Читать книгу Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II - Botta Carlo - Страница 1

LIBRO SETTIMO

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SOMMARIO

Pensieri di Buonaparte. Intenzioni del Direttorio circa le potenze d'Italia. Spoglio delle opere egregie delle belle arti: lusinghe ai dotti ed ai letterati. Tregua col duca di Parma. Come trattato il duca di Modena. Accidenti del Milanese; imposizioni e rapine; mala contentezza dei popoli. Moto pericoloso nel Pavese, massimamente a Binasco ed a Pavia. Sacco di questa città accaduto ai venticinque e ventisei di maggio del 1796. Buonaparte si volta contro Beaulieu, e dopo nuove battaglie, lo sforza a ritirarsi in Tirolo. Niccolò Foscarini nominato dai Veneziani provveditor generale in terra ferma. Sue paure. Minacce, che gli fa Buonaparte. Quel che restava a farsi dai Veneziani in sì pericoloso ed importante caso. Debolezza di Foscarini. Buonaparte in Verona. Minacce contro Verona per aver dato ricovero al conte di Lilla. Il castello di Milano si arrende alle armi Francesi. Rivoluzione di Bologna. Giuramento prestato dai Bolognesi in presenza di Buonaparte. Moto di Lugo, e suoi accidenti. Spavento in Roma. Tregua fra Buonaparte e il papa. Esortazioni del pontefice ai suoi sudditi ed ai Francesi. Sforzi e solenni protestazioni del re di Napoli. Tregua fra il re e Buonaparte. Occupazione di Livorno. Ree intenzioni di Buonaparte rispetto al gran duca di Toscana. Nuovo moto dell'Austria a ricuperazione delle sue possessioni d'Italia: vi manda il maresciallo Wurmser con un esercito assai grosso. Il maresciallo rompe le prime schiere di Buonaparte, fa risolvere l'assedio di Mantova, entra in questa piazza, e la rinfresca d'armi, di soldati e di vettovaglie. Buonaparte raduna i suoi troppo sparsi. Moltiplici battaglie fra i due valorosi emoli. Battaglia di Castiglione combattuta il dì cinque agosto. Wurmser si ritira ai passi del Tirolo; i Francesi lo seguitano. Battaglia di Roveredo succeduta ai quattro settembre. I Tedeschi si ritirano ai più alti passi. Disegni di Buonaparte sopra la Germania; Wurmser gli storna, calandosi di nuovo in Italia per la valle della Brenta. Buonaparte lo seguita. Battaglia di Primolano e di Bassano. Il maresciallo valorosamente combattendo arriva finalmente in Mantova, che è di nuovo cinta d'assedio dai Francesi. Descrizione di Mantova. La Corsica si aliena dall'obbedienza degl'Inglesi, e torna sotto quella di Francia.

Conquistato il Piemonte, conculcato il re di Sardegna, e posto il piede nella città capitale degli stati Austriaci in Italia, si apparecchiava Buonaparte a più alte imprese. Suo principal desiderio era di passar il Mincio, e cacciando le genti Tedesche oltre i passi del Tirolo, vietare all'imperatore, che non mandasse nuovi ajuti per ricuperare le Province perdute. Intanto le sue vittorie avevano aperto la occasione al governo di manifestare il suo intento circa il modo di procedere verso le potenze Italiane, e congiunte d'amicizia con la Francia, e neutrali, e nemiche. La somma era, che facendo traffico del Milanese, con darle in preda, secondochè per le occorrenze dei tempi meglio gli si convenisse, o al re di Sardegna, e all'imperatore, si taglieggiassero i principi d'Italia, e da loro quel maggiore spoglio di denaro e di altre ricchezze, che possibil fosse, si ricavasse. Nè in questo mostrava il Direttorio maggior rispetto agli amici che al nemici. Nella quale risoluzione egli allegava per pretesto e la guerra fatta, e l'amicizia finta, e la necessità di assicurare l'esercito.

Voleva prima di tutto, che si conquidesse ogni reliquia dell'esercito Alemanno, e che intanto si consumasse il Milanese, sì per pascere i soldati, e sì per farlo meno utile a chi si dovesse o dare, o restituire. «Usate, scriveva il Direttorio a Buonaparte, la occasione del primo terrore concetto dalle nostre armi, ed aggravate la mano sui popoli Lombardi per cavarne denaro. I canali e le altre opere pubbliche di quel paese siano anch'esse un po' tocche dalla guerra; ma si usi prudenza».

Nè qui finivano le parole crude rispetto alla miseranda Italia: «Ite, scrivevano, e correte contro il gran duca di Toscana, che è servo degl'Inglesi in Livorno; ite, ed occupate Livorno; non aspettate che vi consenta il gran duca; il sappia quando voi già sarete padrone di quel porto; confiscatevi le navi e le proprietà Inglesi, Napolitane, Portoghesi, e di altri stati nemici della repubblica; sequestrate le proprietà dei sudditi loro; se il gran duca si opponesse, sarebbe perfidia, e sì allora trattate la Toscana come se fosse alleata dell'Inghilterra e dell'Austria; comandate a quel principe, che ordini incontanente, che quanto ai nemici nostri si appartiene, sia in poter nostro posto, e risponda egli del sequestro: pascete le genti della repubblica in Toscana, e date in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale. Fate poi le viste di voltarvi verso Roma e Napoli per metter timore nel pontefice e nel re; assicurate Livorno con un forte presidio, e fate che sia scala a muovere la Corsica per ritorla al giogo della superba casa di Brunsvick-Luneburgo, e ridurla di nuovo sotto il dominio della repubblica».

Grande rapacità fu questa veramente, ed incomportevole e barbara, poichè se erano in Livorno proprietà d'Inghilterra, o d'Inglesi e di altri nemici della repubblica, eranvi in vigore della neutralità di Toscana, che la Francia stessa aveva e riconosciuta, ed accordata col gran duca. Questa fu la ricompensa che ebbe Ferdinando di Toscana da quei repubblicani di Parigi, che pure pretendevano sempre alle parole loro la sincerità, e la grandezza, dello avere, primo fra tutti i potentati d'Italia, e riconosciuta la repubblica, e fatta la pace con lei, e dato lo scambio per instanza del Direttorio al suo ministro conte Carletti per avere lui mostrato desiderio di visitare la reale figliuola di Luigi decimosesto testè uscita dal carcere del Tempio per esser condotta in Alemagna. Mandò il gran duca, in vece di Carletti, il principe don Neri Corsini, giovane ingegnoso, di buona natura, e di non mediocre aspettazione. Nè valsero a frastornare dalla felice Toscana la cupidigia dei repubblicani le dolci parole usate dal Corsini medesimo, quando fece il suo ingresso al direttorio, nè le parole magnifiche che gli furono date in risposta dal presidente. Nè io voglio dare a chi mi leggerà il fastidio, questi discorsi raccontando, di udire parole di adulazione inutili da una parte, e promesse d'amicizia infedeli dall'altra.

