Читать книгу Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - Botta Carlo - Страница 1

LIBRO DECIMOTTAVO

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SOMMARIO

Accidenti fierissimi, e pieni di sangue nel regno di Napoli. Estremo coraggio delle due parti. Il cardinal Ruffo si fa padrone di Napoli. Uccisioni crudelissime che vi seguono. I castelli si arrendono al cardinale, ed agli alleati con patto, che siano salve le vite, e le sostanze dei repubblicani. Nelson sopraggiunto rompe la fede; supplizj lagrimevoli: si ristaura in tutto il regno l'autorità regia. Lo stato Romano viene in potestà dei confederati, eccettuata Ancona. Singolar risoluzione di Lahoz, generale Italiano, e sua morte. Bella difesa del generale Monnier in Ancona: finalmente si arrende con patti onorevoli. Tutta l'Italia a divozione dei confederati.

L'ordine della storia mi chiama adesso a cose maggiori: molto sangue civile versato dalle bajonette, molto dalle mannaje; Italiani straziati da forestieri, Italiani straziati da Italiani; pensieri smisurati da ambe le parti; la crudeltà sotto nome di giustizia, un coraggio estremo in casi estremi; il valore contaminato dalla perfidia; Russi, Tedeschi, Turchi, Inglesi, Napolitani, Romani, Toscani in un viluppo; aquile bianche con un becco, aquile nere con due becchi, leopardi con le rampe, la repubblicana donna, la Nostra Donna, la Ottomana luna, la croce dei cristiani sulle bandiere; l'inferiore Italia tutta sdegnata, furibonda, sconvolta, sanguinosa; discorsi civili, opere barbare, proteste d'umanità, età da Genserico; e chi vanta i tempi moderni, non so di qual razza sia. Ferdinando, Carolina, Acton eransi ritirati in Sicilia, lasciando Napoli in mano dei Francesi, che badavano ai fatti loro, ed ai Napolitani, amatori della libertà, che sognavano la repubblica. Ma non se ne stava il governo regio senza speranza, che le sue cose avessero presto a risorgere, perchè non ignorava la forte lega, che si era ordita in Europa contro la Francia, e sapeva, che i dominj dei Francesi nei paesi forestieri, massimamente in Italia, sono sempre brevi. Egli medesimo si era congiunto per trattati d'alleanza con le potenze, che facevano o volevano far la guerra ai Francesi. Già fin dall'anno ultimo aveva stipulato con l'Austria, che in caso di guerra e d'invasione di territorj, Napoli avesse ad ajutar l'imperatore con quarantamila soldati, l'Austria Napoli con ottantamila; e se quando il re corse contro i Francesi a Roma, l'imperatore non accorse in suo ajuto, ciò fu, perchè, essendo il re l'aggressore, non era caso d'invasione, e perciò non d'alleanza; nè l'Austria aveva preste le armi, come ella avrebbe desiderato. Aveva anche il re contratto amicizia con la Gran Brettagna per un trattato, pel quale il re Giorgio si obbligava a tenere una grossa armata nel Mediterraneo a tutela e conservazione degli stati Napolitani, e il re Ferdinando si dichiarava obbligato a tener aperti i porti alle navi Inglesi, a dare all'Inghilterra tre mila marinari, ed a congiungere con l'armata Britannica quattro navi di fila, quattro fregate, e quattro altri legni più sottili. Poi Nelson vittorioso molto confortava le Siciliane speranze. Medesimamente per un trattato concluso con l'imperatore Paolo, si era la Russia obbligata a mettere sulla campagna in ajuto del re nove battaglioni di fanti, e ducento Cosacchi, gli uni e gli altri da aumentarsi in caso di pericolo prossimo, ed il re si obbligava dal canto suo a sborsare a Paolo centottantamila rubli pel viaggio, e a dare il vivere, quando fossero giunti nel regno, a quei settentrionali soldati. Perchè poi quella repubblica Francese, che era per se stessa una tanto strana apparenza, avesse a produrre nel mondo accidenti ancor più strani, il re Ferdinando aveva fatto alleanza coi Turchi, con avergli il gran Signore promesso, che manderebbe ad ogni sua richiesta, e senza alcun suo aggravio diecimila Albanesi in suo ajuto. Quest'erano le promesse, e le capitolazioni dell'Europa civile, e dell'Europa barbara in favor di Ferdinando: gli scorticatori delle teste Francesi dovevano venir ad usare l'immanità loro sotto il dolce clima delle Napolitane contrade. A questo dava favore e facilità la conquista di Corfù fatta dai Russi e dai Turchi, quando appunto gli ajuti loro erano divenuti più necessarj al re Ferdinando. Era arrivato il tempo propizio a riconquistare il regno per la ritirata di Macdonald da Napoli. Non aveva la repubblica messo forti radici nel regno, sì pel duro dominio dei repubblicani di Francia, sì per le astrazioni di quelli di Napoli, e sì finalmente per gl'ingegni mobili dei Napolitani.

Sperava adunque Ferdinando negli ajuti degli alleati, e nelle inclinazioni dei popoli. Per conservarsi la grazia dei primi aveva in Sicilia tenuto Acton in istato, per muovere i secondi mandato Ruffo in Calabria. Già abbiamo narrato, come il cardinale, creato l'esercito cogli aderenti proprj, poi ingrossato coi nemici dei repubblicani, aveva mosso a romore, e ricondotto alla obbedienza le due Calabrie quasi tutte, la terra di Otranto, la terra di Bari, ed il contado di Molise. Gente feroce ogni giorno a gente feroce si accostava, i più per sete di vendetta, o per avidità di sacco, pochi per amore del nome regio. Uomini scelerati si segnavano con la croce di Cristo, in ogni luogo invece degli alberi della libertà, piantavano le croci, venerato e santo segno, posto in mezzo al sangue ed alle rapine. Erano accorsi con le bande loro al cardinale, Proni, Mammone, Sciarpa, frà Diavolo, Decesari, dei quali io non so dir altro, se non che deploro la causa regia di avergli avuti per difensori. Un'altra mossa popolare era sorta, che molto ajutava il cardinale, per instigazione del vescovo di Policastro, contro il governo repubblicano, la quale su le rive del Mediterraneo correndo, minacciava Salerno e Napoli. Anche il conte Ruggiero di Damas correva le campagne con uomini speditissimi, e sollevava a furore quelle popolazioni tanto facili ad esser concitate. Il cardinale, vedutosi forte, elevava l'animo a maggiori imprese. Perlochè, volendo torre alla capitale del regno quel pingue granajo della Puglia, e facilitare anche in quelle spiagge gli sbarchi dei Turchi e dei Russi, s'incamminava contro Altamura, perchè andando all'impresa di Puglia, non voleva lasciarsi dietro quel seggio di forti repubblicani. Fattosi sotto le mura, ed intimata la resa, gli fu risposto audacemente da quei di dentro, che niun'altra risposta volevano dare, se non di armi. Amavano veramente la repubblica, ed erano uomini di gran cuore: l'arrendersi poi non sarebbe stato meno pericoloso che il combattere, per la natura della gente sfrenata, con la quale avevano a fare. Diede il cardinale furiosamente la batterìa, e quantunque gli Altamurani virilmente si difendessero, aperta la breccia, vi entrarono i cardinalizj per estrema forza, e recarono in mano loro la terra. Qui le cose che successero, io che già tante orribili ne ho descritto, ripugno a raccontare. Solo dirò, che se Trani ed Andria furono sterminate dai repubblicani, con uguale immanità fu sterminata la miseranda città di Altamura. Usossi il ferro, usossi il fuoco, e chi più incrudeliva, era miglior tenuto, e chi mescolava gli scherni, le risa, gli orribili oltraggi contro la pudicizia alle preghiere supplichevoli, ed alle lamentazioni disperate dei tormentati o degli immolati, era da quegli uomini disumanati applaudito. Queste cose si facevano in cospetto di un cardinale di santa chiesa, o lui comandante, o lui tollerante, o lui contrastante, degno di eterno biasimo nei due primi casi per l'atto, degno ancora di riprensione nell'ultimo per non avere abborrito dal continuar a reggere gente, a cui era diletto lo stuprare, il rubare, il tormentare, l'uccidere. Da tante crudeltà volle Iddio, o piuttosto gli uomini sfrenati che in nome suo parlavano, che fosse accompagnata la restituzione della monarchìa e della religione in Napoli: quest'erano le opere dell'esercito, che col nome di cristiano s'intitolava. Ad uguale sterminio fu condotta la città di Gravina prossima ad Altamura, e posta sulla strada per la Puglia.

