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Capitolo Uno

La normalità era qualcosa che si lasciava alla porta quando si veniva assegnati a una stazione di polizia paranormale. L’agente Vikash Soren ne aveva avuto la prova la prima volta che aveva messo piede nel 77°. Durante l’appello, l’uomo che sarebbe poi diventato il suo compagno aveva accidentalmente sparato fiamme al soffitto dalle dita. Fiamme di qualcun altro, si era scoperto.

Nelle settimane successive, aveva incontrato un giubbotto di pelle animato, lavorato con un vampiro, un uomo lucertola e parecchi agenti dai dubbi talenti paranormali, e aveva aiutato a fermare la furia assassina di una tartaruga alligatore delle dimensioni di una sedan. Di norma, niente altro avrebbe dovuto sorprenderlo. Ma quando entrò nella stanza degli agenti quella mattina, in ritardo a causa di una visita dal dottore, i suoi colleghi si erano raccolti attorno alla periferia della stanza per guardare Greg Santos intento a fare a pugni con una pozza d’acqua. Tazza di caffè in mano, Vikash avanzò per andarsi ad appoggiare alla scrivania accanto al suo compagno.

«Ehi, Kash». Kyle gli rivolse una rapida occhiata, la sua attenzione calamitata dagli improbabili pugili. «È andato tutto bene?»

«Sì. La spalla sta bene».

«Non intendi neanche chiedere, vero?»

Vikash sorseggiò il suo moccaccino annegato nella panna.

«Me lo dirai tu».

«Stai dicendo che parlo troppo, Soren?» Kyle gli diede di gomito. «Uno di noi deve farlo. Il sospetto era in origine un albero di ghiaccio. Una specie di albero. Una cosa. Era ghiaccio e assomigliava a un albero fatto coi Lego da un bambino di tre anni».

Carrington Loveless III, il vampiro con problemi alimentari della stazione, andò ad appoggiarsi alla scrivania dall’altro lato di Vikash.

«A quanto ho capito se ne stava su Viale Ben Franklin e colpiva la gente che gli passava accanto. Non sembra causasse loro danni, ma non possiamo lasciare che una bestia di ghiaccio schiaffeggi il sedere ai turisti. Molestie, come minimo. Non fa bene all’immagine della città».

«Si è sciolto?»

«Beh, sì. Sì, l’ha fatto». Al sorriso di Carrington mancava solo una zanna per essere maligno. «Si è sciolto nella rete in cui Santos l’aveva catturato, e la pozza che ne è risultata gli ha dato un pizzicotto al sedere. Le cose sono precipitate alquanto in fretta da lì».

Greg non sembrava fare progressi, a parte diventare zuppo.

«È il caso che prenda un secchio da Odo?» mormorò Vikash.

«Un che?»

Kyle ridacchiò nel suo caffè. «Sul serio, Carr? Non hai mai guardato Deep Space Nine? Il personaggio che manteneva forma solida solo per un certo periodo?»

Carrington tirò su col naso. «Master da geek. Con voi due, è di quello che avrei bisogno per decifrare metà delle vostre conversazioni».

«Detto da uno che canta l’opera in auto», mormorò la compagna di Carrington, Amanda Zacchini, mentre passava loro accanto, il passo rallentato dall’attrezzatura che portava. Shira Lourdes, la compagna di Greg, le andava dietro in fretta con le braccia piene di un qualche genere di tubo corrugato.

«Mi piace un sacco di musica!»

«Musica umorale, dark, emo, di sicuro», controbatté Amanda, anche se la sua attenzione era su quello che lei e Shira avevano portato dentro, molto probabilmente dal furgone di Amanda, dato che si erano portate dietro anche della neve. Quando Amanda collegò il tubo, infine Vikash lo riconobbe: uno Shop-Vac, del tipo che la gente teneva nei garage o accanto alle postazioni di lavoro. Scosse la testa mentre Shira si affrettava ad attaccare la spina. Mentre i membri maschili della stazione se ne stavano là attorno a guardare lo scontro, alcuni facendo scommesse, i loro due membri femminili avevano trovato una soluzione. Senza un’altra parola, Amanda accese l’aspiratore, risucchiò il lottatore acquatico, rimosse il tubo e cacciò una palla di gomma nell’apertura, intrappolando a tutti gli effetti l’acqua animata e lasciando Greg ad ansimare sul pavimento. La tenente Dunfee era appena emersa dal suo ufficio, le sopracciglia alzate.

«Voglio saperlo?»