Era Genova stata straziata dalle armi Francesi e dalle armi Tedesche, e poteva avere speranza, ora che la sede della guerra si era allontanata da' suoi confini, di vivere più quietamente. Ma i tempi erano tali, che dove mancavano le cagioni, s'inventavano i pretesti, ed il fine era non di rispettare i neutri deboli, ma di molestargli e di mettergli in preda. Adunque per quella cupidità di voler trarre denaro da Genova, s'incominciò ad insorgere contro il governo Genovese, con dire che le turbazioni seguite contro i Francesi nei feudi imperiali confinanti con lo stato Genovese, e le uccisioni, che pur troppo sui confini dei territorj Piemontese e Genovese accadevano di soldati Francesi, se non erano opera espressa della signorìa, erano almeno troppo più rimessamente che si convenisse, da lei udite e tollerate; che le armi e gli stimoli alla sedizione nei feudi imperiali erano venuti da Genova, e che da Novi venivano le armi e gl'incentivi per assassinare i Francesi ai confini. Per la qual cosa scriveva con una insolenza incredibile Buonaparte al senato ch'era Genova il luogo, donde partivano gli uomini scelerati, che datisi alle strade intraprendevano i carriaggi, ed assassinavano i soldati Francesi, che da Genova un Girola mandava ai feudi imperiali ribellanti armi, e munizioni da guerra pubblicamente, ed ogni giorno i capi degli assassini accoglieva, ancor bruttati di sangue Francese; che parte di questi orribili fatti succedevano sul territorio della repubblica; che pareva, che essa col tacere e col tollerare appruovasse opere tanto scelerate; che il governator di Novi proteggeva i commettitori di tanti atti barbari, perciò arderebbe i comuni dove sarebbe ucciso un Francese; voleva che il governatore di Novi dal suo impiego si cacciasse, Girola da Genova: arderebbe infine le case tutte in cui gli assassini trovassero asilo; punirebbe i magistrati trasgressori della neutralità, osserverebbe bene e puntualmente la neutralità, ma volere che la repubblica di Genova non fosse rifugio di gente malandrina. Allo stesso modo al governatore di Novi, persona moderata e dabbene, scrivendo, lo accusava di essersi fatto ricovero di assassini, e superbamente gli comandava, che arrestasse gli abitatori dei feudi imperiali che fossero nel suo territorio, e se nol facesse, avrebbe a far con lui; poscia vieppiù soldatescamente infiammandosi, ripeteva, arderebbe terre e case, dove gli assassini si ricoverassero.

Rispondevano il senato ed il governatore stando in sui generali, perchè l'attribuire a se medesimi opere tanto nefande non era nè verità, nè dignità, ed il non soddisfare ad un soldato vittorioso e sdegnato, era pericolo. Certo è bene, che per quelle strade si commisero contro i Francesi opere di molta barbarie, e certo è altresì, che Buonaparte doveva con quei più efficaci mezzi che potesse, aver cura de' suoi soldati, e porre la vita loro in salvo: ma che queste tanto terribili dimostrazioni ei facesse contro i Genovesi, meno per amor di salute verso i suoi soldati, che per occasione di muover querela contro di loro a fine di denaro, e forse di distruzione, sarà manifesto a chiunque farà considerazione, che questi omicidj ed assassinamenti, di cui con tanta ragione si querelava, non già solamente sul territorio Genovese accadevano, ma ancora, e molto più sul territorio Piemontese; imperciocchè i villici di quei confini tra Novi ed Alessandria, gente allora pur troppo solita al gettarsi alla strada, erano quelli massimamente, che, stando agli agguati, uccidevano i Francesi isolati: nel che intendevano bensì al rubare, ma molto più ancora al saziare nel sangue Francese l'odio che contro quella nazione avevano concetto. Eppure non fece il generale di Francia che un leggiere risentimento, e nissuna minaccia contro il re di Sardegna. La verità era, che nè il governo Piemontese, nè il Genovese erano rei di sì brutti eccessi, ma bensì la sfrenatezza di costume, che porta con se la guerra tanto nei vinti quanto nei vincitori, e l'odio di quei popoli contro il nome Francese. L'insolenza poi di accusare tutto un governo, composto di persone dabbene e temperato per tanti secoli, di prezzolare ed incitar i ladri ed assassini, non poteva procedere se non da un uomo sfrenato.

A queste minacce soldatesche succedevano le prepotenze Parigine. Comandava il direttorio a Buonaparte, s'impadronisse o di queto, se i Genovesi consentissero, o per forza, se ricusassero, di Gavi a fine di assicurare l'esercito alle spalle, e di conservarsi la strada della Bocchetta aperta da Genova a Tortona: col medesimo pensiero già si era impadronito della fortezza di Vado; il che quale rispetto sia per la neutralità, ciascuno potrà giudicare. Poscia più oltre procedendo, voleva il direttorio, che come prima avesse l'esercito repubblicano occupato il porto di Livorno, occupasse anche la Spezia, ed ivi quanti bastimenti appartenessero a potentati nemici alla Francia, mettesse in preda. Nè contento a questo, non dimenticato il denaro, nè risguardo alcuno avendo che il fatto della Modesta fosse accaduto non solamente senza saputa, ma ancora con sorpresa del senato di Genova, nè che già fosse stato composto in quattro milioni col governo di Francia, nè che la fermezza del senato nel contrastare alla prepotenza Inglese per serbar la neutralità fosse stata non solo vera, ma anche lodata dal consesso nazionale di Parigi, nè che finalmente molte fossero le molestie che per la serbata neutralità avevano ricevuto i Genovesi dagl'Inglesi, e tuttavìa ricevevano dai Corsi, comandava a Buonaparte, che domandasse vendetta, e milioni di contanti per la straziata Modesta, ed operasse che coloro, che si erano mescolati in tale fatto, fossero come traditori della patria dannati: oltre a ciò voleva e comandava, che si confiscassero e si dessero in mano della repubblica tutte le proprietà pubbliche appartenenti ai nemici, e sotto sicurtà di Genova si sequestrassero tutte quelle che a sudditi di potentati nemici spettassero; cacciasse Genova da' suoi territorj tutti i fuorusciti Francesi; fornisse bestie da tiro e da soma, carriaggi e viveri, e si dessero in contraccambio polizze del ricevuto da scontarsi alla pace generale.

Questi comandamenti, che un governo civile avrebbe avuto vergogna di fare ad una potenza del tutto serva, si era risoluto il direttorio di fare ad uno stato, di cui protestava voler riconoscere e rispettare l'indipendenza e la neutralità.

Passando ora da Genova a quella primogenita, come la chiamavano, repubblica di Venezia, siccome cresceva nei vincitori con le vittorie la cupidigia dell'oro e del dominare, incominciarono a dire, che volevano che fosse trattata non da amica, ma solamente da neutrale, sotto colore di certi pretesti vecchi, che già sussistevano, poichè non era cambiata la condizione delle cose fra le due repubbliche, quando nell'ingresso del nobile Querini se gli fecero tante carezze. Tra questi pretesti il primo e principale era il passo dato ai Tedeschi pei territorj Veneziani. Poi prosperando vieppiù la fortuna delle armi repubblicane in Italia, insorse il direttorio con volere che Verona desse grossa somma di denaro in presto, a motivo che ella aveva accolto nelle sue mura Luigi XVIII, convertendo per tal modo in colpa un ufficio di pietà. Finalmente, cacciato del tutto Beaulieu oltre Mincio, voleva ed imperiosamente comandava, che Venezia desse in presto dodici milioni, e si voltasse in ricompensa questa detta alla repubblica Batava, che era debitrice di questa somma, a norma dei freschi trattati, alla Francia; il che era un farsi far presto per forza, e pagar a modo suo. Voleva oltre a ciò, e comandava, che si consegnassero alla repubblica tutti i fondi dei potentati nemici che fossero in Venezia, principalmente quelli che spettavano personalmente al re d'Inghilterra, ed inoltre si dessero alla Francia tutte le navi sì grosse che sottili, ed altre proprietà di nemici che stanziassero nel porti Veneziani. Quest'erano le domande fatte dal direttorio alla repubblica Veneta, delle quali direi, ch'io non so s'egli desiderasse che fossero piuttosto negate che concedute, se non sapessi che neanco il concederle sarebbe stato salute per Venezia.