Conseguita la vittoria d'Altamura, andava il cardinale a porre le sue stanze ad Ariano nel principato ulteriore. Quivi le città principali di Puglia, spaventate dal caso d'Altamura e di Gravina, spente le insegne della repubblica, e seguitando scopertamente il nome del re, concorrevano coi deputati loro a giurare obbedienza. Vennervi i delegati di Lucera, Manfredonia, Andria, Bari, Ascoli, Venosa, Bitonto, Barletta, Trani: tutto lo stato della repubblica rovinava, e ritornavano con grandissimo impeto della fortuna a Ferdinando tutte le terre, e le fortezze più principali. Solo Foggia, capitale, assai fiorente, ricca, popolosa e piena di amatori dello stato democratico, ancora si teneva; ma l'essere tornata tutta la provincia a divozione del re, diè facilità ai Russi, Inglesi ed Ottomani di sbarcare, come fecero, sulle rive del golfo di Manfredonia nel novero di circa milaquattrocento condotti dal cavaliere Micheroux; marciarono contro Foggia, e la ridussero in poter loro. Correva un giorno di fiera, quando vi entrarono: i popoli spaventati al vedere quelle genti strane, che avevano nome di valorose e di feroci, sparsero tosto le sinistre novelle pei paesi circonvicini. Il terrore dominava, e se qualche luogo era rimasto fedele alla repubblica, questo concorreva prestamente con gli altri all'obbedienza verso il vincitore. Parte dei soldati forestieri si congiunsero col cardinale in Ariano, e parte andarono a trovare sulle rive del Mediterraneo il vescovo di Policastro, che aveva combattuto infelicemente contro i repubblicani. Venne con questa seconda schiera Micheroux medesimo, che valorosamente guerreggiando pel suo signore, aveva in odio la ferocia delle turbe indisciplinate, e si sforzava, ancorchè fosse indarno, di frenarle. I rinforzi condotti da Micheroux, rendettero superiori i regj; anzi tanto s'avvantaggiarono, che non ostante che i repubblicani con frequenti e forti battaglie cercassero di arrestargli, arrivarono, conquistati i passi importanti d'Eboli e di Campistrina, sotto le mura di Salerno, e se ne impadronirono. Già tutte le province avendo obbedito o per amore o per forza alla fortuna del vincitore, la guerra si avvicinava a Napoli. Il cardinale, per istringerla, era venuto, calandosi da Ariano, a porsi a Nola, mentre Micheroux si era alloggiato a Cardinale. Eransi anche i regj fatti padroni della Torre del Greco. Da un'altra parte Aversa, rivoltatasi dalla repubblica, aveva chiamato il nome del re. Questo accidente interrompeva le strade da Napoli a Capua, in cui Macdonald partendo, aveva lasciato un presidio di duemila soldati. La medesima ubbidienza seguitava l'Abruzzo, perchè Proni, sollevato prima l'Abruzzo superiore, dove ad eccezione di Pescara, in cui si era rinchiuso il conte Ettore di Ruvo, ogni cosa veniva in poter suo, scendeva a far levare l'inferiore. Veramente tanto vi fece con la forza e con le persuasioni, che l'autorità regia vi fu rinstaurata sino prossimamente a Gaeta, munita di un presidio Francese. Per tale guisa furono tagliate tutte le strade tra Napoli e Roma. In questo mentre comparivano le navi Inglesi in cospetto, e mostrarono ai repubblicani, che la strada del mare era loro interdetta come quella di terra, e che nissun'altra speranza rimaneva loro, se non quella di un disperato valore, poichè nella clemenza del vincitore non potevano in modo alcuno fidare. Avevano innanzi agli occhi il prospetto di Procida isola, nido allora d'immanità più orribili, che non furono infami le libidini, che Capri posta in faccia a lei vide ai tempi antichi. Dominava in Procida sotto l'obbedienza del conte di Turn, uno Speciale, uomo crudele, il quale quanti repubblicani gli erano mandati prigionieri dal continente, tanti tormentava con supplizj, ed il più sovente con la morte. S'aggiungeva a spavento dei repubblicani, che in Napoli si era ordita una congiura in favor del re da due fratelli Bacher, Tedeschi, che vi avevano aperto un traffico. Scoperti da una gentildonna, amatrice dello stato nuovo, per nome San Felice, furono carcerati. Trovaronsi in casa loro nappe rosse, e bandiere reali. I repubblicani entrarono in gran sospetto, perchè temevano che vi fosse maggior inclinazione, e che una parte potente macchinasse congiure.

In estremo tanto pericoloso, in cui non si trattava più di vincere o di perdere, ma di vivere o di morire, il governo della repubblica ed i repubblicani facevano ora più, ora meno di quanto i tempi richiedessero. Già aveva qualche tempo prima, come abbiamo narrato, il governo decretato, che non solamente fossero e s'intendessero aboliti i diritti dei feudi, ma che i baroni mostrassero a quale titolo possedessero i boschi e le bandite, e chi non potesse mostrarne, fosse spodestato, ed i beni si spartissero fra coloro, a danno dei quali i medesimi diritti fossero stati usati. Toglieva il diritto di mulenda, voleva che si vendessero i beni nazionali, rimedj insufficienti, perchè usati all'estremo, e perchè la ragione, e nemmeno l'utile possono prevalere contro il furore. I sospetti intanto, anche fra gli uomini della stessa parte, come avviene nelle disgrazie, davano il tracollo allo stato già cadente. Questi sospetti accennavano agli uomini stessi che entravano nel governo, perchè vi erano stati chiamati dai Francesi, parendo ai più ardenti repubblicani, che in chi era stato dipendente dai forestieri, non si potesse aver fede sufficiente in quegli estremi della Partenopea repubblica. Erano sorti in Napoli, come abbiam detto più sopra, parecchi ritrovi politici, dove, secondo il solito chi manifestava opinioni più estreme, era più applaudito, e miglior cittadino creduto. Tanto montò la cosa, e tanta fu la potenza che questi ritrovi si arrogarono, che uno di essi domandò al governo, che tutti coloro che erano stati nominati dai Francesi, cessassero dal magistrato, ed in vece loro si surrogassero buoni, leali e independenti Napolitani. Perchè poi non potesse venir fatto inganno, misero in campo anche questa, che un magistrato di censura si creasse, che avesse diritto e carico di scrutinare i membri del direttorio, e quei del corpo legislativo, e chi fosse stimato sospetto cassasse, e proponesse in luogo loro cittadini puri ed incorrotti. Accettò il governo oggimai servo la proposta, e per essa divenne ancor più servo. Così scioglievasi la società per la intemperanza, già prima che si disfacesse per la forza; fu creato il magistrato, un canonico Luparelli d'Adriano fatto suo capo. Questi creavano, quelli cacciavano, il governo era in mano loro. Instituissi intanto un tribunale, il cui ufficio fosse di giudicare il crimenlese, e di cui in nominato presidente Vincenzo Lupo. Entrarono con lui i repubblicani più vivi. Decretava il direttorio, che quando tirassero tre volte i cannoni dei castelli, chi a guardia nazionale, od a ritrovi politici non fosse ascritto incontanente si ritirasse alle sue case sotto pena di morte, e sotto la medesima pena serrasse le finestre; e chi nol facesse, e fosse trovato per Napoli dopo i tre tiri, quando non s'appartenesse a guardia nazionale, od a ritrovi politici, fosse disarmato, arrestato, ed incontanente, come nemico della patria, ammazzato. Ai tiri medesimi le guardie nazionali, o chi fosse addetto ai ritrovi, tostamente accorresse al quartier generale: i quinqueviri, i legislatori, i ministri andassero ai seggi loro, e chi nol facesse, fosse ammazzato. Queste cose si facevano con terrore infinito della città. Ma i repubblicani più vivi, e quelli che avevano in odio ed in sospetto ogni freno ed ogni governo, viemaggiormente si infierivano. Si era formato con consentimento del governo, nella casa dell'accademia dei nobili, un ritrovo, in cui convenivano repubblicani più moderati per discorrere fra di loro intorno alla salute della patria, e propria. Il loro fine principale, vedendo il precipizio delle cose, era di accordarsi, acciocchè nell'ultimo caso trovassero modo di salvar se, e quelli che sentivano con loro. I capi di quest'adunanza erano uomini assennati, e le loro intenzioni volte al bene. Ma vennero a congiungersi con loro, ed essi il consentirono per quell'intento di salvare quanti repubblicani potessero, gli altri ritrovi sparsi per la città, e composti di patriotti più ardenti e più immoderati. Ne nacque, che costoro acquistarono il predominio, e spinsero l'adunanza della casa dei nobili ad eccessi condannabili.

Sul bel principio mandarono dicendo al corpo legislativo, che Pignatelli di Monteleone, e Bruno di Foggia, entrambi di esso corpo, erano aristocrati, perchè avevano reso partito contro la legge dei feudi; perciò volevano, che, chiesta licenza, se n'andassero, e non guardassero indietro; quando no, gli avrebbero ammazzati. Deputati a portar quest'insolente imbasciata furono Luigi Serio, e Gaetano Rossi. Gli accompagnavano cinquecento arrabbiati con le coltella in mano, intuonando che venivano per ammazzar Pignatelli e Bruno, se colle buone non se n'andassero. Fuvvi dentro un gran contrasto, perchè chi voleva cedere, chi resistere, nè potendo accordarsi se ne volevano riparar alle case. Ma gli uomini con le coltella intimavano loro, badassero a far l'ufficio. Poi non contenti al Pignatelli e al Bruno, rintuonarono, che il Doria ministro di marina, come vile per avere domandato i passaporti, avesse congedo ancor esso; quando no, l'ammazzerebbero. Non vi era luogo ad elezione: e però i tre accusati presero congedo da loro medesimi. Altri magistrati accusavano, e quanti ne accusavano, tanti erano esclusi, l'adunanza dell'accademia dei nobili dominava: regnava un'orribile anarchìa. Poi per far vedere, che se atterrivano gli altri, non avevano paura essi, immaginarono un registro, dove tutti, come membri dell'adunanza, avessero a scrivere i nomi loro. Scrissergli in effetto. I più savi consentirono, perchè avendo i nomi di tutti, speravano di potergli avvertire, quando fosse venuta la necessità del doversi salvare, per non cadere nelle mani dei regj. Questo registro divenne poscia, quando i regj si fecero padroni di Napoli, un libro di morte, perchè, trovato, furono giudicati senza remissione tutti coloro, che l'avevano segnato coi loro nomi.