Appollaiato sul telaio della porta della tenente, un mucchietto di penne blu acceso e rosa fluorescente batté le ali ed emise una gracchiante risata roca. Edgar, lo sboccato corvo della stazione, decise infine di metterci del suo. «Giochi d’acqua!» gridò. «Non adatti al lavoro! Dilettanti del cazzo!»

La tenente Dunfee gli lanciò uno sguardo letale. «Basta con l’editoriale, Edgar. Che cavolo sta succedendo qua fuori?»

«Sotto controllo, signora», disse Amanda impassibile. «Ma sto compilando una richiesta di rimborso per uno Shop-Vac. Per sua informazione».

«Mettila sulla mia scrivania. La firmerò. Vediamo cosa pensano di quella i contafagioli». La tenente inchiodò Greg con uno sguardo duro. «Santos? Hai bisogno di assistenza medica?»

Greg si rimise in piedi in fretta, passandosi il dorso di una mano sul labbro spaccato. «No, signora».

«Buono a sapersi. Tornate al lavoro, signore e signori. Cercate di mantenere al minimo gli alterchi violenti oggi».

Un Greg Santos piuttosto seccato e umido si diresse al bagno degli uomini per ripulirsi mentre Shira continuava a badare alla pozza combattiva.

«Solo un altro giorno come tanti», mormorò Vikash mentre infine si sedeva al suo posto alla scrivania che condivideva con Kyle.

«Uhm?» Kyle alzò lo sguardo da quello che stava scrivendo. «Oh. Già. Anche se sono grato per ogni giorno privo di esplosioni e morte imminente. O stai avendo di nuovo una crisi esistenziale paranormale?»

«Una divertita».

«Beh, accidenti. Se fosse stata dell’altro tipo avrei potuto prendere una cena da asporto da My Thai, accendere qualche candela e mettere su La storia fantastica una volta arrivati a casa».

«Kyle. Lavoro». Vikash lo disse gentilmente, ma dovette faticare per impedire al suo sguardo di saettare in giro per vedere se qualcuno avesse sentito.

«Non sto mica urlando», sibilò Kyle. «Buon Dio, Kash. La paranoia sta iniziando a fare un po’ la muffa».

«Il lavoro è lavoro e casa è casa».

«Sì, sì, e mai i due dovranno incontrarsi. Non è che ti stia mettendo all’angolo per una sveltina nella sala riunioni. O dandoti baci in bocca in bagno».

«Sviluppo interessante».

«Cosa?»

«L’aumento di allitterazioni quando sei agitato».

«Io non sono agitato. Solo un po’ irritato perché continui a saltare e contorcerti se mi avvicino troppo in qualunque posto al di fuori dei nostri appartamenti. Siamo entrambi del professionisti al lavoro. Non insisto che ci teniamo per mano le rare volte che andiamo a cena fuori. Mi urta che continui a sembrare, non so, imbarazzato da noi».

«Hai promesso di mantenerti professionale al lavoro».

«Calma, Soren». Carrington gli batté sulla spalla mentre gli passava accanto. «Proporre una cena da asporto non ha niente di poco professionale».

«Hai sentito?» Il cuore di Vikash gli martellò contro lo sterno. Tutta la stazione lo sa. Tutti lo vedono.

«Orecchie da vampiro, mio caro. Cosa c’è che non sento? Sul serio, però. Rilassati. Nessuno ha il tempo di interessarsi alla vostra piccola tresca illecita».

Vikash avrebbe potuto accettare il consiglio se Virago non avesse tuonato dall’altra parte della stanza: «Ehi! Di che state sussurrando voi ragazze? Andate a qualche bar con arcobaleni e lustrini?»

«Solo se vieni anche tu!» Kyle fece versi da bacio in direzione di Virago. «Non dimenticare la borsetta!»

«Piantala, Vance», mormorò Amanda mentre passava accanto a Virago e gli dava uno scappellotto sulla nuca. «La tua quip… equicazz.. qual è quella parola, Carr?»

«Equiparazione», disse di rimando Carrington senza la minima esitazione.

«Già, quella parola… di uomini gay e vere ragazze è offensiva».

«Scusa, Manda».

Di norma, Vance Virago, autoproclamato duro, che si faceva piccolo mentre si scusava sarebbe stato divertente. Vance non poteva averli sentiti dall’altra parte della stanza. Stava solo bullizzando Kyle come faceva sempre. Ma il tempismo era stato orribile e, tra quelle parole omofobiche e i sussulti di Vikash, era riuscito a cancellare la tranquilla contentezza dal volto di Kyle. Lo addolorava il fatto che Vance potesse riuscirci. Peggio ancora, Vikash non aveva idea di cosa fare a riguardo.

