visitato accuratamente il solaio? – gli chiese.
– Sí, padrone.
– Vi è nessun abbaino?
– No, ma ho sfondato una parte del tetto e per di là possiamo passare.
– Non vi sono nemici?…
– Nemmeno uno, padrone.
– Sai dove possiamo discendere?…
– Sí, e dopo un breve cammino.
In quel momento una scarica formidabile rintronò nella viuzza, facendo tremare tutti i vetri. Alcune palle, attraversate le persiane delle finestre, penetrarono nella casa, foracchiando le pareti e scrostando le volte delle stanze.
Il Corsaro era balzato in piedi snudando con un rapido gesto la spada. Quell’uomo, alcuni istanti prima cosí calmo e compassato, sentendo l’odore della polvere, si era trasfigurato: i suoi occhi balenavano, sulle smorte gote era improvvisamente comparso un lieve rossore.
– Ah!… Cominciano!… – esclamò con voce beffarda.
Poi, volgendosi verso il conte e suo nipote, continuò:
– Io vi ho promessa salva la vita e, qualunque cosa debba accadere, manterrò la parola data; voi dovete però obbedirmi e giurarmi che non vi ribellerete.
– Parlate, cavaliere, – disse il conte. – Mi rincresce che gli assalitori siano miei compatrioti; se non lo fossero vi assicuro che combatterei ben volentieri al vostro fianco.
– Voi dovete seguirmi, se non volete saltare in aria.
– Sta per crollare la casa?
– Fra pochi minuti non rimarrà dritta una sola muraglia.
– Volete rovinarmi? – strillò il notaio.
– State zitto, avaraccio, – gridò Carmaux che slegava il povero uomo. – Vi si salva e ancora non siete contento?
– Ma è la mia casa che non voglio perdere.
– Vi farete indennizzare dal governatore.
Una seconda scarica rimbombò nella viuzza ed alcune palle attraversarono la stanza, mandando in pezzi una lampada che vi si trovava nel mezzo.
– Avanti, uomini del mare!… – tuonò il Corsaro. – Carmaux, và a dar fuoco alla miccia…
– Sono pronto, comandante.
– Bada che il barile non scoppi prima che abbiamo abbandonato la casa.
– La miccia è lunga, signore, – rispose il filibustiere, scendendo la scala a precipizio.
Il Corsaro, seguito dai quattro prigionieri, da Wan Stiller e dall’africano, salirono sul solaio, mentre gli archibugi continuavano le loro scariche, mirando soprattutto alle finestre ed intimando, con urla acute, la resa.
Le palle penetravano dovunque, con certi miagolii da fare venire i brividi al povero notaio; scrostavano larghi tratti di parete e rimbalzavano contro i mattoni; i filibustieri però, e nemmeno il conte di Lerma, uomo di guerra anch’esso, se ne preoccupavano gran che.
Giunti sul solaio, l’africano mostrò al Corsaro una larga apertura irregolare che metteva sul tetto, e che egli aveva fatta, servendosi d’una trave strappata ad una tramezzata.
– Avanti, – disse il Corsaro.
Ringuainò per un momento la spada, s’aggrappò ai margini delle squarciature ed in un istante si issò sul tetto, girando all’intorno un rapido sguardo.
Scorse subito, tre o quattro tetti piú innanzi, delle alte piante, dei palmizi, uno dei quali cresceva addosso ad una muraglia, spingendo le sue splendide e gigantesche foglie sopra le tegole.
– È per di là che ci caleremo? – chiese al negro, che lo aveva raggiunto.
– Sí, padrone.
– Potremo uscire da quel giardino?
– Lo spero.
Il conte di Lerma, suo nipote, il servo ed anche il notaio spinto in alto dalle robuste braccia di Wan Stiller, erano già tutti sul tetto, quando Carmaux comparve, dicendo:
– Presto, signori; fra due minuti la casa ci crollerà sotto i piedi.
– Sono rovinato! – piagnucolò il notaio. – Chi mi risarcirà poi dei…
Wan Stiller gli troncò la frase spingendolo ruvidamente innanzi.
– Venite o andrete in aria anche voi, – gli disse.
Il Corsaro, assicuratosi che non vi erano nemici, era già balzato su di un altro tetto, seguito dal conte di Lerma e da suo nipote.
Le scariche allora si succedevano alle scariche e dei vortici di fumo s’alzavano verso la viuzza, disperdendosi lentamente pei tetti. Pareva che gli archibugieri fossero decisi a crivellare la casa del notaio, prima di abbattere la porta, sperando forse di costringere i filibustieri alla resa.
Forse il timore che il Corsaro si decidesse a mettere in esecuzione la terribile minaccia, facendosi seppellire fra le macerie assieme ai quattro prigionieri, li tratteneva ancora dal tentare un assalto generale della casa.
I filibustieri, trascinando con loro il notaio, che non poteva piú reggersi sulle gambe, giunsero sull’orlo dell’ultima casa, presso il palmizio.
Sotto si estendeva un vasto giardino cinto da un alto muro, e che pareva si prolungasse in direzione della campagna.