In questo mentre niuna cosa lasciavano intentata per infiammare il popolo. Tutti che portavano il nome di Ferdinando, si sbattezzavano con dire, che non volevano avere in se cosa, che gli assomigliasse ad un tiranno. Cassio, Bruto, Timoleone, Armodio, Catone, ed altri simili nomi andavano per le bocche di tutti. Chi invocava Masaniello, chi il gigante di palazzo: il Sebeto negl'innumerevoli versi parlava, e prediceva gran destino alla Partenopea repubblica. Le tragedie di Alfieri, e le più forti, si recitavano in presenza di un concorso infinito di uditori, e tratto tratto ecco alzarsi un predicatore: quest'era spesso una persona civile, e spesso ancora un idiota, o un prete, o un frate, o un laico. Badate, diceva costui, rivoltandosegli in un momento tutte le genti intente ad udirlo, badate, diceva, o cittadini, che questo caso è caso nostro, o fosse di Bruto, o fosse di Virginia, o fosse di Timoleone. Tutti applaudivano; poi si continuava a recitar la tragedia. Ed ecco un altro predicatore sorgere, e dire, che bisognava ammazzar tutti i tiranni: le Napolitane grida andavano al cielo: così tra il predicare e il recitare si arrivava allo spegnere dei lumi. Fuori poi i discorsi erano ancor più strani, che nel teatro: le novelle che si spargevano, sentivano anch'esse dello stravagante. Gli accidenti favorevoli si esageravano, gli avversi si tacevano; la repubblica era giunta al suo fine, e molti predicavano, ed alcuni credevano, che fosse per essere eterna. Eleonora Fonseca scriveva un monitore, giornale, in cui pubblicava continuamente vittorie di repubblicani, sconfitte di regj, arrivi di flotte soccorritrici di Francia. In piazza di mercato una società, che filantropica si chiamava, aveva a cielo aperto rizzato una scuola per ammaestrar lazzaroni, e per far loro capire, che dolce e bella cosa fosse la repubblica. Per riuscir meglio nell'intento, si mettevano alla medesima condizione con loro, ed ora questa, ed ora a quella taverna andando, se ne stavano con quegl'incolti plebei a piè pari mangiando e bevendo. Usavano i filantropi anche la religione, predicando continuamente, che il vescovo d'Imola Chiaramonti aveva con solenne lettera pastorale inculcato, che le massime democratiche erano massime del Vangelo, e che per esser buoni democrati bastava esser buoni cristiani. Per questo avevano fatto opera, che un Michelagnolo Ciccone, frate, trasportasse il Vangelo in volgar Napolitano, e le massime democratiche principalmente inculcasse. Esortaronsi i parochi ed i preti a raccomandare queste massime dai pulpiti, e il fecero. Un Benoni, frate francescano, uomo nè senza dottrina nè senza eloquenza, in mezzo alla piazza reale, ed a piè dell'albero della libertà, con un crocifisso in mano predicava ogni giorno, facendo continue e vivissime invettive contro il re, contro la famiglia reale, contro la monarchìa. Chiamava ne' suoi discorsi Gesù Cristo, e i Santi; affermava con parole efficacissime che tutti furono democrati, che sempre avevano predicato l'uguaglianza e la fratellevole carità: che sull'uguaglianza e sulla carità fraterna erano fondati tutti gli ordini monastici, massimamente quello del serafico padre san Francesco: e quivi infiammandosi dava col crocifisso la benedizione ai popoli. L'arcivescovo di Napoli ordinava preci per la repubblica; decretava, che nissuno, che avesse macchinato la rovina dello stato repubblicano, potesse ottener l'assoluzione, se non in articolo di morte; chiamava nelle sue pastorali Ruffo scellerato, impostore, nemico di Dio e degli uomini.

In mezzo a tutto questo, essendo giunto il tempo solito del mese di maggio, si fece con molta pompa la processione del Santo. I democrati mandarono dicendo ai custodi, pregassero molto bene, perchè san Gennaro facesse il miracolo, ed essi molto bene pregarono, ed il sangue in men che non fa due minuti, si squagliò: gridarono i lazzaroni, san Gennaro esser fatto democratico.

Ma i rimedi finora raccontati riuscivano insufficienti senza le buone armi. In questo i repubblicani avevano molta fede in Mantoné, ministro della guerra, uomo di animo fortissimo, repubblicano gagliardo, e che appunto pel suo coraggio smisurato errò; egli era per mandato del governo ordinator supremo di quanto s'appartenesse all'armi, ed alla difesa della repubblica. Chiamò a se gli ufficiali e soldati, che erano stati ai servigi del re, offerendo loro vitto e soldo, finchè fossero descritti in corpi regolari. Ma non potendo l'erario bastare a tanto dispendio, oltre le tasse, che per quanto si poteva senza mal umore dei popoli si riscuotevano, poneva mano a rimedi straordinarj. A persuasione di lui, e per ordine del governo s'invitarono gli amatori dello stato nuovo ad offerir doni in oro, od argento coniato o vergato, in sovvenimento della repubblica: fecersi capi di quest'impresa due gentildonne molto ragguardevoli, tanto per la virtù dell'animo, quanto per le forme del corpo; andavano per le case, raccomandavano la repubblica. Di queste pietose donne non tace il nome la storia; furono le duchesse di Cassano, e di Popoli. Raccolsero tanto denaro, che bastò per ordinar tre legioni di veterani; si aggiunsero per maggior sicurezza alcuni nuovi soldati fra coloro, che amavano la repubblica. Dieronsi la prima a reggersi a Schipani, la seconda ad Ettore di Ruvo, la terza ad un Belpuzzi, che aveva veduto le guerre di Buonaparte. Marciavano Schipani contro Sciarpa, Ettore contro Proni, Belpuzzi contro Ruffo. Per sicurezza poi di Napoli, Mantoné ordinava meglio la guardia urbana, e tentava di accalorarla in favore della repubblica. Le diede armi e bandiere con pompa solenne, e per generale primo Bassetta, per secondo Gennaro Serra, per terzo Francesco Grimaldi e Antonio Pineda, uomini valorosi, e nei quali con tutto l'animo confidava. Per avvezzarla agli usi di guerra, la faceva armeggiare ogni giorno. Commetteva alla fede del generale Federici la custodia di Napoli, a Massa Castelnuovo, al principe di Santa Severina castel dell'Uovo. Buoni ordinamenti erano questi, ma la guerra più forte di loro; nè Mantoné o che non sel credesse egli pel gran coraggio che aveva, o che s'infingesse per non ispaventare, non aveva fatto provvedimenti più gagliardi. E siccome era sempre riuscito vincitore contro i regj, che si erano mossi contro la repubblica prima che il cardinale si muovesse, aveva questo moto il cardinale in piccolo concetto, e non pensava, che fosse per avere un fine diverso da quello, che i primi avevano avuto. Per la qual cosa si persuadeva, che le legioni create fossero bastanti a frenare i regj nelle provincie, e ritornarle sotto l'obbedienza del governo popolare. Ma ebbe la guerra assai diverso successo; perchè Belpuzzi, conoscendo la impossibilità di far fronte ai regj, che d'ogn'intorno uscendo dai boschi, e calando dalle montagne, l'infestavano, abbandonata l'impresa, se n'era ritornato a Napoli. Ferocemente aveva combattuto negli Abruzzi Ettore di Ruvo, ma assalito ed attorniato da un numero di nemici molto superiore, fu costretto a cercar ricovero contro il furore dei sollevati dentro le mura di Pescara. Schipani rotto da Sciarpa, per ultimo rifugio si era ritirato a Napoli. Così Ruffo vincitore in ogni parte, inondando con le sue genti tutto il paese all'intorno, si era avvicinato alla capitale. Vide allora Mantoné, che i moti del cardinale erano per risolversi non in romori, ma in effetti, che la fortuna minacciava, e che i rimedi ordinari più non bastavano. Preparavasi ad uscir egli stesso contro il nemico con sei mila soldati; creò primieramente per custodia di Napoli una legione di fuorusciti Calabresi, i quali, perchè parteggiavano per la repubblica, cacciati a furia dalle case loro per le armi di Ruffo, si erano riparati nella capitale, uomini fieri, bellicosi, arrabbiati per le ingiurie recenti. I loro compatriotti, che militavano col cardinale, si mostravano disposti a far cose enormi pel re, ma essi erano risoluti a farne per la repubblica delle ugualmente enormi. Erano nel novero di due mila: e perchè ognuno fosse chiaro di quanto valevano, e di quanto si proponevano, pubblicarono, fra le altre, queste parole: «Noi vogliamo sangue; noi cerchiam morte; darla, o riceverla è per noi tuttuno: solo vogliamo, che la patria sia libera, e noi vendicati». Rispondeva loro Mantoné: «Compiacersi nel vedere quei moti generosi degli animi loro, nè poter perire la repubblica, che eroi, come eglino, aveva per difensori».

Erano preti, laici, nobili, plebei, poveri per fortuna, poveri per esiglio; nè volevano dare od avere perdono. Mantoné diè loro in guardia il quartiere di Castel nuovo. Poi detto al principe di Roccaromana, che si dimostrava molto dedito al nuovo governo, creasse un reggimento di cavalli nei contorni di Napoli, egli il faceva.

Partiva Mantoné da Napoli, non senza esimio apparato per impressionar quel popolo, di cui l'immaginare è tanto forte. Era la contrada di Toledo, per dove le partenti truppe passavano, tutta parata in addobbo: la guardia nazionale a piedi schieratasi in fila, quella a cavallo sulla piazza, i regolari rimpetto a Castel nuovo. Seguitavano i prigionieri fatti nella conquista di Castellamare, che preso ai tempi precedenti per una fazione improvvisa dai regj, e dagl'Inglesi, era stato con mirabile prontezza ripreso da Macdonald. Si vedevano le insegne polverose e lacere dagli stromenti di guerra, che ai dì più felici per loro avevano i cattivi portate: suonavano a festa le trombe, suonavano i tamburi. I prigioni con le mani legate al dorso, aspettavano pallidi e tremanti la morte. Le bandiere si gettavano a piè dell'albero della libertà: i prigioni condotti a quel tronco, si apprestavano all'ultimo momento; la lugubre scena muoveva i cuori a compassione; aspettavasi ognuno vedere balzar a terra le teste tronche, quand'ecco un gridarsi grazia da ogni lato: soldati e cittadini ugualmente nel pietoso grido si accendevano. Gli scampati da morte certa, a vita certa risorti, ringraziavano con atti di gratitudine le accolte turbe, baciando l'albero, e viva la libertà gridando. Incontanente da compassionevoli e pie donne fu fatta questua, acciocchè coloro, cui la benignità dei repubblicani aveva salvato, potessero ritornare, come loro fosse a grado, alle patrie loro. L'atto umano pareva promettere dolce destino alla repubblica, perchè la pietà abbellisce i pensieri dell'uomo, e dà speranza, perchè sa di meritar premio. Restava, che, com'era il disegno, si ardessero le insegne regie, ma i democrati impazienti le laceravano a gara, e diedero i pezzi in mano a ciascun soldato: i soldati gli appendevano alle punte delle bajonette, gridando tutto all'intorno in quel mentre infinite voci, muojano i tiranni, viva la repubblica!