«Kyle…»

Non ebbe la possibilità di dare neppure una minima spiegazione o scusa però, dato che un’allerta inviata dalla tenente comparve sullo schermo, ordinando loro di andare a indagare su un disturbo della quiete a Fairmount Park.

Vance si spinse via con violenza dalla propria scrivania. «Oh, amico!»

E il nostro omofobo locale è il nostro rinforzo. L’irritazione si arrampicò lungo la schiena di Vikash. Kyle non aveva mai fatto nulla a Vance tranne rifiutarsi di piegarsi al suo bullismo. Alcuni giorni era a un punto tale che Vikash avrebbe voluto compilare una denuncia di molestie sul lavoro per conto di Kyle, anche se a lui avrebbe dato fastidio l’intromissione. Era comunque sbagliato e… Oh, cavolo.

Nella collera crescente, Vikash sentì la fastidiosa sfera riscaldata di potere al centro di lui che annunciava la manifestazione del suo strano talento. Quasi andò nel panico: l’istinto di allungare la mano sopra la scrivania e afferrare Kyle era possente. Assieme, avevano una possibilità di direzionare il fulmine di collera in qualche punto dove sarebbe stato innocuo. Magari verso il vecchio tritadocumenti che si inceppava dopo ogni pagina. Ma toccare Kyle significava anche che il potere si sarebbe amplificato in una bizzarra fusione dei loro talenti paranormali difettosi. Per non menzionare il fatto che toccare Kyle nella sala degli agenti non faceva che dare ulteriori munizioni a Vance.

Poi fu troppo tardi per le scelte. Il potere eruppe da lui mentre stava seduto immobile, lottando per tenere qualunque reazione fuori dalla sua espressione. Uno schiocco e un distinto sfrigolio elettronico risuonarono alla sua sinistra facendolo rimpicciolire.

«Vaffanculo!» urlò Vance, schiaffeggiando il monitor fumante del suo computer.

Jeff si alzò per aiutarlo a soffocare le piccole fiamme con un asciugamano. «Maledizione, Vance. Che hai fatto stavolta?»

«Non sono stato io! Giuro!»

«La tenente non ti permetterà più di avere un computer se continui a romperli».

Vikash si girò all’indietro e trovò Kyle che fissava lui anziché guardare la confusione, le labbra serrate assieme in una linea collerica.

«Non mi serve che tu mi protegga, Kash».

«Non era… mi è sfuggito».

Kyle sbuffò dal naso. «Certo».

Trattenendo un sospiro, Vikash prese il cappello e seguì Kyle alla loro auto di pattuglia, bianca con la banda azzurra come tutte le autopattuglie della polizia della città di Philadelphia. La loro stazione però aveva anche il distintivo nero e oro del 77° sopra la striscia blu, a marchiarli permanentemente come qualcosa di diverso.

Per una volta, Vikash avrebbe voluto che il viaggio verso la scena fosse più lungo. Non per la prima volta, avrebbe desiderato essere agile sui suoi piedi verbali. «Kyle…»

«Mettilo in un posto sicuro per me, Kash». Kyle allungò una mano per dargli una pacca sul ginocchio. «Tieni stretto qualunque cosa stia filtrando e cuocendo là dentro. Al momento, abbiamo due frasi di cui dobbiamo preoccuparci. Disturbo e attaccato da una palla di rametti. Non perdiamo la concentrazione quando non sappiamo in cosa cazzo ci stiamo cacciando».

«Come sempre».

«Già. Amo le sorprese».

«Le odi».

«Shh. Sto tentando un po’ di autoconvincimento qui. Non rovinarmelo».

Eccolo di nuovo. Nonostante tutti i suoi dubbi e il senso di colpa, Kyle aveva contorto la gruccia delle sue parole, si era insinuato dentro e aveva pescato un sorriso da Vikash. A volte, come in quel momento, un pochino di irritazione arrivava col sorriso, per il fatto che Kyle riuscisse a fargli perdere anche quella briciola di controllo. Ma comunque gli avvolgeva uno strato di calore attorno al cuore malandato. Kyle era come una coperta appena uscita dall’asciugatrice in una mattina invernale. L’immagine alquanto sdolcinata lo fece ridacchiare.

«Che c’è?»

«Niente. Coperte. E asciugatrici».

«Certi giorni sei davvero tanto strano». Kyle fece un cenno della testa vero il loro computer di bordo. «Ti prego, dimmi che abbiamo un aggiornamento sull’ultima posizione. Dire a Fairmount Park è utile quanto dire da qualche parte tra qui e Lancaster».

«Mount Pleasant».