Quanto al papa, se volesse trattar d'accordo, si esigesse da lui, imponeva il direttorio, per primo patto, ordinasse subito preci pubbliche per la prosperità e la felicità della repubblica; nel che faceva il direttorio gran fondamento per l'autorità che aveva la sedia apostolica sulla opinione dei popoli sì Francesi, che Italiani. Si venne quinci in sul toccar il solito tasto del denaro, intimando desse venticinque milioni. Si comandasse al tempo medesimo al re di Napoli, che se pace volesse, badasse a cacciar da' suoi stati gl'Inglesi e gli altri nemici della repubblica, mettesse in poter suo tutte le navi loro che nei Napolitani porti fossero sorte, e loro vietasse l'entrarvi, nemmeno con bandiera neutrale. Sapesse poi il re, che col mantenimento dei patti ne andava la salute del regno.

Questi superbi comandamenti, che potevano bensì fare i potentati Italiani amici in sembiante di Francia, ma non veri, perchè mescolavano l'oltraggio alla forza, gli rendevano disprezzabili agli occhi del mondo, e davano timore di danni ancor maggiori, quando, distrutta intieramente la potenza dell'Austria, le armi repubblicane avessero inondato tutta l'Italia.

Vengo ora ad alcuni potentati minori, che non avevano fatto guerra con le armi alla Francia, perchè non ne avevano, e nemmeno avevano fatto pace, perchè la Francia essendo lontana e l'Austria vicina, temevano di ricevere o ingiuria o danno dai Tedeschi. Non ostante correndo la fama che avessero ricchezze, coloro che reggevano le faccende della repubblica sempre pronti ad abbracciare ogni apparente colore per involare quel d'altrui, avevano a loro volto le proprie cupidità. In conformità di questo voleva il repubblicano governo, che si scuotessero bene i duchi di Parma e di Modena, ma il primo meno rigidamente del secondo per rispetto del re di Spagna, col quale era congiunto di sangue. Quanto al duca di Modena, intenzione dei repubblicani era, che si aggravasse la mano sopra di lui per fargli sborsar denaro in copia, perchè aveva voce di averne, e perchè, avendo sposata l'unica sua figliuola ad un principe Austriaco, si presumeva, o si supponeva, che dipendesse molto dall'Austria. Lallemand, ministro di Francia a Venezia (a questo era serbata dai cieli la sua canuta testa) esortava, che si conculcasse, si pugnesse, si travagliasse per ogni guisa il Modenese duca a fargli dar denaro, perchè ne aveva molto ed era avaro; e più si scuoterebbe, e più contanti darebbe. I frutti della lunga parsimonia di un principe non solamente ordinato allo spendere, buono, e previdente, ma ancora non nemico alla Francia nè per uso, nè per costume, nè per massima, erano destinati a cadere in mano di gente capace a dissipargli in poco d'ora.

Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti, dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra, non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto. Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempj Italiani: con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia.

In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi, i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose: i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano predicando, che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Così questi buoni utopisti condotti da una inremediabile illusione, in mezzo agli ori e le gemme, di cui già risplendevano i capi repubblicani di Francia, ed al gran lusso in cui vivevano, andavano continuamente sognando Sparta, e conservandosi austeri ed inflessibili, facevano fede di quanto possa in animi forti e buoni una fissazione, che abbia in se l'immagine del bene.

Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buouaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva, che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri gli lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente, ed imponeva al suo generale, che ricercasse, e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati, ed i letterati d'Italia. Indicava nominatamente l'astronomo Oriani, uomo certamente non degno per bontà e per dottrina di essere accarezzato da un governo e da un capitano, che spogliavano la sua patria. Recava il generale ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Degli accarezzati alcuni adulavano parlando, altri sprezzavano tacendo, chi mostrò più forza fu l'eunuco Marchesi, che non volle cantare.

Egli è tempo oramai di esporre come i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma, tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Francesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la divozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro. Così il duca si trovava del tutto a discrezione dei repubblicani, nè sapeva a quali patti questa gente vittoriosa consentirebbe ad accettarlo in amicizia. Nè stava senza timore, che per opera dei Gallizzanti seguisse qualche turbazione, non già ch'essi fossero o numerosi o potenti, ma il terrore rappresentava alle menti commosse questo pericolo più grave assai, che realmente non era. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli stati con un accordo, che quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe ciò non ostante men grave, che la perdita di tutto il dominio. Tentò il ministro di Spagna di mitigare l'animo del vincitore; ma egli, che era assai meno sdegnato che avido, non voleva udire le proposte che gli si facevano, e non ammetteva che il duca avesse avuto luogo nel trattato di Spagna. Perciò domandava superbamente l'accordo, che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie, e tavole dipinte di estremo valore. Adunque come si suol fare nei casi estremi da coloro che non sono più padroni di loro medesimi, fece il duca mandato amplissimo ai marchesi Pallavicini e della Rosa di trattare, accettando tutte le domande, quantunque immoderate, che si facessero dal vincitore.

In primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì nove maggio in Piacenza. Non aveva il duca nè fucili, nè cannoni, nè altre armi, nè fortezze da dare, ma si obbligava a pagar in pochi giorni sei milioni di lire Parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Coreggio. Questi furono i patti che per la intercessione di Spagna ottenne il duca di Parma, i quali di quale natura siano, ognuno per se potrà giudicare. Nientedimeno trovo scritto, che il cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, opinava che e' fossero molto moderati. Mandava intanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità mandava le ducali argenterìe alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti Parmigiani e Piacentini, ritiratisi in Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Rappresentavansi spesso questi fuorusciti al generalissimo nelle sue stanze di Milano, ed ei gli accoglieva benignamente, e profferiva loro favori ed impieghi. Di questi alcuni accettavano, ed adulavano; altri repubblicanamente rifiutavano, affermando non volere altro che la libertà della patria loro: questi Buonaparte aveva per pazzi.

Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori; il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca.

A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il momento dello spoglio.

Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti.

Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose.

Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.

A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin, il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili, perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità Francese.

Intanto si viveva con grandissimo spavento in Pavia, non già perchè vi si temessero dai più i Francesi, avendo la rabbia tolto il lume dell'intelletto, ma perchè tutti i buoni temevano, che quella furia, per trovar pascolo, si voltasse improvvisamente a danno ed a sterminio della misera città. I giorni spaventevoli, le notti più spaventevoli ancora, ridotta quella sede nobilissima a dover perire o per furore degli amici, o per vendetta dei nemici. Così passarono le due notti dei ventitre ai venticinque: ma già si avvicinava l'esito lagrimevole di una forsennata impresa, quando più la moltitudine, per la dedizione del presidio ricoverato in castello, si credeva sicura della vittoria. Era giunto il giorno venticinque maggio, quando udissi improvvisamente un rimbombar di cannoni, prima di lontano, poi più da presso; e via via più spesseggiando il romore, dava segno che qualche gran tempesta si avvicinasse dalle parti di Binasco. Spargevano, fossero i Tedeschi; ma i più nol credevano, ed incominciavano a trepidar dell'avvenire. I Pavesi soprattutto stavano molto atterriti, perchè all'estremo punto i villani non conosciuti, e di domicilio incerto, se ne sarebbero fuggiti; ma la città, bersaglio certo ad un nemico sdegnato, sarebbe stata sola percossa da quel nembo terribile.