– Io conosco questo giardino, – disse il conte. – Esso appartiene al mio amico Morales.
– Spero che non ci tradirete, – disse il Corsaro.
– Al contrario, cavaliere. Non ho ancora dimenticato che vi devo la vita.
– Presto, scendiamo, – disse Carmaux. – L’esplosione può lanciarci nel vuoto.
Aveva appena terminato quelle parole, quando vide un lampo gigantesco seguito subito da un orribile frastuono. I filibustieri ed i loro compagni sentirono tremare sotto i loro piedi il tetto, poi caddero l’uno sull’altro, mentre intorno piovevano pezzi di macigno, frammenti di mobilia e brandelli di stoffe fiammeggianti.
Una nube di fumo si estese sui tetti, tutto offuscando per qualche minuto, mentre verso la viuzza si udivano crollare muraglie e pavimenti fra urla di terrore e bestemmie.
– Tuoni! – esclamò Carmaux, che era stato spinto fino alla grondaia. – Un metro piú innanzi e piombavo nel giardino come un sacco di stracci.
Il Corsaro Nero si era prontamente alzato, barcollando tra il fumo che lo avvolgeva.
– Siete tutti vivi? – chiese.
– Lo credo, – rispose Wan Stiller.
– Ma… qualcuno è qui, immobile, – disse il conte. – Che sia stato ucciso da qualche rottame?
– È quel poltrone di notaio, – rispose Wan Stiller. – Rassicuratevi però, non è che svenuto per lo spavento provato.
– Lasciamolo lí, – disse Carmaux. – Si trarrà d’impiccio come potrà, se il dolore d’aver perduta la sua bicocca non lo farà morire.
– No, – rispose il Corsaro. – Vedo alzarsi delle vampe tra il fumo, e, lasciandolo qui, correrebbe il pericolo di venire arrostito. L’esplosione ha incendiate le case vicine
– È vero, – confermò il conte. – Vedo un’abitazione che brucia.
– Approfittiamo della confusione per prendere il largo, amici, – disse il Corsaro. – Tu, Moko, t’incaricherai del notaio.
Stava per cacciarsi in mezzo ad un viale che conduceva al muro di cinta, quando vide alcuni uomini, armati di archibugi, precipitarsi fuori da una macchia di cespugli, gridando:
– Fermi, o facciamo fuoco!…
Il Corsaro aveva impugnata la spada colla destra, mentre colla sinistra aveva estratta una pistola, deciso ad aprirsi il passo; il conte lo fermò con un gesto dicendo:
– Lasciate fare a me, cavaliere.
Poi, facendosi incontro a quegli uomini, aggiunse – Dunque non si conosce piú l’amico del vostro padrone?
– Il signor conte di Lerma!… – esclamarono gli uomini, attoniti.
– Abbasso le armi, o mi lagnerò col vostro padrone.
– Perdonate, signor conte, – disse uno di quei servi, – noi ignoravamo con chi avevamo da fare. Avevamo udito uno scoppio spaventoso e sapendo che, nelle vicinanze, dei soldati assediavano dei corsari, eravamo qui accorsi per impedire la fuga di quei pericolosi banditi.
– I filibustieri sono ormai fuggiti, quindi potete andarvene. Vi è qualche porta nella cinta?
– Sí, signor conte.
– Aprite a me ed ai miei amici e non occupatevi d’altro.
L’uomo che aveva parlato, con un cenno congedò gli armati, poi si diresse verso un viale laterale e giunti dinanzi ad una porticina ferrata, l’aprí.
I tre filibustieri ed il negro uscirono all’aperto preceduti dal conte e da suo nipote. Il servo, che teneva fra le braccia il notaio sempre svenuto, si era fermato assieme a quello del proprietario del giardino.
Il conte guidò i filibustieri per un duecento passi, inoltrandosi in una viuzza fiancheggiata solamente da muraglie, poi disse:
– Cavaliere, voi mi avete salvata la vita, sono lieto di avere potuto rendervi anch’io questo piccolo servigio. Uomini valorosi come voi non devono morire sulla forca, ma v’assicuro che il Governatore non vi avrebbe risparmiato, se avesse potuto avervi in mano. Seguite questa viuzza che conduce in aperta campagna e tornate a bordo della vostra nave.
– Grazie, conte, – rispose il Corsaro.
I due gentiluomini si strinsero cordialmente la mano e si lasciarono scoprendosi il capo.
– Ecco un brav’uomo, – disse Carmaux. – Se torneremo a Maracaybo non mancheremo di andarlo a trovare.
Il Corsaro si era messo rapidamente in cammino preceduto dall’africano, il quale conosceva, forse meglio degli stessi spagnuoli, tutti i dintorni di Maracaybo.
Dieci minuti dopo, senza essere stati disturbati, i tre filibustieri erano fuori della città, sul margine della foresta, in mezzo alla quale si trovava la capanna dell’incantatore di serpenti.
Guardando indietro videro alzarsi fra le ultime case una nuvola di fumo rossastro, sormontata da un pennacchio di scintille che il vento trasportava sopra il lago. Era la casa del notaio che finiva di consumarsi assieme forse a qualche altra.