«Grazie, dio dei punti di riferimento specifici».

Vikash girò la testa mentre un segnale stradale sfrecciava loro accanto. «Il GPS dice di prendere Kelly Drive».

«Il GPS del cavolo può andare a fare in culo in silenzio in un angolo. Ho vissuto qui per tutta la vita, Kash. La Reservoir ci farà arrivare più in fretta».

«Il GPS non è davvero progettato per quello».

Kyle gli rivolse uno di quegli splendidi sorrisi storti che Vikash adorava così tanto. «Probabilmente no. Ma potrebbe divertirsi parecchio provandoci».

Erano caduti dieci centimetri di neve la notte prima, ricoprendo i marroni e i verdi del parco di uno strato uniforme di bianco, addolcendo le linee aggressive dei piedistalli delle statue, nascondendo le imperfezioni che il disgelo di primavera avrebbe svelato come una spogliarellista impudica. Un forte sole invernale traeva scintille dorate dai capelli rossi di Kyle. Kyle Monroe, col suo naso rotto una volta e le mani con le cicatrici da ustione, che non avrebbe potuto essere più bello per Vikash neanche se degli angeli gli avessero brunito la pelle.

Sono innamorato di lui. Sono innamorato del mio compagno e non posso dirglielo. Non oso dirglielo.

Per Kyle, stare con un uomo non era un gran problema. Niente, per quel che riguardava le relazioni, sembrava esserlo per lui. Per quanto riusciva a dire Vikash, Kyle non aveva mai avuto un ragazzo serio di lunga durata, mentre Vikash? Lui aveva sempre lottato: per spiegare alla sua famiglia di essere bi, per rispiegare costantemente la stessa cosa a qualunque metà avesse mai avuto, per nascondere chi era al lavoro con meticolosa attenzione. Era già brutto abbastanza essere un poliziotto gay, ma un poliziotto bisessuale dichiarato? Sarebbe stato come gettare un unicorno di cioccolata in una stanza piena di scoiattoli affamati. Dilaniato un pezzetto alla volta finché non fossero rimaste altro che briciole.

Ogni volta le sue riserve, la sua ansia ben nascosta, la sua incapacità di scegliere da che parte stare, come aveva detto la sua ultima ragazza, avevano fatto affondare le sue relazioni. L’avevano visto come una mancanza di impegno, come se la sua bisessualità fosse una strada diretta per l’infedeltà e la promiscuità. Kyle non gli stava chiedendo di cambiare. Kyle almeno diceva di capire, ma l’agitazione era iniziata, l’irritazione per il fatto di non poter semplicemente essere aperto ed esposto al pubblico, di dover continuare a tenere casa e lavoro in contenitori chiusi ermeticamente. Non ci sarebbe voluto molto ormai prima che Kyle arrivasse al limite.

Vikash aveva insistito perché ognuno tenesse il proprio appartamento. Aveva insistito perché andassero al lavoro separatamente. Era lui quello che si scostava quando Kyle cercava di prendergli la mano al tavolo di un ristorante. Autosabotaggio? Probabilmente. Era bravo a farlo. Anche se stavolta era una scelta che non voleva fare tra la relazione e la carriera, e più evitava di affrontare quella scelta più si garantiva un fallimento spettacolare e incasinato della relazione.

Quando Kyle svoltò sulla solitamente pacifica Mount Pleasant Drive tra due file di alberi, non potevano esserci dubbi che stessero andando nella direzione giusta. Piccoli gruppi di gente urlante correvano oltre la loro auto di pattuglia, e un uomo per poco non corse dritto contro il paraurti di Vance dietro di loro.

In assenza di turisti e visitatori del parco, la rotonda davanti alla villa vera e propria era di una calma mortale. La casa principale in bianco con bordature di mattoni rossi con la sua dependance in tinta era rannicchiata in un mucchietto solitario contro la neve, eleganti pasticcini da tè persi in un’esplosione di glassa bianca. La scena ingannevolmente pacifica fece risalire un brivido lungo la schiena di Vikash. A meno che la folla in fuga avesse raggiunto tutta assieme la stessa dolorosa epifania sull’insignificanza dell’esistenza e fosse corsa via urlando in preda a un panico esistenziale di massa, qualcosa era in agguato nelle vicinanze.

Vikash esaminò il terreno mentre scendeva dalla macchina, non volendo ancora fare una mossa in nessuna direzione.

«È tranquillo. Troppo tranquillo», mormorò Kyle ripetendo il vecchio cliché dei film, e Vikash dovette soffocare una risatina nervosa.