Erasi già Buonaparte, lasciato Milano in guardia a' suoi, condotto a Lodi con animo di perseguitare con la solita celerità il vinto Beaulieu, quando gli pervennero le novelle del tumulto di Binasco e di Pavia. Parendogli, siccom'era veramente, caso d'importanza, perchè quest'incendj più presto si spandono che non si estinguono, tornossene subitamente indietro, conducendo con se una squadra eletta di cavalli, ed un battaglione di granatieri fortissimi. Giunto in Milano, considerato che forse le turbe sollevate avrebbero mostrato ostinazione uguale alla rabbia, o forse volendo risparmiare il sangue, si deliberava a mandar a Pavia monsignor Visconti, arcivescovo di Milano, affinchè con l'autorità del suo grado e delle sue parole procurasse di ridurre a sanità quegli spiriti inveleniti. Intanto applicando l'animo a far sicuro con la forza quello, che le esortazioni non avrebbero per avventura potuto operare, rannodava soldati, e gli teneva pronti a marciare contro Pavia. Infatti già marciavano; già incontrati per via i Binaschesi, facilmente gli rompevano, facendone una grande uccisione. Procedendo poscia contro Binasco, appiccato da diverse bande il fuoco, l'arsero tutto: il funesto incendio indicava al mondo, che strage chiama strage, fuoco chiama fuoco, e che male con forche, e con bastoni, e da gente tumultuaria si resiste a bajonette, a cannoni, a battaglioni ordinati. Rimasero lungo tempo in essere le ruine affumicate e le ceneri accumulate dell'infelice Binasco, terribili segni a chi stava ed a chi passava.

Erasi intanto l'arcivescovo condotto a Pavia, e fattosi al balcone del municipale palazzo orava instantemente alle genti, che si erano affollate per ascoltarla. Rappresentava la disfatta intiera dei Tedeschi, la vittoria piena dei Francesi, la soggezione universale, l'incendio di Binasco, le repubblicane schiere avvicinantisi pregne di vendetta, Buonaparte già vicino, vincitore di tanti eserciti, e solito piuttosto a compatire a chi s'arrende, che a perdonare a chi resiste. Pensassero a Dio, che condanna ogni eccesso; pensassero alle mogli ed ai figliuoli loro oramai vicini a divenir orfani dei mariti e dei padri condotti al precipizio da un insensato furore; avessero risguardo a quell'antichissima città, sedia di tanti artifizj preziosi, di tanti palazzi magnifici, la quale nè munita, nè difesa da esercito guerriero, sarebbe tosto preda di gente forestiera chiamata a vendetta da un capitano invitto: già fumare Binasco, presto aver a fumare anche Pavia, se più prestassero fede ad una illusione manifesta, che alle parole vere di chi per costume, per grado e per età aveva l'ingannare più in odio, che la morte.

Così parlava l'arcivescovo desiderosissimo di salvar la città; ma più poteva in chi lo ascoltava un feroce inganno, che le persuasive parole. Gridarono, non doversi dar orecchio all'arcivescovo, esser dedito ai Francesi, esser giacobino; e così su questo andare con altre ingiurie offendevano la maestà del dabben prelato. Adunque non rimaneva più speranza alcuna alla desolata terra; le matte ed inferocite turbe, accortesi oggimai che lo sperare nei Tedeschi era vano, e che i Francesi già stavano loro addosso, chiusero ed abbarrarono le porte, ed empierono tutto all'intorno le mura di armi e di armati. Ma ecco arrivare a precipizio il vincitor Buonaparte, ed atterrare a suon di cannoni le mal sicure porte. Fessi in sulle prime una tal qual difesa; ma superando fra breve le armi buone e le genti disciplinate, abbandonavano frettolosamente i difensori le mura, e ad una disordinata fuga si davano. Fuggirono per diverse uscite i contadini alla campagna: si nascondevano i cittadini per le case. Restava a vedersi quello che il vincitor disponesse: aspettava Pavia l'ultimo eccidio.

Entrava la cavallerìa della repubblica, correva precipitosamente, trucidava quanti incontrava: cento sollevati in questo primo abbattimento perirono. Entrava per la Milanese porta Buonaparte, e postovisi accanto con le artiglierìe volte contro la contrada principale, traeva a furia dentro la città. Quivi fra il romore dei cannoni, fra le grida dei fuggenti e dei moribondi, fra il calpestìo dei cavalli, fra lo strepito delle case diroccanti, tra il fremere dei soldati infiammatissimi alla ruina della terra, era uno spettacolo spaventevole e miserando. Ma se periva chi andava per le vie, non era salvo chi si nascondeva per le case. Ordinava Buonaparte il sacco, dava Pavia in preda ai soldati. Come prima si sparse fra i miseri cittadini il grido del dover andare a sacco, vi sorse tale un pianto, tale un terrore, tale una miseria, che avrebbe dovuto aver forza di piegare a pietà ogni cuor più duro. Ma le soldatesche, avventate di natura ed irritate alla morte dei compagni non si ristavano, e vi commisero opere non solo nefande in pace, ma ancora nefande in guerra. Erano in pericolo le masserizie, erano le persone; e le persone quanto più dilicate ed intemerate, tanto più appetite ed oltraggiate dagli sfrenati saccheggiatori. Le stanze poco innanzi seggio sì gradito di domestica felicità, divenivano campo di dolore e di terrore. I padri e le madri vedevano in cospetto loro contaminate quelle vite, che con tanta cura nodrite avevano illibate e caste; ed il minor dolore che si avessero erano le perdute sostanze. Funesti vestigj si stampavano nei penetrali più santi, della forestiera rabbia. Quanti nobili palazzi desolati! quanti ricchi arredi spersi! quanti utili arnesi fracassati! ma più periva il povero che il ricco; perciocchè perdeva questi il mobile, piccola parte del suo avere, perdeva quello l'uniche sostanze che si avesse. Quest'erano le primizie della libertà. Al che se per Buonaparte si rispondesse, che il sangue de' suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nissuno sarà per negare ciò esser vero; ma ognuno aggiungerà dall'altro lato, che non era stato punto necessario che si espilasse il monte di pietà, nè che s'insultassero le persone, nè che si rubassero le campagne. Perlochè ragion vuole, che questi atti barbari siano dagli uomini imputati alla vera origine loro, siccome le imputa certamente il sommo Iddio, giusto estimatore delle opere dei mortali.