– Povero diavolo, – disse Carmaux. – Morrà dal dispiacere: la casa e la sua cantina! È un colpo troppo grosso per un avaraccio come lui!
Si arrestarono alcuni minuti sotto la cupa ombra d’un gigantesco simaruba, temendo che nei dintorni si trovasse qualche banda di spagnuoli mandata ad esplorare le campagne; poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella foresta, si cacciarono sotto le piante marciando rapidamente. Venti minuti bastarono per attraversare la distanza che li separava dalla capanna. Già non distavano che pochi passi, quando ai loro orecchi giunse un gemito.
Il Corsaro si era arrestato, cercando di discernere qualche cosa fra la profonda oscurità proiettata dalle alte e fitte piante.
– Tuoni! – esclamò Carmaux. – È il nostro prigioniero che abbiamo lasciato legato al tronco dell’albero. Io mi ero dimenticato di quel soldato!
– È vero, – mormorò il Corsaro.
Si avvicinò alla capanna e scorse lo spagnuolo ancora legato.
– Volete farmi morire di fame? – chiese il poveraccio. – Allora dovevate appiccarmi subito.
– È venuto nessuno a ronzare in questi dintorni? – gli chiese il Corsaro.
– Non ho veduto che dei vampiri, signore.
– Và a prendere il cadavere di mio fratello, – disse il Corsaro, volgendosi verso 1’africano.
Poi avvicinandosi al soldato che si era messo a tremare, temendo che la sua ultima ora fosse per scoccare, lo liberò dalle corde che lo imprigionavano, dicendogli con voce sorda:
– Io potrei vendicare su di te, prima di tutti, la morte di colui che andrò a seppellire in fondo all’oceano, e dei suoi disgraziati compagni che sono ancora appesi sulla piazza di quella città maledetta; ma ti ho promesso di graziarti ed il Corsaro Nero mai ha mancato alla parola data. Tu sei libero; tu mi devi però giurare che appena giunto in Maracaybo ti recherai dal Governatore a dirgli a nome mio, che io, questa notte, al cospetto dei miei uomini schierati sul ponte della mia Folgore e della salma di colui che fu il Corsaro Rosso, pronuncerò tale giuramento da farlo fremere. Egli ha ucciso i miei due fratelli e io distruggerò lui e quanti portano il nome di Wan Guld. Dirai a lui che io l’ho giurato sul mare, su Dio e sull’inferno e che presto ci rivedremo.
Poi, afferrando il prigioniero che era rimasto stupito, e spingendolo per le spalle, aggiunse.
– Và, e non volgerti indietro, perché potrei pentirmi d’averti donata la vita.
– Grazie, signore, – disse lo spagnuolo, fuggendo precipitosamente, per paura di non uscire piú vivo dalla foresta.
Il Corsaro lo guardò allontanarsi, poi quando lo vide sparire in mezzo all’oscurità si volse verso i suoi uomini, dicendo:
– Partiamo: il tempo stringe.
CAPITOLO IX. UN GIURAMENTO TERRIBILE
Il piccolo drappello, guidato dall’africano che conosceva a menadito tutti i passaggi della foresta, camminava rapidamente per giungere presto sulla riva del golfo e prendere il largo prima che l’alba spuntasse.
Erano tutti inquieti per la nave che doveva incrociare all’entrata del lago, avendo appreso dal prigioniero che il Governatore di Maracaybo aveva mandato dei messi a Gibraltar, per chiedere aiuto all’ammiraglio Toledo.
Temeva che le navi di questi, formanti una vera squadra, formidabilmente armata e montata da parecchie centinaia di valorosi marinai, per la maggior parte biscaglini, avessero già attraversato il lago per piombare sulla Folgore e distruggerla.
Il Corsaro non parlava, ma tradiva la sua inquietudine. Di tratto in tratto faceva cenno ai compagni di arrestarsi e tendeva gli orecchi, temendo di udire qualche lontana detonazione, poi affrettava ancora piú la marcia già rapidissima, mettendosi quasi in corsa.
Qualche altra volta invece faceva come dei gesti d’impazienza, specialmente quando si trovava improvvisamente o dinanzi a qualche gigante della foresta, caduto per decrepitezza o atterrato dal fulmine, o dinanzi a qualche bacino d’acqua stagnante, ostacoli che costringevano i filibustieri a fare dei giri, perdendo del tempo che per loro era diventato troppo prezioso.
Fortunatamente l’africano conosceva la boscaglia e faceva prendere loro delle scorciatoie e dei sentieruzzi, che permettevano di procedere piú speditamente e di guadagnare via.
Alle due del mattino, Carmaux, che camminava innanzi al negro, udí un lontano fragore che indicava la vicinanza del mare. Il suo udito acuto aveva raccolto il rumore del rompersi delle onde contro i paletuvieri della spiaggia.
– Se tutto va bene, fra un’ora noi saremo a bordo della nostra nave, signore, – disse al Corsaro Nero che lo aveva raggiunto.
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