«Siamo a circa il cinquanta per cento di umidità». Jeff Gatling girò attorno all’auto verso il lato di Vikash. «Vance? Scintille?»

Per fortuna, Vance era concentrato sulla caccia e non stava tormentando Kyle. Alzò una mano, le dita puntate al cielo. Del fumo si arricciò verso l’alto, poi uno sbuffo scuro eruppe prima che delle fiamme gli danzassero sulle punte delle dita. «Oh, sì. Abbiamo scintille. Fatti avanti».

«Contenere se possibile», lo ammonì a bassa voce Jeff. «Incenerire come ultima risorsa. Capito, Vance?»

Il suo compagno borbottò, ma si unì a loro mentre recuperavano tutti reti e borse dalle auto di pattuglia. Vikash colse un movimento con la vista periferica. Si voltò lentamente e notò un rapido lampo di qualcosa che svaniva dietro la dependance sulla sinistra.

«Là». Indicò, muovendosi lentamente ma con decisione attraverso la neve.

«L’hai visto, Kash? Quant’è grosso?» Kyle si spostò di qualche metro sulla sinistra, in caso il colpevole avesse deciso di fuggire.

Vikash scosse la testa. «Non ho visto abbastanza».

La neve era abbastanza fresca da non scricchiolare ancora, e attutì i loro passi mentre si facevano strada attorno all’edificio, Vikash e Kyle sulla sinistra, Jeff e Vance sulla destra. Quando la cosa uscì dal suo riparo, lo fece con velocità allarmante, sfrecciando da dietro l’edificio e gettando Kyle in terra prima di rotolargli sopra.

«Kyle?» lo chiamò Vikash, mentre già tentava di indirizzare la cosa verso Jeff e Vance.

«Sto bene».

Anche se Vikash non era convinto, non poteva ancora tornare indietro a controllare come stesse il suo compagno. Due metri di diametro, la bizzarra apparizione che aveva causato la fuga di massa sembrava essere un’enorme palla di detriti da orticoltura. Rotolava e rimbalzava verso il fiume, rametti, foglie secche e viticci tutti intrecciati e che spuntavano irregolari dalla superficie come un brutto taglio di capelli. Con le sue gambe più lunghe, Vikash distanziava facilmente i suoi colleghi, perciò era proprio nella linea di tiro quando il rotolacampo della follia si fermò di botto, si scosse, e scagliò una massa di bastoncini come missili nella sua direzione. Lui si gettò di lato e la sua giacca subì il grosso dell’attacco. Dietro di lui, sentì un acuto urlo di dolore.

Il rotolacampo frusciò di nuovo, apparentemente preparando un secondo lancio. Vikash si coprì la testa e arrischiò un’occhiata all’indietro verso Jeff, spalmato in terra con un bastone del diametro di cinque centimetri conficcato nella spalla.

Vance si alzò da dove si era accucciato accanto al suo compagno, il volto paonazzo mentre urlava: «Mostro del cazzo!»

Delle fiamme gli scaturirono dalle dita mentre proiettava in avanti un braccio e poi l’altro, fiammate di tre metri che minacciavano di dar fuoco agli alberi mentre Vance correva verso il rotolacampo. Col fumo che risaliva da diversi punti colpiti dal fuoco, la creatura fuggì con balzi erratici attraverso Kelly Drive fino a raggiungere la scultura dei Playing Angels accanto al fiume. Per un attimo, Vikash temette che sarebbe saltata in acqua, invece si nascose dietro i tre angeli che suonavano il corno sui loro alti piedistalli, saltando dall’uno all’altro mentre Vance continuava col suo assalto.

«Vance!» urlò Jeff, sforzandosi di mettersi a sedere. «Piantala! Contenere!»

Ma Vance lo ignorò, mormorando una serie di invettive sui mostri che sparavano addosso alle forze dell’ordine. Anche se a volte poteva essere un lavoro duro gestire un non umano che infrangeva la legge, i loro ordini standard erano di trattenerli a meno che la creatura presentasse una minaccia immediata. Almeno a Vikash era chiaro che il rotolacampo fosse più spaventato che malevolo. Si gettò contro Vance, buttandolo nella neve sotto l’angelo di destra mentre Kyle cercava di spegnere le fiamme con la sua giacca.

Pur col sangue che si allargava sulla camicia blu della sua uniforme, Jeff si unì allo sforzo di soppressione del fuoco, anche se sembrava senza speranza. Le fiamme schioccavano e scoppiettavano, e un terribile lamento terrorizzato giunse dal centro del rotolacampo.