Mantoné, condotte le repubblicane squadre alla campagna, sbaragliava e fugava facilmente i corridori dell'esercito regio; ma quando più oltre si fu spinto, si accorse, che per lui, nè pe' suoi altro scampo non restava, se non quello di tornarsene prestamente là, dond'era venuto. Il suo ritorno in Napoli costernava le genti: per ultima speranza aspettavano quello che fosse per partorire il valore di Schipani; ma ebbero tosto le novelle, ch'egli, che per aver udito la ritirata di Mantoné, si era condotto alla torre dell'Annunziata, combattuto quivi aspramente dai Russi, dai regj, e da una parte de' suoi soldati medesimi mutatisi a favore del re, era stato preso, dopo di aver veduto lo sterminio quasi intiero de' suoi compagni. Sentissi a questo momento ancora, che Roccaromana aveva bene levato ed ordinato, siccome dal ministro ne aveva avuto il carico, il reggimento di cavalli, ma che invece di farlo correre in ajuto dei repubblicani, l'aveva condotto al cardinale, dal quale aveva avuto le grate accoglienze. Il precipizio era evidente: tolta tutta la campagna, ed insultando già da ogni parte le genti del cardinale vincitore, tutta la difesa della repubblica, e di tanti uomini che avevano seguitato la sua fortuna, era ridotta nella sola città di Napoli, non sicura, nè per concordia di cittadini, nè per nervo di soldati. Non si trattava più di vincere, ma solo di conseguir patti, onde, sfuggita la morte, si acquistasse facoltà di andar esulando per terre inconsuete e lontane. Decretava il direttorio, essere la patria in pericolo. Ritiravasi col corpo legislativo ai castelli Nuovo, e dell'Uovo: quel di Sant'Elmo più forte, e che dominava Napoli, era in mano del presidio Francese lasciatovi da Macdonald: un terrore senza pari occupava le menti. La legione Calabra sola non si spaventava, perchè dal vivere al morire, purchè si vendicasse, non faceva differenza. Parte stanziava in Napoli, parte presidiava il castello di Viviena, per cui Ruffo doveva passare per venir a dar l'assalto alla città dal lato del ponte della Maddalena. Si risolvevano i repubblicani a morire da uomini forti: Spartani volevano essere, e Spartani furono: ma gli Spartani avevano uno stato ed una patria, essi non avevano più nè l'una ne l'altra. Perciò perirono senza frutto, in ciò molto più da ammirarsi, che gli Spartani non furono, perchè erano sicuri, che quell'invitta virtù non solamente non sarebbe proseguita con laude nel paese loro, ma ancora vi avrebbe incontrato il biasimo. Udissi tutt'ad un tratto nella spaventata Napoli un romore, come di tuono; tremò la terra; pure il Vesuvio non buttava: veniva dal forte di Viviena. Lo aveva il cardinale con tutte le sue forze assaltato: vi si difenderono i Calabresi, non come uomini, ma come lioni. Pure i regj, combattendolo da tutte parti con le artiglierìe, l'avevano smantellato, e non una, ma più brecce, e piuttosto una ruina di tutte le mura apriva l'adito ai vincitori. Entraronvi a forza ed a furia: gente disperata ammazzava gente disperata, nè solo i vinti perivano. Nissuno s'arrendè, tutti furono morti: date, a chi gli uccideva, innumerevoli morti. Restavano una mano di pochi: la rabbia gli trasportava; feriti ferivano, minacciati ferivano, ammoniti dello arrendersi ferivano. Pure l'estrema ora giungeva. Anteponendo la morte di soldato alla morte di reo, nè sofferendo loro l'animo di venir in forza di coloro, che con tanta rabbia abborrivano, un Antonio Toscano, che gli comandava, e che già stava con mal di morte per le ferite e pel sangue sparso, strascinossi a stento, e carpone al magazzino delle polveri, e con uno stoppaccio acceso postovi fuoco, mandò vincitori, vinti, e rovinate mura all'aria: atto veramente mirabile, e degno d'eterna memoria nei secoli. Tutti perirono; questa fu la cagione del tuono, e dello spavento di Napoli. Ruffo, espeditosi dall'intoppo del forte, passava, e si accingeva a dar l'assalto alla capitale da tre bande, al ponte della Maddalena, al canto di Forìa, ed a Capodimonte; ma il principale sforzo era alla Maddalena. I repubblicani carcerarono come ostaggi alcuni sospetti, e condussero in castel Nuovo, ed in Castel dell'Uovo un fratello del cardinale, ed i parenti degli ufficiali dell'esercito regio. Passarono per le armi i fratelli Bacher con quattro lazzaroni mescolati in congiure. Poi partiti in tre schiere se ne givano contro Ruffo. Writz gli conduceva alla Maddalena, Bassetta a Forìa, Serra a Capodimonte. Caracciolo con le navi sottili accostatosi al lido, batteva di fianco le genti del re. Animavansi con vicendevoli conforti l'un l'altro: quella essere l'ultima fatica loro, o morte, o vittoria; dover lasciare un testimonio al mondo di quanto possa la virtù, che vuole la libertà; vita di servi non esser vita; non esser morte lo scampare dalla servitù; e se dai fati contrarj era fisso, che l'opera loro non potesse più giovare alla libertà ed alla patria, gioverebbe almeno la memoria. Con queste voci diedero dentro ai regj: sorse una furiosissima zuffa alla Maddalena: repubblicani e regj eleggevano piuttosto il morire, che il cedere. Dalla parte dei primi Luigi Serio, vecchio di sessant'anni, combattendo nella prima fronte con un suo nipote, e con una gioventù indomita, che animava con l'esempio e coi conforti, fu morto, e con lui il nipote ed i giovani. Writz, Svizzero, valorosamente travagliandosi con tutte le sue forze in pro dell'adottiva patria, ora qual generale comandando, ed ora qual soldato combattendo, faceva dubbia la vittoria. Finalmente ferito di piaga mortale, e portato in castel Nuovo, quivi mandava fuori l'ultimo spirito.

I repubblicani, massimamente quei Calabresi inferociti, non punto sbigottitisi alla morte del loro prode e fedele capitano, continuavano a menar le mani, ed a tener lontani dalle dilette mura le genti regie. Dal canto loro Bassetta e Serra ottimamente facevano il debito loro. Non inclinava ancora la sorte da alcun lato, perchè prevalevano i repubblicani di rabbia, ed avevano il vantaggio del luogo: i regj sopravanzavano di numero, e di truppe regolari. Mentre così stava dubbia la lance, ecco sorgere grida di viva il re alle spalle dei democrati. Erano una moltitudine di lazzaroni, che stimolati dai partigiani del governo regio, si levarono a romore. Rivoltaronsi addosso a loro i repubblicani, e gli ammazzarono tutti. Ma Ruffo, usando l'occasione che gli si era aperta, perchè i nemici assaliti alle terga avevano rimesso dalle difese, entrava per viva forza, ed inondava la città, solo a lui contrastando quei Calabresi indomabili. Quivi il raccontare le cose che seguirono, parrà certamente impossibile, se si farà a considerare quella rabbia immensa, le ingiurie fatte, il sangue sparso, il sangue caldo, la natura estrema di quei popoli, l'immanità della più parte dei combattenti, da nissuna civiltà temperata. Primieramente, il castello del Carmine, che domandava i patti, fu preso per assalto, e tutto il presidio senza pietà passato a fil di spada. Carnificina più grande e più orribile si faceva per le contrade. Vi si uccidevano gli uomini a caccia per diletto, come se fossero stati fiere; nè età, nè sesso, nè condizione, nè grado si risparmiavano. Uccidevansi i repubblicani per odio pubblico, i non repubblicani per odio privato; nè quei carnefici si contentavano di uccidere, che ancora volevano tormentare. Varj erano i generi delle morti: il ricco ammazzato sugli atrj de' suoi palazzi, il povero sulle scalee, e sulle porte delle chiese: chi era lacerato, vivente ancora, a brani a brani, chi strangolato, chi arso. Ardevano qua e là orribili roghi, e gli uomini gettati a furia dentro, vi si abbruciavano. Godevano i barbari, a guisa di veri cannibali, e facevano le loro tresche, le loro grida, le loro danze festevoli intorno. Un prete venuto con Ruffo, si vantava di aver mangiato carni di repubblicani abbrustolite. Si spargeva voce ad arte da coloro che si dilettavano degli oltraggi e del sangue, che i repubblicani avevano sui corpi loro stampata l'immagine della libertà. Per questo, prima di uccidergli, i meno impetuosi all'ammazzare, gli spogliavano, e così spogliati in mezzo agl'improperj ed alle battiture gli conducevano per la città. Donne virtuose e pudiche, e pel grado loro ragguardevolissime, furono barbaramente e fra gli scherni di una ignobil plebe condotte a questo supplizio, in cui il manco era il dolore del corpo. Vedeva Ruffo queste cose, e non volle o non potè frenarle. Cercavano e chi era reo, e chi era innocente di repubblica, scampo a furore tanto barbaro. Chi fuggiva in abito di donna, e questo ancora nol salvava; chi fuggiva sotto cenci da lazzarone, e non si salvava. Ma quelli, a cui la fortuna aveva aperto uno scampo per le contrade, gliel toglieva per le case; conciossiachè i padroni ne gli cacciavano, sapendo, che se gli ricettassero, le case loro sarebbero saccheggiate ed incese, ed essi uccisi. Vidersi fratelli chiuder le porte ai fratelli, spose a sposi, padri a figliuoli. Fuvvi un padre, il quale per dimostrare il suo amore pel re, scoperse, e diè in mano il proprio figliuolo alla furibonda plebe, comperando in tal modo la salute propria col sangue della sua creatura. Risospinti dalle case i miseri perseguitati si nascondevano nelle fogne, donde di notte tempo e di soppiatto uscivano, cacciati dalla fame e dalla puzza. Se ne accorsero i lazzaroni; si mettevano in agguato alle bocche, come se aspettassero fiere al varco, e quanti uscivano, tanti ammazzavano. Felice chi moriva senza tormenti. Come se la ferocia di quella plebe senza freno avesse bisogno di maggiore stimolo, le si fe' credere, che i repubblicani avessero risoluto d'impiccare, se avessero potuto, la sera del giorno precedente tutti i lazzaroni. Fu olio a fiamma. Cercarono diligentemente in tutte le case; e sfortunata quella, in cui fosse rinvenuta o corda, o spago, o simili: dicevano, essere i capestri apprestati; onde senz'altro dire tormentavano, saccheggiavano, uccidevano. Un Cristoforo macellaro, che per uso del suo mestiere aveva corde in casa, fu straziato con orribili tormenti, poi la sua testa tronca portata a dileggio di popolo sopra la punta di una bajonetta per la città: l'avevano cinta tutta di corde, e gridavano, esser miracolo di sant'Antonio (correva appunto la festa di questo santo) perchè si era dato voce, che il santo fosse stato quello, che avesse rivelato a scampo dei lazzaroni il tradimento dei capestri. Dichiararono sant'Antonio protettore di Napoli, e degradarono san Gennaro come giacobino, e protettor di giacobini. Pensi il lettore quale immagine di città fosse quella, in cui una plebe barbara correva per le contrade e per le case, mescolando gli scherni alle crudeltà, ed in cui si ardevano uomini vivi, e le carni loro si mangiavano. Qualche consolazione arreca all'animo sconfortato dal vedermi un volto simile a quello di queste fiere, il pensare che atti generosi sorsero in mezzo a tale desolazione; perchè non mancarono padroni di casa che a pericolo degli averi e delle persone loro scamparono da morte le vittime destinate. Durò lo stato orribile due giorni. Infine si risolvè il cardinale, o perchè la umanità finalmente il movesse, o perchè volesse attendere all'assedio del castelli, fazione impossibile a tentarsi in tanto scompiglio, a frenare il furore dei suoi; Napoli atterrita per le morti, diventò lagrimosa pei morti.