Scese intanto la notte del venticinque maggio, e coperse i fatti abbominevoli da una parte, il dolore e la disperazione dall'altra. L'oscurità accresceva il terrore; le miserabili grida che uscivano da luoghi reconditi e bui, facevano segno che vi si venisse ad ogni estremo, di cui più la umanità ha ribrezzo, e terrore. Così fra mezzo ad un confuso tramestio di voci disperate, alle minacce di chi, avuto già molto, voleva ancora aver di vantaggio, all'andar e venire di soldati correnti con preda, od a preda, ai lumi incerti, che di quando in quando splendevano funestamente fra le tenebre, si trapassava quella notte orribile. Nè pose l'alba del seguente giorno fine al pianto ed alle ingiurie. Solo la cupidigia del rapire, che non mai si sazia, continuava più intensa della cupidigia del contaminare, che si sazia, e se il sacco era tuttavìa avaro, non era più lascivo. Ma la luce rendeva più miserabile agli occhi dei risguardanti il guasto che era seguìto la notte; potevano i padroni giudicare di vista quale e quanta fosse stata la ruina loro. Piangevano: la soldatesca intanto od adunatasi nelle vuotate case, od assembratasi nelle riempiute piazze con esultazioni romorose, e con risa smoderate, e col bere, e col tracannare, e col raccontare, e col vantare come suole, con soldatesco piglio quello che aveva fatto, e quello che non aveva fatto, mandava fuori l'allegrezza concetta per una immensa ingiuria vendicatrice di una immensa ingiuria. Tal era l'universale dei soldati: ma noi non vogliamo che lo sdegno, e la compassione da noi sentita per opere tanto enormi, ci faccia dimenticare i pietosi uffici fatti da molti soldati Francesi in mezzo a confusione sì fiera e sì orribile. Non pochi furono visti che abborrendo dalla licenza data da Buonaparte, serbarono le mani immuni dall'avaro saccheggiare; altri più oltre procedendo, fecero scudo delle persone loro ai miserandi uomini, ed alle miserande donne, chiamate a preda od a vituperio dai compagni loro. Sorsero risse sanguinose fra gli uni e gli altri in sì strana contesa, pietosa ad un tempo e scelerata; ed io ho udito raccontare, non senza lagrime di tenerezza, a fanciulle castissime, come della illibatezza loro in sì estrema sventura state fossero a Francesi soldati obbligate. Alcuni così operarono per buona natura, altri tirati da compassione; poichè entrati nelle desolate case con animo di far sacco, visto lo spavento ed il dolore degli abitatori, si ristavano, e da infuriati nemici ad un tratto diventavano generosi guardiani e difenditori. Nè mancarono di quelli, i quali vedendo le donne svenute alle immagini atroci che agli occhi loro si appresentavano, posto in obblìo il primo intento di far preda, intorno ad esse si affaticavano per farle risensare, e riconfortarle, potendo in loro più la compassione che l'avarizia. Altri finalmente furono visti, i quali trasportati dall'impeto comune, e già poste a ruba le magioni altrui se ne venivano carichi di bottino, tornarsene subitamente indietro a far la restituzione delle rapite suppellettili, solo perchè soccorreva loro in mente la miseria di coloro ai quali rapite le avevano. Così, se in mezzo a tanta concitazione alcuni Francesi di perduta natura non si rimasero nè alle preghiere nè alle grida compassionevoli dei saccheggiati, si scoverse in altri od una bontà intemerata, od una compassione più forte dell'ira e della cupidigia: nel che tanto maggior lode loro si debbe, che ebbero a superar l'esempio. Nè si dee passar sotto silenzio, che se si fece ingiuria alle robe ed alla continenza, non si pose però mano nel sangue. Il che non oserò già dire che mi rechi maraviglia; ma bene dirò, che mi par degno di grandissima commendazione, perchè il soldato poteva uccidere non solo impunemente, ma ancora utilmente. Parte anche essenziale di questo fatto fu l'immunità data alle case dell'università, le quali furono da quel turbine preservate, quantunque in se avessero, massimamente il museo di storia naturale, molti capi di pregio, anche per soldati. Questo benigno risguardo si ebbe per comandamento dei capi; e certamente le generazioni debbono con gratitudine riconoscere Buonaparte dello aver fatto in modo che il rispetto verso gli studj e verso i sussidj loro trovasse luogo fra tanti sdegni. Più mirabile ancora fu la temperanza dei capi subalterni, od anche dei gregarj medesimi, che portando rispetto al nome di Spallanzani, e di altri professori di grido, si astennero o pregati leggermente, od anche non pregati dal por mano nelle robe loro. Tanto è potente il nome di scienza, e di virtù, anche negli uomini dati all'armi, ed al sangue!

Finalmente il mezzodì del giorno ventisei, siccome era stato ordinato da Buonaparte, pose fine al sacco. Contento il vincitore a quel che aveva fatto, non incrudelì di soverchio contro a coloro, che presi con le armi in mano ancora grondanti di sangue Francese, meritavano, secondo le leggi, come le chiamano, della guerra, che i repubblicani facessero a loro quello, che essi avevano fatto ai repubblicani. Un solo fu fatto passar per le armi in sul primo fervore a Pavia; poi altri tre, che portati all'ospedale, già vi stavano per le ferite avute, con mal di morte. Raccontarono falsamente le gazzette e le storie dei tempi, che i municipali, uomini tutti nobili, fossero stati castigati con la morte, perchè solo furono tolti d'ufficio, e con altri cittadini di maggior credito, in qualità di ostaggi, condotti in Antibo. Calaronsi dai campanili le campane, disarmaronsi le popolazioni, ordinossi che la prima terra che strepitasse, sacco, ferro, e fuoco avrebbe.

Pavia percossa da tanta tempesta, se ne stette occupata molto tempo da uno stupore misto tuttavìa di spavento. Ma finalmente un vivere più regolato, quantunque non fosse senza molestia, le maniere piacevoli dei Francesi, soprattutto la mansuetudine di Haquin fecero di modo, che succedendo la sicurezza al terrore, ognuno tornasse all'opere consuete. Cominciavano intanto i Pavesi ad addomesticarsi con quei soldati, che avevano creduto tanto terribili per fama, e pruovato vieppiù terribili per atto. Siccome poi il primo e principale ornamento di Pavia era l'università, così il nuovo reggimento poneva cura, che ed ella si aprisse, ed i professori si accarezzassero. Secondavano il buon volere di chi governava i Francesi medesimi, particolarmente quelli, che non nuovi essendo nelle scienze e nelle lettere, onoravano e con ogni gentil modo accarezzavano Spallanzani, Scarpa, Volta, Mascheroni, Presciani, Brugnatelli, ed altri celebrati uomini, lume e splendore d'Italia. Fra il romore dell'armi sorgeva l'università di Pavia, e l'opera più bella di Giuseppe II imperatore era fomentata ed ajutata da coloro, che avevano cacciato i suoi successori da quelle loro antiche possessioni. Solo dispiacque la elezione procurata e fatta di Rasori alla carica di professore, perchè camminava, come giovane, con soverchio affetto nelle nuove cose, e quei professori, uomini gravi, prudenti e pratichi del mondo, amavano meglio chi si mostrava inclinato al conservare uno stato già pruovato, di coloro ai quali piacevano innovazioni d'effetto incerto.

Buonaparte, posato il moto di Pavia, che aveva interrotto i suoi pensieri, s'indirizzava di nuovo a colorire gli ultimi suoi disegni contro Beaulieu, che, come già fu per noi narrato, alloggiava con le reliquie delle sue genti sulla riva sinistra del Mincio, per guisa che essendo padrone dei ponti di Rivalta, di Goito e di Borghetto, aveva facilmente accesso sulla destra. Ora si avvicinavano gli estremi tempi della repubblica Veneziana. La tempesta di guerra, stata finora lontana da' suoi territorj, doveva fra breve scagliarvisi, e due nemici adiratissimi l'uno contro l'altro erano pronti a combattervi battaglie, che ogni cosa presagiva aver a riuscire ostinate e micidiali. Vedeva il senato, che la terraferma quieta allora da ogni perturbazione, sarebbe presto divenuta sedia di guerra, perchè sapeva, che i Francesi si erano risoluti ad andar ad assalire il loro nemico, dovunque il trovassero. Impossibile era il prevedere quali avessero ad essere precisamente gli effetti del duro contrasto, che sulle terre Venete si preparava, ma certo era, che avrebbe portato con se accidenti di somma pernicie, perchè non più si trattava del semplice passo di un esercito che va ad altro destino, e che non avendo alcun timore, non occupa con stanze stabili le terre grosse, nè i luoghi forti; ma bene si era giunto a tale che ambe le parti avendo a combattere fra di loro, avrebbero l'una e l'altra per primo pensiero il procacciarsi i proprj vantaggi, anche a pregiudizio della neutralità Veneziana; perciocchè la salute propria, e la necessità di vincere sono più forti del rispetto, che si dee portare alla dignità ed ai diritti altrui.