«Levati di dosso, imbecille!» Vance si scrollava e si contorceva, ma Vikash non intendeva ancora farlo rialzare. Dovette schivare un pugno puntato alla sua testa ed era sul punto di usare i suoi arti più lunghi per bloccare le braccia di Vance in una stretta da orso quando di colpo il loro incendiario divenne inerte.

I suoi occhi si aprirono di scatto, le pupille allargate, e fissarono qualcosa dietro di lui. La sua paura era talmente reale che Vikash si gettò un’occhiata oltre una spalla, ma vide solo l’abbagliante celeste del cielo invernale. Con cautela, sollevò il proprio peso. «Vance? Che succede?»

«Oh mio Dio, cazzo. Non può essere», sussurrò Vance mentre si alzava e si chinava a raccogliere un oggetto inesistente da terra. Assunse una posa difensiva, indifferente a Vikash che lo scuoteva e gli urlava nell’orecchio. «No! Lucertole volanti del cazzo! Non puoi essere qui!»

Vance agitò con foga qualunque fosse l’arma immaginaria che stava impugnando, cercando di colpire qualcosa di altrettanto immaginario nell’aria. Non sapendo bene se dovesse buttarlo di nuovo in terra o lasciare solo che superasse la sua allucinazione, Vikash indietreggiò contro il piedistallo della statua.

«Kash! Che cazzo sta succedendo laggiù? Ci farebbe comodo…»

Tra una parola e la successiva, la voce di Kyle si mozzò. Il parco scomparve e Vikash si ritrovò a battere le palpebre in un luogo di luce abbagliante e strani suoni.

«Kyle?» chiamò con impotente angoscia, strozzandosi per la paura. Era successo qualcosa. Stava avendo le allucinazioni come Vance. Resta fermo. Resta solo fermo e lascia che Kyle venga a prenderti. Niente panico. Deve essere una cosa temporanea.

«Saluti. Le serve aiuto?»

Vikash sobbalzò e si girò verso la voce. Una visione in una larga veste era in piedi accanto a lui, sorridente, gli occhi verdi che lo fissavano con innocente compassione. Lunghi capelli biondi scendevano sulle spalle della visione e, anche se Vikash si ritrovò incapace di comprenderne il genere, il volto di quella persona era dolorosamente familiare. «Kyle?»

«No. Sono Cirrus. Ma potrei essere Kyle se volesse che lo fossi». Cirrus rise, e perfino quel basso suono sensuale era come quello di Kyle quando stava flirtando. «È un ricostruttore? È stato separato dalla sua troupe video?»

«Ah. Uhm». Vikash osservò ciò che lo circondava ora che i suoi occhi si erano abituati, sentendosi più stupido a ogni momento che passava. Erano su una superficie bianca e luccicante simile a porcellana che si muoveva fluida sotto i loro piedi. Enormi guglie di vetro e cromo svettavano sopra di loro, occupando la maggior parte del cielo. Quel poco di cielo che riusciva a vedere era di un impietoso blu, perfino più dolorosamente luminoso del cielo invernale che si era appena lasciato alle spalle nel parco.

«È davvero perso, non è così?»

«Perso. Sì», mormorò Vikash mentre passavano accanto a una vetrina che esponeva blocchi porosi e colorati.

«Oh, ha fame! Questo spiega lo sguardo velato». La risata di Cirrus fu più viva stavolta, felice e disinibita. Lui… lei… afferrò la mano di Vikash e si affrettò lungo il marciapiede mobile. «Non vuole mangiare lì. Le prot sono davvero troppo gessose. Conosco un posto dove il cibo è buono da morire».

Non riuscendo a pensare a una buona obiezione, , Vikash si lasciò trascinare. Altri pedoni lo fissavano, ma sembravano più intrigati che ostili, e la loro attenzione era più concentrata sulla sua uniforme che sulle mani intrecciate. «Io… Dove?»

«Dove stiamo andando? Proprio dietro l’angolo. Non è lontano».

«No, dove…» Non voglio fare questa domanda. Non voglio davvero. «Dove sono?»

Cirrus si fermò e rifletté per un attimo. «Intende in che via?»

«Sono ancora sulla Terra?»

La risata successiva fu interrotta da un’esclamazione sconvolta. «È serio, non è vero?» Cirrus gli rigirò la mano, accarezzando con cautela la pelle del suo polso. «Ha preso qualcosa di nuovo oggi? Non dovrebbe davvero accettare droghe dagli sconosciuti».

«No…» Vikash notò la gente che passava oltre in fretta, alcuni in vesti semplici come quella della sua guida, altri con nulla più dell’equivalente di un lucido tanga brasiliano. «Io credo di essere stato… dislocato in qualche modo. Philadelphia. È lì che mi trovavo prima».