Restavano ad espugnarsi i castelli, a questa espugnazione applicò l'animo il cardinale, piantò una batterìa nella contrada di Toledo per battere i repubblicani, che avevano un alloggiamento a San Ferdinando, una all'Immacolata per battere castel Nuovo, ed una terza alla punta di Posilippo per battere quel dell'Uovo, che sebbene sia poco altro che una vecchia casa a guisa di fortezza, è di gran momento pel suo sito; perciocchè chi ne è padrone può battere con vantaggio, ed impadronirsi di castel Nuovo. Veduto il pericolo, i repubblicani che erano dentro a castel dell'Uovo si accordavano con quelli di castel Nuovo, e di Sant'Elmo per fare tutti uniti una fazione notturna contro la batterìa di Posilippo. Accozzavansi le due colonne uscite da castel Nuovo e da castel dell'Uovo, ma quando giunsero alla strada che salendo mette a Sant'Elmo, scambiarono in mezzo all'oscurità della notte per nemici quella dei loro compagni, che scendeva della fortezza. Si diè mano da ambe le parti al trarre, furonvi parecchi morti di qualità dalle due bande: ciò fu cagione di molto spavento. Finalmente riconosciutisi gli amici con gli amici, e riunitisi, e ripreso animo, se ne andarono con incredibile audacia alla fazione. Tanto fu l'ardire e la prestezza loro, che uccise le guardie, e sopraggiungendo improvvisi alla batterìa, la presero, arsero i carretti, chiodarono i cannoni, e tornarono sani e salvi ad incastellarsi. Le truppe di Ruffo sorprese, e spaventate a sì inopinato accidente, si davano alla fuga; già il cardinale aveva messo all'ordine i carri, e la sua carrozza stessa per andarsene. Ma accortosi della pochezza del nemico, e che i repubblicani già si erano riparati ai castelli, se ne rimase, continuando nell'opera dell'espugnazione. Dalla parte loro i repubblicani conobbero, che stante il numero soprabbondante dei nemici che gli combattevano, e le popolazioni contrarie, niuna speranza rimaneva loro della vittoria. Perciò consultarono fra di loro, se dovessero tentar la fuga con aprirsi con le armi in mano il varco fra i nemici. Un Renzi, vecchio ufficiale di molto valore, e il principe de Gennaro altro ufficiale di gran cuore, che s'apparteneva ancor esso alla truppa assoldata, opinava pel tentativo. Una contraria sentenza manifestarono altri, o meno confidenti nella impresa loro, o più nella clemenza del vincitore. Con questi assentiva massimamente Ignazio Ciaja, che solito ad abbellire colla innocente e placida fantasia tutte le umane cose, abbelliva ancora quell'estrema sventura. A costoro non sofferiva l'animo il lasciar fra le mani di un nemico crudele i vecchi, le donne, ed i fanciulli, che avevano in sì lagrimevol caso seguitato la fortuna loro. Prevalse la opinione di questi ultimi, nè si fece più motivo alcuno per iscampare: solo attesero, il meglio che poterono, alla difesa dei castelli, ed a star pazienti ad aspettare che cosa portassero i fati a salute od a rovina loro.

La fazione della punta di Posilippo, la ferocia dei repubblicani Calabresi, l'atto disperato del comandante di Viviena, ed il coraggio smisurato dimostrato in tutti i fatti dei democrati avevano dato molto a pensare a Ruffo: si era persuaso, che senza molto sangue, e forse senza lo sterminio di tutta la città non avrebbe potuto riuscir a fine della sua impresa. Il castel Sant'Elmo avrebbe potuto, dominando Napoli, ruinarlo da capo in fondo. Questo castello era per verità in mano dei Francesi, e particolarmente del comandante Mejean, col quale il cardinale aveva avuto qualche pratica, e sopra cui se ne viveva con molta sicurtà. Ma vi erano anche non pochi Napolitani, amatori della repubblica, i quali, uomini disperati essendo, ed in caso disperato ritrovandosi, potevano facilmente fare qualche risoluzione molto pregiudiziale a Mejean medesimo, ed alla città. Oltre a ciò avevano i repubblicani in mano loro nei castelli i prossimi congiunti del cardinale, nè poteva restar dubbio, stante la rabbia loro, e le mortali ingiurie corse fra le due parti, che nell'ultimo furore non gl'immolassero, ove l'estremo dei tempi fosse arrivato. Finalmente consideravano gli alleati, massimamente gl'Inglesi, che cooperavano alla conquista di Napoli col cardinale, che si erano ricevute novelle dell'essere uscita al mare la flotta di Brest, e comparsa allo stretto di Gibilterra, donde le era facile navigare nelle acque di Napoli, e condurre a mal partito le navi Inglesi, che stanziavano all'isola di Procida, e nel mare vicino. Considerate, e maturamente ponderate tutte queste cose, stimando, che non si convenisse mettere i repubblicani nell'ultima disperazione, si deliberarono gli alleati ad offerir loro patti, perchè i castelli e la città si conservassero salvi, e fosse rimosso il pericolo, che sovrastava al navilio d'Inghilterra. Il cardinale per mezzo del comandante di Sant'Elmo mandò dicendo ai repubblicani, che se volessero patteggiare, vi si sarebbe volentieri risoluto. Rappresentò loro Mejean quello, che era vero, cioè che oramai ogni difesa era inutile, e che migliore e più savio partito era il serbar la vita a tempi migliori per la repubblica, che il perire senza frutto per lei: accettassero i patti, esortava, che loro si venivano offerendo. I repubblicani, consultato fra di loro, inclinarono l'animo al partito più ragionevole, e risolvendosi al trattare, proposero in un modello scritto le condizioni per mezzo delle quali promettevano di lasciare castel Nuovo, e castel dell'Uovo, non potendo stipulare per Sant'Elmo, come in potestà di Francia. Parvero sulle prime al cardinale le condizioni superbe, penava al ratificarle. Infine strignendo il tempo, temendo vieppiù della vita de' suoi congiunti, e moltiplicando gli avvisi dello avvicinarsi della flotta Francese, con pari consentimento degli alleati si risolvette ad accettarle. Furono quest'esse: fossero Castelnuovo, e castel dell'Uovo dati in potere dei comandanti del re delle due Sicilie, e dei suoi alleati il re d'Inghilterra, l'imperatore di tutte le Russie, e la Porta Ottomana, e così parimente ad essi fossero consegnate le munizioni da guerra e da bocca con le artiglierìe, ed altri arnesi, che si trovassero nei forti; uscisse il presidio onorevolmente a modo di guerra; le persone e le proprietà, sì mobili che stabili, di ognuno che si appartenesse ai due presidj, si serbassero salve ed inviolate; potessero le persone medesime ad elezione loro imbarcarsi sopra bastimenti di tregua, che loro sarebbero forniti, per essere trasportate a Tolone, o potessero ancora rimanersi in Napoli, dove nè esse nè le famiglie loro potessero a modo niuno essere molestate; le medesime condizioni fossero, e s'intendessero concedute a tutti coloro fra i repubblicani che nelle battaglie succedute fra loro, e le truppe del re, o de' suoi alleati fossero stati fatti prigionieri; l'arcivescovo di Salerno, i cavalieri Micheroux e Dillon, ed il vescovo d'Avellino ditenuti nei castelli, si consegnassero al comandante di Sant'Elmo, e vi restassero come ostaggi, insino a tanto che si avessero le novelle certe dell'essere i repubblicani arrivati a Tolone; tutti gli altri ostaggi o prigioni per ragion di stato, si rimettessero in libertà, tosto che la capitolazione fosse sottoscritta; non isgombrassero i repubblicani dai castelli, se non quando ogni cosa fosse presta all'imbarcargli. Fu la capitolazione approvata, e sottoscritta dal cardinal Ruffo in qualità di vicario generale del regno, da un Kerandy per l'imperatore di tutte le Russie, da un Bonieu per la Porta Ottomana, e da un Foote pel re d'Inghilterra. Non s'indugiò a dar mano all'esecuzione dei patti. Da una parte gli ostaggi nominati dai repubblicani si condussero in Sant'Elmo, dall'altra entrarono i regj nei due castelli. Il cardinale, a nome del re, e come vicario generale del regno di qua dal Faro, pubblicò per tutto il reame un editto, per cui perdonava ogni colpa e pena ai repubblicani, promettendo piena ed intiera salute a tutti coloro che restassero, e facoltà d'imbarcarsi per Marsiglia a tutti quelli che amassero meglio, lasciando la patria, andarsi a vivere in lontane e forestiere contrade. Mandava espressamente il trattato a Pescara, in cui tuttavia si teneva Ettore di Ruvo, affinchè cedesse la piazza a Proni, e se ne venisse con tutti i suoi a Napoli, scortato per sua sicurezza dai regj.