Non avevano pretermesso i pubblici rappresentanti di Brescia e di Bergamo, principalmente quest'ultimo, cittadino zelantissimo, d'informare diligentemente il governo di quanto accadeva sui confini; e del pericolo che ogni giorno si faceva più grave: ma le instanze loro restarono senza frutto, perchè ed il tempo mancava, ed i partigiani della neutralità disarmata tuttavia prevalevano nelle consulte della repubblica. Ma stringendo ora il tempo, e desiderando il senato, che in un caso di tanta, anzi di totale importanza, le cose di terraferma fossero rette con unità di consiglj aveva tratto a provveditor generale in essa Niccolò Foscarini, stato ambasciadore a Costantinopoli, uomo amatore della sua patria e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso; del che diè tosto segno, perchè nell'ingresso medesimo della sua carica già si mostrava pieno di spaventi, e di pensieri sinistri. Sperava il senato che Foscarini avrebbe potuto con la sua destrezza intrattenere convenevolmente i due capi nemici, e dimostrando loro la sincerità della repubblica, ottenere che inferissero il minor male che possibil fosse, a quelle terre innocenti. Confidava altresì che i popoli della terraferma, vedendo in una persona sola un tanto grado e tanta autorità, si confermerebbero vieppiù nella divozion loro verso la repubblica; perchè il mandare un provveditor a posta, affinchè vigilasse sulla salute loro, era testimonio che la repubblica non gli abbandonava. Diessi, come moderatore a Foscarini, il conte Rocco San-Fermo, con quale prudenza non si vede, perchè San-Fermo parteggiava piuttosto pei Francesi, ed era in cattivo concetto presso ai Tedeschi per essere stata la sua casa in Basilea il ritrovo comune dei ministri di Prussia, di Spagna e di Francia, quando negoziavano fra di loro la pace. Avuto così grave mandato, se ne veniva il provveditor generale a fermar le sue stanze in Verona, città grossa, posta sul fiume Adige, e vicina ai luoghi dove aveva primieramente a scoppiare quel nembo di guerra. L'accoglievano i Veronesi molto volentieri, e gli fecero allegrezze, confidando che la sua presenza avesse pure ad operar qualche frutto a salute loro. Ma non conoscevano i tempi: il senato medesimo non gli conosceva: perchè lo sperare in tanta sfrenatezza di principj politici, ed in un affare in cui dalle due parti vi andava tutta la fortuna dello stato, che si sarebbe portato rispetto al retto ed all'onesto, e che un magistrato privo di armi potesse fare alcun frutto, era fondamento del tutto vano. Bene il predicava il procurator Pesaro, armi chiedendo ed armati; ma impedirono così salutifero consiglio le fascinazioni della parte avversaria, ed abbandonossi inerme la repubblica nella fede di coloro, che non ne avevano.

Ripigliando ora il filo delle imprese di Buonaparte, era suo pensiero, per rompere le difese del Mincio, di dar sospetto a Beaulieu, ch'egli volesse, correndo per la occidentale sponda del lago di Garda, occupare Riva, e quindi gettarsi a Roveredo, terra posta sulla strada, che dall'Italia porta al Tirolo. Perlochè, passato l'Olio ed il Mela, poneva gli alloggiamenti in Brescia, donde ad arte faceva correre le sue genti più leggieri verso Desenzano; anzi procedendo più oltre, mandava una grossa banda, condotta da Rusca, fino a Salò, terra a mezzo lago sulla sua destra sponda. Per nutrire vieppiù nel nemico la falsa credenza, che sua sola intenzione fosse di sprolungarsi sulla sinistra per correre verso le parti superiori del lago col fine suddetto di mozzar la strada agli Austriaci per al Tirolo, aveva tirato sul centro e sulla destra le sue genti indietro per guisa, che in vece di star minacciose sulla destra del Mincio, si erano fermate alcune miglia lontano dal fiume nelle terre di Montechiaro, Solfarino, Gafoldo e Mariana, e le teneva quiete negli alloggiamenti loro.

Era Brescia possessione dei Veneziani. Però volendo Buonaparte giustificare questo atto del tutto ostile verso la repubblica, perchè gli Austriaci avevano passato pei territorj Veneti, ma non occupato le terre grosse e murate, mandava fuori da Brescia il dì ventinove di maggio un bando, promettitore, secondo il solito, di quello che non aveva in animo di attenere, avere, diceva, l'esercito Francese superato ostacoli difficilissimi per venire a torre il grave giogo dell'Austria superba dal collo della più bella parte d'Europa: vittoria, e giustizia congiunte avere compito il suo intento; le reliquie del nemico essersi ritratte oltre Mincio; passare, a fine di seguitarle, i Francesi per le terre della Veneziana repubblica; ma non essere per dimenticare l'antica amicizia, da cui erano le due repubbliche congiunte; non dovere il popolo avere timore alcuno; rispetterebbesi la religione, il governo, i costumi, le proprietà; pagherebbesi in contanti quanto fosse richiesto; pregare i magistrati ed i preti, informassero di questi suoi sentimenti i popoli, affinchè una confidenza reciproca confermasse quell'amicizia, che da sì lungo tempo aveva congiunto due nazioni fedeli nell'onore, fedeli nella vittoria. A questo modo Buonaparte, il dì ventinove di maggio del novantasei, chiamava amica di Francia quella repubblica, che il direttorio, e Buonaparte medesimo già avevano accusato, come di gran reità, dello aver dato ricovero al conte di Lilla; qualificava fedele nell'onore quella nazione, che già avevano accagionato di aver dato il passo alle genti Tedesche. La forza della verità operava da un lato, la cupidigia del rapire e del distruggere dall'altro.

Come prima Beaulieu ebbe avviso, avere i repubblicani occupato Brescia, valendosi del pretesto, pose presidio in Peschiera, fortezza Veneziana situata all'origine dell'emissario del lago di Garda, e che altro non è, se non il fiume Mincio. Temeva, che Buonaparte non portasse più rispetto a Peschiera che a Brescia, ed era la prima, se fosse stata bene munita, principale difesa del passo del fiume. Era Peschiera piazza forte, ma il senato, o, per meglio dire, i Savj, persistendo in quella loro eccessiva neutralità, nè sospettando di un turbine tanto impetuoso, l'avevano lasciata senza difesa. Solo sessanta invalidi la presidiavano: aveva bene ottanta cannoni, ma senza carretti, e per munizioni, cento libbre di polvere, ma cattiva; fortificazioni in rovina, ponti levatoj impossibili a levarsi, difese esteriori senza palizzate, strada coperta ingombra d'alberi, non una bandiera da rizzarsi sulle mura per far segno a qual sovrano la fortezza appartenesse. Bene aveva il colonnello Carrera, comandante, rappresentato al provveditor generale la condizione della piazza, domandato soldati, armi e munizioni, avvertito il pericolo dell'indifesa fortezza in tanta vicinanza di soldati nemici. Ma Foscarini, che aveva più paura del difendersi, che del non difendersi, aveva trasandato le domande del comandante. La quale eccessiva continenza gli fu poi acerbamente rimproverata da coloro, in favor dei quali ei l'aveva usata, perciocchè Buonaparte affermava, che se il provveditor generale avesse mandato solamente due mila soldati da Verona a Peschiera, sarebbe stata la piazza preservata; il che era vero: ma se Foscarini non l'aveva fatto, ciò era stato per non offendere il capitano Francese, non per compiacere al capitano Tedesco.