«Questa è Philadelphia». Cirrus socchiuse gli occhi. «Scommetto che so di che si tratta. Sta facendo una rappresentazione storica. Ventesimo, ventunesimo secolo magari? E hanno delle nuove pillole di pelle che ti mandano completamente nel personaggio. Ma si è allontanato dalla sua troupe. Poverino. Non mi meraviglia che sia tanto disorientato».

«Storica.

«Esatto».

«Che secolo è questo?»

«Ventitreesimo, sciocco. No, mi dispiace». Cirrus gli riprese la mano e ripartì al suo ritmo affrettato. «Non è giusto. Lei non lo sa al momento. Non si preoccupi. Resterò con lei e se non passerà entro un paio d’ore la porterò a un centro di cura. Senta, non ha un contatto di emergenza nei suoi impianti da qualche parte?»

«Impianti?»

«Sono stati approfonditi, glielo concedo. Dovrò scambiare qualche parola con la sua troupe quando la troviamo». Cirrus gli rivolse un altro snervante sorriso Kyle-esco prima di trascinarlo verso quella che sembrava essere una solida lastra di vetro.

Vikash si impuntò, tirandosi indietro fino a quando la mano e la spalla di Cirrus non furono passate attraverso la barriera. «Come…?» Ma come sapevi che era una porta sembrava una domanda troppo ridicola da fare, perciò rimase in silenzio, preferendo osservare. Se in qualche modo era davvero scivolato in avanti nel tempo, doveva apprendere in fretta, aggrapparsi alle piccole cose familiari, o impazzire.

La stanza in cui Cirrus lo tirò era fortemente illuminata, con colorati mosaici astratti che coprivano pareti incurvate in nicchie, grotte e caverne in miniatura. C’erano persone radunate attorno a sottili piedistalli con sopra quelli che sembravano essere fiori sgargianti con lunghi pistilli fallici. La maggioranza degli occupanti, a prescindere dall’età, indossavano poco o niente. Nessuno nascondeva i rotolini o gli afflosciamenti dovuti all’età, tutti erano del tutto a loro agio indipendentemente dal tipo di fisicità. Vikash si ritrovò acutamente in imbarazzo e incerto sul fatto che fosse o meno educato fissarli. Finì col guardarsi le scarpe.

Cirrus lo rimorchiò verso un piedistallo floreale non occupato. «Il prot saporito è il migliore qui, ma anche quello speziato è buono. O preferirebbe un veg?»

«Uh?»

«È piuttosto sicuro che stia avendo un crollo nutritivo». Cirrus gli diede una pacca sulla mano e osservò lo strano fiore color cannella e chartreuse davanti a loro. «Uno di ognuno, penso. Qual è il suo nome, bell’uomo?»

«Vikash».

«Carino. Molto insolito».

Con le dita sotto l’estremità di uno dei pistilli, che a Vikash sembravano tutti identici, Cirrus rimase immobile mentre l’apertura espelleva una pastosa sostanza arancione dando forma a un cubo perfetto. Il processo venne ripetuto con sei pistilli diversi: cubi rosso, verde, blu, viola, giallo fluorescente e a strisce arcobaleno si unirono a quello arancione. Cirrus posizionò ogni cubo su un vassoio rotondo di ceramica, poi offrì l’intera selezione a Vikash. Lui prese il vassoio, cercando di non restare a bocca aperta, anche se una cauta occhiata attorno a sé gli mostrò altre persone che mangiavano quelle cose. A quanto pareva, quello era cibo del ventitreesimo secolo.

Prese il cubo arancione, forse quello che si avvicinava di più al colore di cibo vero, e ne morse un angolo. La consistenza era strana, un incrocio tra una mousse e un macaron, ma c’erano accenni di mandorla e sesamo, cardamomo e zenzero. Il resto andò giù in due morsi ansiosi.

«Buono, eh? Meglio della roba che si ha da Serra». Cirrus si tolse la veste, rivelando un tanga rosso mela candita al di sotto. Petto piatto, longilineo, Vikash ancora non era sicuro.

«Mi dispiace. Non voglio essere maleducato, ma che pronomi usi?»

«Pronomi?» Cirrus ottenne un cubo blu e se lo mise in bocca intero.

«Lui? Lei?»

«Oh, ora sta solo lucidando i poligoni per divertimento».

Vikash mordicchiò il cubo blu, traendone accenni di frutta anche se non avrebbe saputo dire di che genere. «Non ho idea di che significhi».