I repubblicani intanto s'imbarcavano. Due navi portatrici di quei di Castellamare, avendo avuto facoltà di uscire, già erano arrivate a salvamento nel porto di Marsiglia. Le altre aspettavano la facoltà medesima, e i venti prosperi. In questo punto ecco arrivare Nelson: aveva egli udito, essere la flotta Francese ricoverata ne' suoi porti; trovandosi per questo esente da timore, passato prima per Palermo, e levatone il re, il ministro Acton, Hamilton, ambasciadore d'Inghilterra, ed Emma Liona, sua donna, dico sua per non dire non sua, aveva voltato le vele verso i lidi d'Italia. Non così tosto dalla sanguinosa Napoli si scoprivano le navi d'Inghilterra, che il cardinale mandava a Nelson deputati, per informarlo delle cose fatte, e dei patti stipulati. Rispose l'ammiraglio, non doversi il trattato concluso coi ribelli mandare ad esecuzione, se prima il re non l'avesse appruovato; risposta veramente incomportabile. Certamente i repubblicani erano rei d'atroci ingiurie verso il re, ma pure avevano pattuito con coloro, che il re medesimo e l'Europa quasi tutta avevano mandato con facoltà di pattuire. Certo nel trattato nissuna riserva di ratifica era stata fatta, ma egli era finale ed assoluto. S'aggiunge, che i patti erano stati offerti dal cardinale e dai confederati, e non domandati dai repubblicani. Il non osservargli dava al fatto dell'avergli offerti, apparenza d'insidia. Di tale risoluzione fu molto dolente il cardinale, che non voleva essere disprezzatore delle sue promesse, e per fare che la fede data si osservasse, andò egli medesimo a bordo della nave dell'ammiraglio, con efficacissime parole esortandolo a consentire. Ma l'Inglese, come se temesse, che la umanità e la fede contaminassero le vittorie, non si lasciò piegare; anzi non potendo rispondere agli argomenti ed alla facondia del cardinale, scusandosi con dire che non sapeva la lingua Italiana, prese la penna, e scrisse da vittorioso la crudele sentenza. Perchè poi non resti ignoto ai posteri il quanto di vituperio sia stato mescolato in queste sanguinose rivolture, io non posso omettere dal debito di narrare, che Emma Liona era presente, quando Nelson contrastava al cardinale, ed ordinava le uccisioni. Se qualcheduno fra chi mi leggerà, sarà per dire, ch'io dico cose troppo gravi, attenda, che nè voglio, nè debbo, nè posso tacerle; perchè se i vizj si biasimano negli umili, non so perchè non si debbano biasimare nei grandi: che se i grandi pretendono che non è bene che si dicano i loro peccati, dirò, che sarebbe molto meglio, che non gli commettessero. So che la moderna adulazione trascorse tant'oltre, che si va affermando, che ogni virtù è in chi è ricco, o potente, o glorioso, ed ogni vizio in chi è il contrario: per me credo, che la verità in tutto debba aver luogo, e che più debbano pubblicamente biasimarsi i grandi quando fan male, che gli umili, perchè i vizj dei primi sono più negli occhi degli uomini, e servono d'esempio. Nelson trapassando dal detto al fatto, ed entrando nel porto con la flotta, dichiarava prigionieri i repubblicani usciti in virtù della capitolazione dai castelli, sì quelli che già si erano imbarcati, e non ancora partiti, e sì quelli che non peranco si erano riparati alle navi. Perchè poi dubbio alcuno non potessero avere del destino che gli aspettava, gli fece incatenare due a due, e riporre in fondo alle navi. Nè contento al tenergli, gli lasciava bersaglio ad ogni oltraggio, e stremava loro i viveri. Pure noveravansi fra di loro uomini, se si eccettuano le opinioni ed i fatti politici in cui consisteva la colpa loro, molto ragguardevoli per dottrina, per legnaggio, e per virtù. Bastava bene ammazzargli, senza trattargli come vili assassini di strada. A tanto di barbarie si è lasciato trasportare un ammiraglio d'Inghilterra. Furono questi portamenti di Nelson dannati da tutti gli uomini diritti e dabbene, perchè, oltrechè se non si voleva trattare coi ribelli, necessaria cosa era il dichiararlo prima, non dopo la capitolazione, sapeva l'ammiraglio, che non senza compenso ed utile sì del re, che degli alleati, e particolarmente dell'Inghilterra era stata la dedizione dei castelli, perchè per lei e furono conservati intieri i castelli, e conservata salva Napoli, e rimosso il pericolo che i Francesi, dei quali egli medesimo stava in apprensione, arrivando con l'armata loro, non conducessero a qualche mal termine le cose dei confederati. Adunque i repubblicani avevano ricompro le vite loro con la concessione di questi vantaggi, i confederati avevano consentito, ed a queste condizioni medesime, e non altrimenti erano entrati in possessione dei castelli. Brutto certamente procedere si è quello di accettare, e di usare i vantaggi stipulati in una convenzione bilaterale, e di non volerne accettare ed adempire i carichi; ma più brutto è, quando il non adempirgli importa umano sangue. Lodisi da chi vuole il vincitore di Aboukir e di Trafalgar; ma noi, a cui più piace il giusto e l'umano che l'ingiusto ed il glorioso, non possiamo non mandarlo alla posterità, se non come uomo che ruppe fede agli uomini per ammazzargli. Il re, che era sul vascello inglese il Fulminante, non sofferendogli l'animo di vedere i supplizi che si preparavano, se ne tornava in Sicilia. Rimase il campo libero a chi voleva sangue.

Conquistati i castelli di castel Nuovo e di castel dell'Uovo attesero gli alleati all'acquisto di Sant'Elmo, il quale oppugnato gagliardamente qualche giorno venne in mano loro, essendosi il comandante Mejean arreso a patti. Stipulossi fra le due parti, che la guernigione Francese sarebbe prigioniera di guerra del re, e de' suoi alleati; che non servisse contro di loro, finchè non fosse scambiata; che sotto fede si conducesse sopra bastimenti regj in Francia. Quanto ai sudditi del re, che si trovavano nel forte, si convenne che si consegnassero in mano degli alleati. Mejean non potrà sfuggire il carico di aver consentito a quest'ultimo capitolo; perchè se primo suo pensiero era, e doveva essere di salvar i Francesi suoi compagni, e se a tali estremi era giunto che della salute dei repubblicani, che si eran rimessi nella sua fede, non potesse richiedere gli alleati, debito suo era almeno, seguitando l'esempio dei comandanti di Torino, d'Alessandria, e di Cuneo, lasciare che gli alleati quegli uomini da immolarsi si prendessero da per se stessi, non obbligarsi col suo nome sottoscritto a consegnargli. Maggiore biasimo eziandio meritano Tommaso Trowbridge, capitano comandante la nave Inglese il Culloden, e il capitano Baillie, comandante le truppe dell'imperatore delle Russie, per avere richiesto e stipulato, che i repubblicani si consegnassero agli alleati; perchè farsi dar uomini per dargli in mano al boja, era cosa del tutto indegna di uffiziali di Russia e d'Inghilterra. Potevano bene stipulare, ed avrebbe bastato, che fossero dati in mano degli agenti Napolitani. Si aggiunse a patti crudeli una esecuzione più crudele. I repubblicani travestitisi a modo di soldati Francesi, per istare alla fortuna, se non fossero riconosciuti, di salvarsi, essendo riconosciuti, ed anzi indicati da chi gli doveva preservare, vennero in poter di coloro che tanto agognavano il sangue loro; spettacolo miserabile, che commosse a compassione molti degl'inimici.

S'arrendevano in questo alle armi regie Capua e Gaeta, non fatta difesa alcuna d'importanza. Così tutto il regno tornò all'antica divozione, ma rotto, sanguinoso, pieno d'incendj, di rapine, di sdegni e di vendette. Incominciavansi i supplizj, l'infuriata plebe imitava; l'uccidere per tribunali era accompagnato dall'uccidere per anarchìa. Non a età si perdonava, non a sesso, non a grado. Le donne come gli uomini, giovanetti di sedici anni come vecchi di settanta furono uccisi sui patiboli: fanciulli di dodici condannati all'esilio, e dove in nome della legge giuridicamente non si poteva condannare, arbitrariamente si condannava. Un Fiori, un Guidobaldi già altrove nominato, un Damiani, un Sambuci, e massimamente uno Speciale, già stato ordinatore dei supplizj di Procida, erano gli stromenti della barbarie. Piange ancora Napoli, e piangerà lungo tempo i tremendi effetti del furor di costoro, e di coloro a cui piacevano. I più chiari, i più virtuosi s'immolavano i primi. A tanta immanità si aggiungeva nei repubblicani rabbia a coraggio per modo che dissero, e fecero morendo cose degne di eterna memoria. Fora troppo lunga e lagrimevole istoria il raccontare tutti i supplizj; toccheremo solo i principali, e da essi potranno i posteri argomentare, quanta virtù sia stata tolta a Napoli dalle discordie civili.