Occupatasi Peschiera dagli Alemanni, vi fecero a molta fretta quelle fortificazioni che per la brevità del tempo poterono, rassettando i bastioni e le altre difese cadute in rovina per la vetustà. Intanto Buonaparte, sicuro di aver ingannato il nemico con dargli concetto che volesse spingersi verso la punta superiore del lago, si apparecchiava a mettere ad esecuzione il suo disegno. Era questo di sforzare il passo del Mincio a Borghetto. Non era stato il generale Austriaco senza sospetto, quantunque per le dimostrazioni del suo avversario avesse ritirato parte delle sue genti ai luoghi superiori, che il vero pensiero di Buonaparte fosse di assaltarlo a Borghetto. Però aveva munito il ponte con le opportune difese, avendo ordinato che quattromila soldati eletti si trincerassero sulla destra alla bocca del ponte, e che sulla sponda medesima diciotto centinaja di cavalli stessero pronti a spazzare all'intorno la campagna, ed a calpestare chi s'accostasse. Il resto delle genti alloggiava sulla sinistra accosto al ponte per accorrere in ajuto della vanguardia, ove pericolasse. Muovevansi improvvisamente la mattina i repubblicani da Castiglione, Capriana, Volta e s'indirizzavano al ponte di Borghetto. Successe una battaglia forte, perchè gli Austriaci già tante volte vinti, non si erano perduti d'animo, anzi valorosamente combattendo sostenevano l'impeto dei Francesi. Restavano superiori sulla prima giunta, perchè non essendo ancora arrivate tutte le genti di Francia, che dovevano dar dentro, la vanguardia, che prima aveva ingaggiato la battaglia, fortemente pressata dalla cavallerìa Tedesca, cominciava a crollare ed a ritirarsi. Ma sopraggiungendo squadroni freschi, massimamente cavalli ed artiglierìe, furono gli Austriaci risospinti, nè potendo più resistere alla moltitudine che gli assaltava virilmente da tutte le parti, abbandonata del tutto la destra del fiume, si ricoverarono sulla sinistra. Guastarono un arco del ponte, acciocchè il nemico non gli potesse seguitare. Qui succedeva un tirar di cannoni molto fiero da una parte e dall'altra del fiume, ma senza frutto, perchè nè i Francesi potevano passare per la natura del ponte, nè i Tedeschi si volevano ritirare. Ma erano le battaglie dei Francesi di quei tempi più che d'uomini, e con più costanza e' le sostennero che i loro antichi. Ed ecco veramente che il generale Gardanne, postosi a guida di una mano di soldati coraggiosissimi, si metteva in fiume, non curando nè la profondità di lui, perciocchè l'acqua gli arrivava insino a mezzo petto, nè la tempesta delle palle che dall'opposta riva si scagliavano: già varcava, ed alla sinistra sponda si avvicinava. A tanta audacia il timore occupava gli Austriaci; si ricordarono del fatto di Lodi, rallentarono le difese, fu fatto abilità ai repubblicani, non solo di passare a guado, ma ancora di racconciare il ponte. La qual cosa diede la vittoria compita ai Francesi: e come l'ebbero, così l'usarono; perchè avendo passato, si davano a perseguitar l'inimico, sì per romperlo intieramente, e sì per impedire, se possibil fosse, che gittasse un presidio dentro Mantova, fortezza di tanta importanza. Ma Buonaparte, che sapeva bene e compiutamente far le cose sue, per tagliar la strada al nemico verso il Tirolo, aveva celeremente spedito Augereau contro Peschiera, comandandogli che s'impadronisse a qualunque costo della fortezza, e corresse a Castelnuovo ed a Verona. Così impossibilitati a ricoverarsi in Mantova ed a ritirarsi in Tirolo, gl'imperiali sarebbero stati in gravissimo pericolo. Beaulieu, che aveva pe' suoi corridori avuto avviso dell'intenzione del nemico, conoscendo che poichè i repubblicani avevano passato il Mincio, non poteva più avere speranza di resistere, aveva del tutto applicato l'animo al ritirarsi ai passi forti del Tirolo; nè per lui si poteva indugiare, perchè il tempo stringeva. Laonde, introdotto in Mantova un presidio di dodici mila soldati con molte munizioni sì da bocca che da guerra, s'incamminava con presti passi alla volta di Verona. Gli convenne ancor fare, per dar tempo a' suoi di raccorsi, una testa grossa, e sostenere una stretta battaglia tra Valleggio e Villafranca, sulla sponda di un canale largo e profondo, che congiunge le acque del Mincio con quelle del Tartaro. Infatti mentre si combatteva a riva del canale, Beaulieu faceva spacciare prestamente Peschiera e Castelnuovo, e per tal modo, raccolto in uno tutto l'esercito, si difilava velocemente, avendo la notte interrotto la battaglia del canale verso l'Adige: quindi passato questo fiume a Verona, guadagnava i luoghi sicuri del Tirolo. Augereau trionfante e minaccioso entrava nell'abbandonata Peschiera.

Questa fu la conclusione della guerra fatta da Beaulieu in Italia, da cui si rende manifesto, che se le armi Francesi di tanto riuscirono superiori alle sue, debbesi, non a mancanza di valore nei soldati dell'imperatore attribuire, ma bensì all'arte ed all'astuzia militare, per cui il giovane generale di Francia di sì gran lunga superò il vecchio generale d'Alemagna. Del resto fu Beaulieu capitano pratico e risoluto, e la perdita della battaglia di Montenotte, che aperse i passi d'Italia ai Francesi, hassi unicamente a riconoscere da un accidente straordinario; le disposizioni prese da lui innanzi, e durante il fatto furono per ogni guisa eccellenti, e senza l'impensato intoppo di Rampon, è verisimile che la fortuna si sarebbe scoperta favorevole a Beaulieu piuttosto che a Buonaparte. Certamente per poco stette, che il cattivo consiglio di quest'ultimo, nel quale ebbe anche contrarj i suoi migliori generali, dello aver corso a Voltri e fortificato debolmente Montenotte, non fosse cagione della sconfitta dei repubblicani.

S'incominciavano intanto a manifestare i maligni segni di quel veleno, che il direttorio e Buonaparte nutrivano contro la repubblica di Venezia, meno forse per odio che per utile; il che peraltro è più odioso. Due erano i principali fini a cui tendevano, dei quali uno accidentale e temporaneo, l'altro da lungo tempo premeditato e perpetuo. Si conteneva il primo in questo, che l'esercito acquistasse per se tutti i mezzi di perseguitar l'inimico e d'impedire il suo ritorno. Era il secondo di turbare lo stato quieto della repubblica Veneta, perchè pel presente si aprissero le occasioni di vivervi a discrezione, e per l'avvenire sorgessero pretesti per darla in preda, secondochè pei tempi si convenisse, a chi l'accetterebbe, come prezzo di pace con la Francia. All'uno ed all'altro fine conduceva acconciamente l'occupazione di Verona, perchè il suo sito, dove sono tre punti, è padrone del passo dell'Adige, ed è a chi scende dall'Alpi Rezie, principale impedimento a superarsi. Da un'altra parte l'acquisto di una piazza tanto principale non poteva farsi dai Francesi senza un grande sollevamento d'animi in quelle provincie.

Adunque al fine d'impossessarsi di Verona indirizzò, dopo la vittoria di Borghetto e la presa di Peschiera, Buonaparte i suoi pensieri: e però, siccome quegli che era maestro perfetto d'inganni, incominciò a levare un romore grandissimo, e ad imperversare sclamando, che Venezia per aver dato ricovero ne' suoi stati al conte di Lilla, si era scoperta nemica alla Francia, e che l'aver lasciato occupare Peschiera dagl'imperiali dimostrava la parzialità del governo Veneto verso di loro. E così tempestando, e moltiplicando ogni ora più nello sdegno e nelle minacce, affermava volersene vendicare. Di tratto in tratto prorompeva anzi con dire, che non sapeva quello che il tenesse, che non ardesse da capo in fondo Verona, città, soggiungeva, tanto temeraria, che si era creduta capitale dell'impero Francese. In questo alludeva al soggiorno fattovi dal conte di Lilla, pretendente alla corona di Francia. La quale intemperanza ed assurdità di Buonaparte, sebbene sia raccontata come se fosse un giojello da alcuni scrittori di storie dei nostri tempi, ai quali più piacciono le giattanze di lui che la verità e la ragione, non so se sia o più indegna del grado del capo di un esercito grande, o più ridicola in se stessa; perchè, la Dio mercè, non fu mai nessuno in Verona, nemmeno credo, i matti, se qualcuno ve n'era, che abbia creduto che la città loro fosse diventata capitale dell'impero Francese. Solo credettero aver fatto un'opera pietosa, coll'aver dato ricovero dentro le loro mura ad un principe perseguitato ed infelice.