Cirrus scosse la testa, la splendida fitta chioma di capelli che faceva da contrappunto alla sua incredulità. «Non possono aver… Hanno davvero bloccato tutto? Insomma, questo è portare il realismo nelle produzioni un po’ troppo oltre».

«Non so cosa mi sia successo. Per favore. Io penso… Non so niente».

«Spero che quelle droghe non abbiano effetti residui permanenti. Poverino». Cirrus ruotò un polso e premette appena sotto il palmo. «Ecco».

Un’immagine olografica apparve, caratteri gialli che fluttuavano sopra la pelle pallida. Vikash distinse il nome in cima, Cirrus Fairmount-Forty. La riga successiva avrebbe potuto essere un indirizzo, non poteva esserne certo, poi un altro nome, Agate Fishtown-Thirtynine. L’ultima riga era una designazione numerica di nessun aiuto, A-15-1. La sua espressione dovette aver mostrato la sua confusione, perché Cirrus spiegò le informazioni con attenzione: nome completo, abitazione, contatto di emergenza.

«E la mia definizione di genere sessuale». Cirrus sorrise, indicando quell’A-15-1. «Niente? Non significa niente per lei?»

«No. Mi dispiace».

Cirrus agitò una mano. «È solo interessante, le cose che una persona dà per scontate. La A è la mia designazione biocromosomica. Quindi io sono XY e ho solo organi riproduttivi maschili. B sarebbe XX con organi femminili. C è XXY con soli organi femminili e così via. Il quindici è il numero del mio neurogenere. Quindici su trentadue. Le mie scansioni cerebrali mostrano tratti sia maschili sia femminili, ma leggermente più maschili. Perciò preferisco lui, ma per le situazioni formali è vre, ovviamente».

«Ov… viamente». A Vikash girava la testa per il solo numero di generi presenti nel futuro. «L’uno? Alla fine?»

«Oh, quella è la designazione della sessualità. Io sono pan, quindi è un uno. Ma ho un tipo». Lo sguardo abbassato e il piccolo sorriso timido di Cirrus non potevano che essere un tentativo di flirtare. «Alto, magro e confuso».

Vikash riuscì a emettere una risatina strozzata, anche se l’umorismo non lo calmò come avrebbe fatto con Kyle. Vorrei che lui fosse qui. Se proprio dovevo avere un’allucinazione così, perché il mio cervello non poteva portare il vero Kyle al posto di questo doppione? Spero finisca presto, così potrò tornare a casa. Ma se non fosse stata un’allucinazione? E se Vance avesse avuto delle allucinazioni prima dell’effettivo trasporto temporale? E se fosse finito nel Giurassico? Fisicamente, adesso? Allora forse anche Vikash era stato trasportato, per mezzo di qualche strano meccanismo paranormale, passaggio, wormhole, portale. E se non avesse mai potuto tornare a casa?

«Sei diventato di nuovo velato», stava dicendo Cirrus, massaggiandogli la schiena. «Andrà tutto bene. Posso portarti a un centro di cura se non ti senti bene. O preferiresti andare a scopare? C’è una bottega del sesso due porte più avanti. Potrei aiutarti a rilassarti. Sono certificato per il sesso sia terapeutico che d’emergenza».

«No. Grazie. Dell’offerta». Ritrarsi dietro una maschera di educazione rendeva più facile rispondere, ma lo shock di una simile offerta disinvolta, a voce alta, in pubblico, lo fece sentire come un adolescente imbarazzato. Forse se avesse potuto stendersi da qualche parte e andare a dormire, avrebbe potuto risvegliarsi a casa. O forse doveva morire nell’allucinazione. Non lo aveva letto in una storia una volta? Che posso fare?

Doveva averlo sussurrato a voce, perché Cirrus gli mise le braccia attorno per abbracciarlo forte. «Povero dataset perduto. Finisci il pranzo e ti porterò alla Clinica Centrale. Diramerò un’allerta per vedere quale ditta di produzione ti ha messo fuori posto. Dovrebbero davvero sospendere la loro licenza storica».

Vikash non poté fare altro che annuire e fare come gli era stato detto. Se qualche incidente lo aveva davvero dislocato, era una non persona lì, senza alcuna voce e con conoscenza del mondo pari a quella di un bambino. Come avrebbe vissuto? Avrebbe voluto farlo? Due secoli nel futuro significavano che tutti quelli che conosceva erano morti da tempo: la sua famiglia, la sua gatta, Kyle.

Dovette deglutire il nodo che gli si era formato in gola. Che c’era di bello nel vedere il futuro se doveva farlo senza Kyle?

Gli Isopodi Del Tempo

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