Mario Pagano, al quale tutta la generazione risguardava con amore e con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era visso innocente, visso desideroso di bene; nè filosofo più acuto, nè filantropo più benevolo di lui mai si pose a voler migliorare quest'umana razza, e consolar la terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu mostrato in cima agli infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed assassina. Non fe' segno di timore, non fe' segno di odio. Morì qual era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all'altro d'Italia con amare lagrime i suoi discepoli che come maestro e padre, e più ancora come padre che come maestro il rimiravano. Il piansero con pari affetto tutti coloro che credono che lo sforzarsi di felicitare la umanità è merito, e lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio dell'età nostra di questo che un Mario Pagano sia morto sulle forche. Domenico Cirillo, medico e naturalista, il cui nome suonava onoratamente in tutta l'Europa, non isfuggì il destino di chi ben ebbe amato in tempi tanto sinistri. Richiesto una prima volta di entrare nelle cariche repubblicane aveva negato perchè gl'incresceva l'allontanarsi delle sue lucubrazioni tanto gradite di scienze benefiche e consolatorie. Gli fecero una seconda volta suonare agli orecchi il nome, e la necessità della patria. Lasciossi, come buon cittadino, piegare a queste novelle esortazioni. Eletto del corpo legislativo, nè cosa vi disse, nè vi fece, se non alta, generosa e grande; ed il gridar per vezzo contro i re e contro gli aristocrati stimava indegno di lui per ragione, il propor cose a pregiudizio d'altri indegno di lui per affetto. La dottrina l'ornava, la virtù l'illustrava, la canizie il rendeva venerando. Ma i carnefici non si rimanevano, perchè il tempo era venuto che una illusione proveniente da fonte buona coll'estremo sangue si punisse, ed alla virtù vera non si perdonasse. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse, non perchè virtuoso, dotto, e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato, non volere domandar grazia ai tiranni, e poichè i suoi fratelli morivano, volere morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con se di un mondo che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La costanza medesima che mostrò coi detti, mostrò coi fatti: perì per mano del carnefice, ma perì immacolato e sereno, e tra Nelson e lui fu in quella suprema ora gran differenza perchè l'uno saliva nel suo preparato seggio in cielo, l'altro restava nel suo disonorato seggio in terra. Francesco Conforti, per dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare, fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più inesorabile della rabbia civile e che la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici. Era Conforti defensore vivissimo delle immunità del regno contro le pretensioni della corte di Roma, e molte cose per comandamento e con singolar satisfazione del governo aveva scritto intorno a questa materia; ma il beneficio si dimentica più presto dell'ingiuria. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli diè di mano il boja in Napoli. Speciale gli mandò dicendo, scrivesse per le immunità del regno, e gli si sarebbe perdonato. Scrisse, e patì morte sul patibolo. Il sapere era incentivo alla ferità di quello Speciale, sitibondo di sangue. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo per altezza d'animo, e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri supplizio dello aver creduto che gli uomini si potessero condurre con nuove forme di reggimento politico ad un più felice vivere, e dello avere con la lingua, per cui tanto poteva, e con la mano che con ugual vigore secondava la lingua, quella condizione cercato che nella sua mente benevola si era a benefizio degli uomini concetta. Fu preso combattendo contro le genti regie al ponte della Maddalena: il diritto regio domandava la sua morte; l'illusione sua il doveva far compatire, la capitolazione dei castelli conservare. Prevalse il partito più fiero; dopo gli strazj infiniti che nella sua prigione furono fatti di lui, e cui sopportò con costanza ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe' atto alcuno indegno di lui; serbò, non solo la equalità dell'animo, ma ancora la serenità. Pareva che non a morte, ma a miglior vita andasse, e certo andava. Giunto là dov'ei doveva dare il sospiro estremo, rivoltosi alle circostanti e feroci turbe che l'insultavano: «Questo disse, non è per me luogo di dolore, ma di gloria: qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell'uomo giusto e saggio: pensa, o popolo, che la tirannide ti fa ora velo agli occhi, e inganno al giudizio: ella ti fa gridar viva il male, muoja il bene; ma tempo verrà, in cui le disgrazie ti renderan la mente sana; allora conoscerai, quali siano i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi ancora che il sangue dei repubblicani è seme di repubblica, e che la repubblica risorgerà, quando che sia, e forse non è lontana l'ora, come dalle sue proprie ceneri la Fenice, più possente e più bella di prima». Mentre così diceva, il boja lo strangolò. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione, col testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere una sentenza di morte. Data la condanna, un suo amico, affinchè con morte volontaria sfuggisse la violenta, gli offerse oppio. Ricusò il funesto dono, sdegnosamente affermando, non essere in potestà dell'uomo il far getto volontario della propria vita; voler andare all'incontro del suo destino, comunque crudele fosse; non ispaventarlo la morte, non disonorarlo il patibolo; Dio esservi rimuneratore delle buone opere; nell'altra vita prima opera meritoria essere il conformarsi di buon grado alla volontà sua; appresso a lui non avere accesso gli odj, non le intemperanze dei tiranni; giusto essere Iddio, e mansueto e pietoso, ed accorre nel grembo suo volentieri gli uomini giusti, mansueti e pietosi; venisse pure il carnefice, il troverebbe rassegnato e pronto. In cotal modo filosofando e bene amando, Pasquale Baffi morì. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante rispondeva: «Ho capitolato». Avvertito, apprestasse le difese, rispose: «Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri mezzi». Condannato a morte, camminava, col capestro al collo, in mezzo a' suoi compagni, con fronte alta e serena: poi volti gli occhi intorno, e scortigli tutti, non vedendo fra di loro Bassetta: «Oh, disse, perchè con noi non è»? Fugli risposto, aversi salvata la vita col disvelare e denunciare repubblicani nascosti, o non conosciuti. «Ah, soggiunse, assassino vile de' tuoi fratelli! siatemi voi testimonj, ch'io la viltà sua aveva scoverto, e il volli far uccidere pochi giorni sono. Ma vi so dire ch'ei non godrà lungo tempo il frutto de' suoi tradimenti: ei morrà infame, poichè onorato non ha saputo morire». Così detto, Mantonè, tra sdegnoso e generoso, co' suoi compagni che costanti al par di lui la sua costanza ammiravano, se ne marciava al patibolo. Salite, senza mutare nè viso nè atto le fatali scale, dimostrò che l'uomo quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che non lo spaventa la morte. I raccontati supplizj, siccome d'uomini, partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà. Il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia: pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca Pimentel, donna ornata di ogni genere di letteratura, ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata, e da lui anche amata, fu, per avere scritto il Monitore Napolitano, condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza di mercato. Chiamata al supplizio, domandava e beveva caffè, poi marciava in sembianza di donna maggiore della disgrazia. Giunta al luogo che era per lei l'ultimo in cui viva insistere dovesse, incominciò a favellare al popolo; ma i carnefici, temendo di tumulto, le ruppero tostamente il femminile e tenero collo con le corde loro, e troncaronle ad un tratto le eloquenti parole.

Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente, chi meno. Un Velasco, minacciato da Speciale, che il farebbe morire sulle forche, rispose: Vile carnefice non avrai tu la mia vita. Ciò detto, diè un salto per la finestra, e si sfracellò per terra. Narrasi d'un Niccolò Fiani, che già stando sul punto di salire al patibolo, uomini barbari se l'abbian preso e fatto a pezzi, e strappatogli il cuore, abbiano il cuore, e le sparse viscere, e le lacerate membra portato a trionfo per la città. Un Pasquale Battistessa impiccato, e portato in chiesa, ivi diè segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto. Io non so se mi narri storie d'uomini o di fiere.

Morirono in Napoli per l'estremo supplizio e tutti con invitto coraggio Ignazio Ciaja, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia, ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo, Giuseppe Albanese, Marcello Scotti letterato eruditissimo, ed autore del catechismo dei marinarj, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo, con molti altri, ornamento e fiore delle Napolitane contrade. Fu anche affetto coll'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì, qual era vissuto, indomito, animoso, ed imperturbabile. Come nobile, fu condannato ad aver il capo mozzo. Volle essere decapitato supino, per veder la mannaia, che gli doveva tagliar il collo.

La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo onore e primo lume della Napolitana marinerìa, amato dal re, stimato dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece ancor esso una compassionevole fine. Si era Caraccioli, ed in questo certamente il suo fallire fu enorme, perchè il re gli era affezionato, molto travagliato in favore dello stato nuovo. Fatta la capitolazione dei castelli, e vedendola rotta, si era ritirato a Calvirano, pregando il duca di questo nome, acciocchè per sicurezza della sua vita minacciata dai regj, che da ogni parte il circondavano, gli fosse mediatore presso il cardinale, allegando, sperare, che l'avere obbedito per forza alcuni giorni alla repubblica Francese, non sarebbe per prevalere a quarant'anni di fedelissimo servizio. Non avuta risposta favorevole, se ne fuggiva ai monti. Scoperto da un suo domestico, fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da villani ferocissimi (sì deplorabili mutazioni di fortuna partoriscono le rivoluzioni) a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente a bordo della sua nave il Fulminante un consiglio militare, composto di uffiziali di marina Napolitani, e presieduto dal conte di Thurn, a cui diede facoltà ed ordine di giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il re delle due Sicilie per avere combattuto la fregata Napolitana la Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma nol potè pruovare. Dannavalo il consiglio a morte. Nelson comandava, s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse al mare. Il misero principe pregava dicendo, essere vecchio, non aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna, che era a bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli; il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un principe Napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico generoso in guerra: ed il giudizio di morte venne da una nave del re Giorgio. Poi, che vuol significare quella pressa di giudizio e di morte? Non era il re vicino? Non a lui si doveva ricorrere? Perchè intercludere la strada alla grazia? Si temè l'amore, non il rigore del re. Da un'altra parte, perchè gettare il corpo ai pesci? Non era vicino il lido? Non pronti i parenti e gli amici a raccogliere le amate reliquie? Adunque un principe Caraccioli, un servitor del regno per quarant'anni, un ammiraglio di Napoli, un uomo che per un sì lungo corso d'età era stato ed amato e riverito da Europa, non trovò sepoltura, se non nella bocca dei voraci mostri del mare! Non saziò la sua morte il crudo Inglese, volle ancora, che s'incrudelisse contro quell'onorato volto, contro quelle membra insensibili! Queste sono le glorie di Nelson nel golfo di Napoli.

Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizj, sì per la rabbia popolare. Non fu minore nelle province: perironvi in modo sempre violento, spesso crudele, quattromila persone, quasi tutte eminenti o per dottrina, o per legnaggio, o per virtù; carnificina orribile.

