Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V
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Botta Carlo. Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V

LIBRO DECIMOTTAVO

LIBRO DECIMONONO

LIBRO VIGESIMO

LIBRO VIGESIMOPRIMO

LIBRO VIGESIMOSECONDO

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S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia. Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello, che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.

In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri. Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico? Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di ogni fortuna, ma il pensiero comandatore, e piegatore di ogni volontà in un solo e generoso ed alto fine, in Buonaparte solo albergarsi: lui solo essere mezzo a moderare, e quasi un freno a tanti dispareri e sospetti: pruovassesi adunque quanto potesse una mente tanto potente, una felicità tanto costante: con Buonaparte Italico aver prosperato la repubblica, senza Buonaparte Italico essere caduta, con Buonaparte Italico ed Egiziaco avere a risorgere. A questo modo nasceva in Francia un desiderio accesissimo del capitano invitto. A lui si volgevano gli amatori della gloria militare, perchè il credevano capace d'instaurarla; i corrotti dall'appetito del comandare e del far sacco, perchè confidavano, che ai soliti imperj e depredazioni gli potesse ricondurre; i nemici della licenza, perchè sapevano ch'ei non l'amava, e che era uomo da poterla spegnere; gli odiatori della guerra civile, perchè speravano che l'avesse a terminare; i repubblicani ardenti, perchè non dubitavano che disfacesse il direttorio; i repubblicani quieti, perchè pensavano che avesse ad indurre un vivere libero senza eccesso; i dotti ed i letterati, perchè si promettevano di esser bene trattati da lui; i filosofi, perchè non ignoravano ch'ei sentiva molto liberamente nelle cose religiose, ed il riputavano amico della libertà civile; i fautori segreti dell'autorità regia, perchè avevano a loro medesimi persuaso, siccome le voci ne erano corse, e ne era stato qualche pratica, ch'egli fosse per consentire alla ritornata dei Borboni, e per restituire l'antica signoria loro in Francia. Ognuno come redentore il guardava, ognuno desiderava che tornasse a redimere la patria afflitta. Queste affezioni erano sorte nei popoli, parte per le disgrazie, parte per lo splendore delle vittorie, parte per le arti astutamente usate da lui e da' suoi fautori, talmente che ciascuno credeva, ch'ei fosse per fare ciò che ciascuno desiderava. Tanta è l'efficacia dei discorsi versipelli nelle discordie civili, perchè le sette o non comunicano, o non si prestano credenza fra di loro, e può chi sta sopra a tutte, lusingarle, aggirarle, ingannarle a suo grado, e sicuramente tutte. Se il savio fra i matti può tanto, è facile comprendere quanto possa l'astuto, che è un savio raddoppiato, e Buonaparte fu astutissimo. Insomma la materia era ben disposta a ricevere le Buonapartiane impronte. Adunque già fin da quando si erano udite le prime sciagure d'Italia, era sorto fra i desiderosi di cose nuove il pensiero di far tornare Buonaparte dall'Egitto, il qual pensiero si rinfrescò maggiormente, e si mandò ad effetto quando portò la fama, essere morto Joubert, combattendo nella battaglia di Novi. In questo disegno entrarono Sieyes quinqueviro, perchè vedeva, siccome uomo oculatissimo, che lo stato non poteva più durare con quella maniera di reggimento, Barras quinqueviro per la congiunzione antica, e forse per le speranze Borboniche, i generali superstiti dell'esercito Italico, eccettuato Massena, il quale non era punto affezionato a Buonaparte, ed i fratelli Giuseppe e Luciano Buonaparte che aspiravano al dominio. Molto accomodato a' suoi fini era il procedere di Luciano: affermava con gli amici, non potersi vivere con quella constituzione, doversene creare un'altra: col pubblico rammentava, e con vivi colori pingeva, prima le glorie, poi le sconfitte d'Italia; lamentava la Cisalpina oppressa dalla tirannide di Trouvé e di Rivaud; lodava e patrocinava l'Italia; predicava la libertà di Francia, conculcata, come diceva, da un direttorio prepotente ed arbitrario. Così, allettando, chiamava a se, ed al nome del suo fratello i gelosi della libertà e della gloria Francese, i desiderosi della libertà Italica, i cupidi delle spoglie Italiche. Viaggiavano le vele, erano quelle di un bastimento Greco, portatrici dei desiderj comuni verso l'Egitto, correndo la state del presente anno. L'avviso fu ed accetto, ed opportuno.

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A tutti questi maneggi gran momento arrecavano gli scienziati ed i letterati, siccome quelli che avevano molta autorità sui popoli, massimamente in Francia, dove erano uniti in certa spezie di congregazione, non per legge, ma per uso. Per la qual cosa il consolo gli accarezzava, gli arricchiva, gl'ingrandiva. Adulava l'instituto, e l'instituto lui. In questo non tutti andavano allo stesso modo. Alcuni s'accostavano a lui per gli allettamenti, altri per fin di bene, credendo, o che egli andasse per se, o che il potessero tirare colle persuasioni a volere la libertà. Piacemi fra questi nominare Cabanis, nel quale se fosse maggiore o il ben pensare, o il ben dire, o il bene scrivere, o il ben fare, io distinguere non saprei: certo tutte queste qualità erano in lui molto eminenti. Questo edifizio degli scienziati e dei letterati molto il puntellava, parendo a tutti, che a chi piacevano gli uomini civili, dovesse anche piacere la civiltà, e con lei la libertà, la quale sarebbe il compimento, e quasi il fiore della civiltà, se gli avari e gli ambiziosi non la guastassero.

Grande flagello, da che aveva principiato la rivoluzione, era sempre stata la guerra della Vendea, nella quale con infinito furore combattendo e repubblicani e regj, avevano sterminato popolazioni intiere, desolato paesi altre volte fioritissimi, commesso quello che solo commettono nelle civili discordie, e forse neanco in queste gli uomini arrabbiati gli uni contro gli altri. La forza non l'aveva potuta spegnere, perchè irritava, le tregue nemmeno, perchè mal fide: ormai si nominava guerra interminabile. S'accorgeva il consolo, quanta grazia acquisterebbe fra i popoli, se pacificasse quelle terre rosse di tanto sangue Francese: applicovvi l'animo, venne a capo dell'impresa. Fra il terrore del suo nome, l'apparato de' suoi soldati, le promesse di osservar la fede, le speranze segretamente date di voler procedere più oltre, vennero i capi della Vendea ad una onesta composizione: la concordia tornava sulle rive dell'insanguinato Ligeri; Parigi maravigliato vedeva i capi della Vendeese guerra. Ammiravano i popoli il consolo pacificatore, uguale nel far le guerre, uguale nel far le paci.

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