Io già feci, scrivendo queste storie, sì frequenti accoppiamenti d'idee dolci e terribili o di virtù e di patiboli, o di fede e di tradimenti, o d'innocenza e di vizj, che non so se il lettore me ne comporterà ancora un altro. Pure, se fia ch'ei debba muovere a sdegno ed a compassione i nostri posteri, io il mi racconterò. Domenico Cimarosa, cui tutta la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili melodìe, ed a chi chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire, era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed annuvolatrici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizj. Pregato, egli aveva composto la musica per un inno repubblicano, opera di un Luigi Rossi. Venuta Napoli in mano dei sicarj di Ruffo, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato anche di più, se i Russi ausiliarj del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il caso, e non avendo potuto ottenere dal governo Napolitano, al quale l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero al carcere, e l'Italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una Napoli la salute venne a Cimarosa dall'Orsa. Mi vergogno per l'Italia, rendo grazie alla Russia. Pure il misero Domenico, quantunque fosse posto in libertà, tra per l'afflizione dell'animo, ed i patimenti del corpo al tempo della sua carcerazione, se ne morì poco dopo a Venezia, dove era stato chiamato per comporre un'opera.

Riconquistata la sanguinosa Napoli, premiava il re con magnifici doni coloro, che l'avevano tornata a sua divozione. Investì il cardinale Ruffo della badìa di Santo Stefano, che ha una valuta all'anno di cinque mila ducati di regno: davagli oltreacciò il possesso in proprio di un'altra tenuta con rendita di circa cinquemila ducati. Queste furono le dimostrazioni del re utili al cardinale. Del resto ei non ebbe più grazia, e gli fu tolto il governo delle faccende, a ciò instigando il re Acton per gelosia, Nelson per dispetto, perchè il cardinale aveva voluto che si osservassero i patti. Fu a Palermo eretto un tempio alla gloria, nel quale entrando in mezzo a plausi infiniti Nelson, gli fu posta dal principe Leopoldo, figliuolo del re, una corona d'alloro in capo. Il presentava il re con una spada gioiellata, duca di Bronte chiamandolo. Diegli inoltre una rendita di sei mila once di Napoli. Nè mancarono i presenti per Hamilton ambasciadore; Emma Liona ebbe ancor essa i suoi.

Essendo, nel modo che abbiamo raccontato, caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Francesi, restava ancor in poter loro la Romana repubblica, ma non sì, che non si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte. Suonavano dentro, e d'intorno le armi dei confederati, o regolari o collettizie. Avevano gli Aretini sempre infiammati nell'impresa loro contro i Francesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emolazioni, fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in mezzo, onde i Francesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne stavano assediati in Ancona. Lo stato Romano quasi tutto tumultuava e tornava all'obbedienza pontificia. Ufficiali antichi del pontefice, preti, frati, canonici, le rabbiose popolazioni stimolavano e guidavano, e se fu insolente in quelle regioni il dominio dei repubblicani, non fu meno sfrenato quello dei pontificj che risorgevano. Le vendette non solo si facevano contro le insegne inanimate della repubblica, ma ancora contro i corpi viventi dei repubblicani. Furonvi al solito uccisioni, rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte l'altre pesti indotte dei popoli mossi a romore. In questa guisa i Francesi ed i soldati della repubblica Romana furono sforzati a ritirarsi ai luoghi forti, lasciando gli avversarj signori della campagna. Da un'altra parte nè Froelich, che aveva nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la ricuperazione del regno, avevano trasandato le Romane cose. Ad essi accostavansi gli Inglesi con qualche squadrone di genti da terra, e con navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia. Diversi, secondo la diversità degli umori e degl'interessi delle potenze, erano i pensieri di ciascuna. L'Austria intendeva a conquistare per se, Napoli a questo medesimo fine, ed a fare la corona libera dalle molestie della corte di Roma. Agl'Inglesi poi pareva, che molto memorabil caso fosse, che venissero a rimettere un papa nel suo cattolico seggio.

Adunque la repubblica Romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana, ed avendola occupata facilmente, s'incamminava a Roma. Dalla parte bassa salivano i Napolitani condotti da un Burcard Svizzero, e turbavano tutto il paese sulla sinistra del Tevere. Erano con loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che per combattere, per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i repubblicani sì Francesi che Romani da una parte, ed i Napolitani dall'altra, presso a Monterotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che gli conduceva contro Froelich; ma sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte. Perlochè riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta, i Napolitani a Portaromana, ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani di Roma, che avevano seguitato la fortuna Francese, aveva introdotto una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione, e sottoscritta da ambe le parti il dì venticinque settembre. Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Francesi da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra; serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani, che volessero imbarcarsi coi presidj Francesi, e trasportare le proprietà loro, il potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere nè delle parole, nè degli scritti, nè delle opere passate, e fossero lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente, e secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo, parte per dispetto, perchè Garnier aveva amato meglio trattare con gl'Inglesi e coi Napolitani che con lui, parte e molto più, perchè per esso si venivano a troncare le speranze concette delle conquiste. Commise ancora il generale Austriaco qualche ostilità; ma finalmente, veduto che senza troppo scoprirsi, e dar sospetto, che i pensieri dell'Austria non si terminassero nella ricuperazione delle cose perdute, non poteva turbare l'accordo, vi accomodò l'animo, e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio d'Ancona, sola piazza che nello stato Romano ancora si tenesse pei repubblicani. S'imbarcarono i Francesi a Civitavecchia, e con essi tutti coloro fra i Romani, che stimarono più sicuro l'esiglio, che il commettersi alla fede di un governo provocato con tante ingiurie. Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito. Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo, a cui chiamò i principi Aldobrandini e Gabrielli, ed i marchesi Massimi e Ricci. Aggiunse un tribunale di giustizia sotto nome di giunta di stato, a cui chiamò per presidente il cavaliere don Jacopo Giustiniani, e per avvocato fiscale monsignor Giovanni Barberi. Ufficio di questo tribunale fosse, che la quiete dello stato non si turbasse, e chi la turbasse, fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti ai tempi della repubblica, come nazionali, ed abrogò le vendite fatte, riserbando agli spossessati il ricorso dei compensi: contenne il libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo stato Romano i cinque notaj Capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità del popolo, e della deposizione del sommo pontefice. Oltreacciò i beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati, e quindi molti di loro ridotti a crudele miseria. Gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente, dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono gettati in carcere, fra i quali merita particolar menzione il conte Torriglioni di Fano, che era stato ministro dell'interno, uomo di alto merito e d'illibati costumi; gli antichi consoli Zaccaleoni e Dematteis, uomini rispettabili, condotti a dorso d'asino in via del Corso in mezzo agli scherni di una scatenata plebaglia. Tutte queste enormità violavano la capitolazione, ed erano incomportabili; perchè se la impunità di chi aveva errato pareva scandalosa al governo di Roma, assai più scandaloso, e di peggiore esempio era il rompere la fede data. Del resto non si fece, come a Napoli, sangue per giudizj; moderazione degna di molta lode. Ma la sfrenatezza delle soldatesche Napolitane suppliva in questo, perchè oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la notte, uccisero anche parecchie persone, che vollero difendersi dalla loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Un povero fabbro, per aver voluto, contro il divieto di alcuni uffiziali Napolitani, usare del diritto che aveva per contratto legale, di attinger acqua ad una fontana nel palazzo Farnese, fu dai medesimi condannato alla pena del bastone per cui morì: la sventurata sua moglie se ne morì di dolore. Roma offesa dai Napolitani, era compresa da un alto terrore.

Le vittorie di Kray e di Suwarow avevano posto in mano degli alleati la valle del Po, quelle di Ruffo, e le mosse dei sollevati di Toscana, tolto al dominio dei Francesi e dei repubblicani il regno di Napoli, lo stato Romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia non avevano più i Francesi, che Genova con la riviera di Ponente, sulla sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato, perchè siccome prossimo ai loro territorj, poteva facilmente servir loro di scala al riacquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama, e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier, che stava al governo della piazza con un presidio, che tra Francesi, Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno arrivava a questo numero. Erano in questa parte d'Italia le condizioni della guerra le seguenti. Occupava Monnier col suo presidio Ancona, non sì però rinserrato, che non uscisse fuori di quando in quando a combattere, di sotto fino a Ripatransone ed Ascoli, di sopra sino a Fano ed a Pesaro. Ma siccome il suo più sicuro ricetto era Ancona, così alle antiche aveva, con somma diligenza ed arte, aggiunto nuove fortificazioni. Muniva con qualche trincea e forza d'artiglierìe la montagnola, che domina la strada per a Sinigaglia. Più vicino alla piazza affortificava con un ridotto frecciato, palizzato, affossato, ed armato di ventiquattro pezzi d'artiglierìa il monte Gardetto, il quale siccome quello che signoreggia la cittadella ed il forte dei Cappuccini, era di grandissima importanza, ed il principale mezzo di difesa; perchè se il nemico ne fosse impadronito, avrebbe fatto vano il resistere degli assediati. Aveva anche munito il monte Santo Stefano, che più da vicino che il Gardetto batte la cittadella. Perchè poi l'adito fosse intercluso al nemico di avvicinarsi a questi due monti, nella conservazione dei quali consisteva quella della piazza, guerniva anche di trincee e d'artiglierìe i monti Pelago e Galeazzo, che sono come propugnacoli naturali, od opere avanzate ai monti Gardetto e Santo Stefano. Nè lasciava senza batterìa il monte Ciriaco, che posto a riva il mare difende il molo d'Ancona. Sul molo stesso ed al fanale piantava cannoni, perchè siccome non gli era ignoto che i collegati l'avrebbero assaltato anche dalla parte del mare, desiderava di assicurarsi dagl'insulti loro. A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi.

Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù, intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza. Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli, nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù, massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori. Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici, continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre e minacciose contro il dominio dei Francesi. Entrarono eglino in sospetto di quello che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi, tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole, incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi, governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato. Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri, quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato, che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva.

A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il paese all'intorno d'Ancona.

Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la cittadella.

Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella, restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione, nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona. Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo.

Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando, continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la servitù. Amommi Laharpe, perchè generoso mi conobbe, ed a pensieri generosi intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto, che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro. Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel» (perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina, suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo». (Mangourit, Défense d'Ancône, t. II.) Ciò detto, passava da questa all'altra vita.

Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal, portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia, specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana.

Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare, protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in Francia per la strada della Bocchetta.

Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e l'Austria.

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V

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