Quanto al fatto di Peschiera, da quello che abbiam narrato di sopra si può giudicare, se posciachè i Veneziani, per non dar sospetto ai due nemici, massime ai Francesi, non avevano voluto munire quella fortezza, fosse la medesima difendevole, e se potessero impedire in un caso tanto improvviso, che i Tedeschi vi entrassero; e poichè Buonaparte si lamentava di questo fatto, saria bene a sapersi, se Peschiera in quello stato in cui era, quando i Tedeschi l'occuparono, più fosse fortezza, che Crema, o Brescia, quando furono occupate dal capitano di Francia. Bene sapeva egli che cosa vi fosse in fondo di tutto questo, stantechè scriveva al direttorio il dì sette giugno, che la verità dell'affare di Peschiera era, che Beaulieu aveva vituperosamente ingannato i Veneziani, avendo loro solamente domandato il passo per cinquanta soldati, e che con questo pretesto si era impadronito della terra. Ma il vero od il falso non arrestavano Buonaparte, e queste querele faceva in primo luogo per accennare, come abbiamo detto, a Verona, nella quale, per esser munita di tre fortezze ed assicurata da una grossa banda di Schiavoni, non poteva entrar di queto senza il consenso dei Veneziani; in secondo luogo per fare dar denaro a Venezia, conciossiachè scriveva egli al direttorio il dì suddetto in proposito di questo medesimo fatto di Peschiera, a bella posta avere aperto questa rottura, perchè se volessero cavar cinque o sei milioni da Venezia, sì il potessero fare. Così ad una brutta sete dell'oro soggettava il capitano repubblicano la verità, il giusto e l'onesto.

Gl'imperversamenti e le minacce di Buonaparte pervennero alle orecchie del provveditor generale Foscarini, che le udì con grandissimo terrore. E però per dare al generale repubblicano le convenienti giustificazioni, che dalla sua bocca propria, e non da quella d'altrui voleva udire, si mise in viaggio col segretario San Fermo per andarlo a visitare in Peschiera. Giunto al cospetto del giovane vincitore, e ristrettosi con esso lui e con Berthier, che è da lodarsi per la umanità mostrata in tutte queste occorrenze, se però non era un concerto alla soldatesca tra lui e Buonaparte, protestava ed asseverava, avere sempre la repubblica Veneziana, ed in ogni accidente seguitato i principj della più illibata neutralità. Rispondeva minacciosamente Buonaparte, che non voleva esser convinto, ma bensì intimorire, che male aveva corrisposto Venezia all'amicizia della Francia, che i fatti erano diversi assai dalle parole, che per tradimento avevano i Veneziani lasciato occupar dai Tedeschi Peschiera; il che era stato cagione ch'egli avesse perduto mila e cinquecento soldati, il cui sangue chiamava vendetta; che la neutralità voleva che si resistesse agli Austriaci; che se i Veneziani non bastassero, sarebbe egli accorso; che doveva la repubblica con le sue galere vietar loro il passo pel mare e pei fiumi; che insomma erano i Veneziani amici stretti degli Austriaci. Quindi trascorrendo dalle minacce alla barbarie, rimproverava con asprissime parole ai Veneziani l'aver dato asilo negli stati loro ai fuorusciti francesi, ed al conte di Lilla, nemico principale della repubblica di Francia; procedendo finalmente dalla crudeltà alle menzogne, sclamava, che prima del suo partire aveva avuto comandamento dal direttorio di abbruciar Verona, e che l'abbrucierebbe; che già contro di lei marciava con cannoni e mortai Massena, che già forse le artiglierìe di Francia la fulminavano, e che già forse ardeva; che tal era il castigo che i repubblicani davano pel ricoverato conte di Lilla; che aspettava fra sette giorni risposta da Parigi per dichiarar la guerra formalmente al senato; che Peschiera era sua, perchè conquistata contro gli Austriaci; che di tutte queste cose aveva informato il ministro di Francia in Venezia, quantunque, aggiungeva, queste comunicazioni diplomatiche tenesse in poco conto, acciocchè il senato ne ragguagliasse. Così Buonaparte, che sapeva di certo, e lo scrisse al direttorio, che per fraude, e contro la volontà dei Veneziani erano gli Austriaci entrati in possessione di Peschiera, questo fatto attribuiva a tradimento dei Veneziani.

Spaventato in tale modo l'animo del provveditore, stette Buonaparte un poco sopra di se; poscia, come se alquanto si fosse mitigato, soggiunse, che della guerra e di Peschiera aspetterebbe nuovi comandamenti dal direttorio; sospenderebbe per un giorno il corso a Massena, ma il seguente s'appresenterebbe alle mura di Verona; che se quietamente vi fosse accettato e lasciato occupar i posti da' suoi soldati, manterrebbe salva la città, ed avrebbero i Veneti la custodia delle porte, i magistrati il governo dello stato; ma che se gli fosse contrastato l'ingresso, sarebbe Verona inesorabilmente arsa e distrutta.

Queste arti usava Buonaparte il dì trentuno maggio per ottenere pacificamente il possesso di Verona. Dal che si vede qual fede prestar si debba al suo manifesto dato da Brescia il dì ventinove del mese medesimo, e quale fosse la sincerità delle sue promesse. Così quella repubblica di Venezia, che due giorni prima era stata chiamata amica della Francese, e dichiarata aver sempre camminato nelle vie dell'onore, era il dì trentuno del mese medesimo divenuta, e già da lungo tempo, non solo infedele, ma perfida e nemica alla Francia, ed il direttorio aveva comandato a Buonaparte, che ostilmente contro una delle città più eminenti del suo dominio e di tutta Italia corresse. Certamente non era questo un procedere degno di un generale di una nazione civile, e che ha nel nemico in odio più la perfidia che la guerra. Tale sarà il giudizio che ne faranno le generazioni sì presenti che future, in cui la virtù sarà sempre più potente che il vizio.

Da questa insidia, e da queste minacce si rendeva chiaro, quali dovessero essere le deliberazioni del provveditor Veneto; posciachè, prescindendo anche dagl'indegni oltraggi, quel dire di voler arder sul fatto una città nobilissima del territorio Veneto, quell'affermare che fra sette giorni poteva venir caso ch'ei dichiarasse formalmente la guerra a Venezia, della verità o falsità della quale affermazione non poteva a niun modo il provveditore giudicare, non solo rendevano giusta, ma ancora necessaria una subita presa di armi dal canto dei Veneziani. Quello era il momento fatale della Veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo; e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Piero Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente sparse per fondare il dispotismo di un capitano barbaro. Che se Foscarini non aveva questo mandato dal senato, l'aveva dal cielo, favoreggiatore delle cause pie, e nemico dei tiranni, l'aveva dalla sua nobil patria, l'aveva dal consentimento di tutti i buoni gonfi di sdegno all'aspetto di sì inudita empietà. Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Buonaparte, ma con un suonar di campana a martello continuo, con un predicar alto di preti contro i conculcatori della sua innocente patria, con un dar armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalle lagune all'Adige, dalle bocche del Timavo all'emissario di Lecco. Certamente in un moto tanto universale molte vite sarebbero mancate, molte città distrutte, Verona forse data alle fiamme, ma la repubblica fora stata salva. Forse alcuni sentiranno raccapriccio all'udir rammentare di queste battaglie di popoli. Pure le usarono contro i Francesi gli Austriaci, sebbene non prosperamente, nell'ottocentonove, e furono lodati: le usarono contro i Francesi medesimi prosperamente gli Spagnuoli nell'ottocentodieci, i Prussiani nell'ottocentotredici, e furono lodati; le vollero usare i Francesi contro gli Europei nell'ottocentoquindici, e se non furono lodati, non furono neanco biasimati. Ora non si vede perchè non sarebbe stato lodevole ai Veneziani di usarle: che se gli Austriaci, gli Spagnuoli, i Prussiani, ed i Francesi hanno qualche privilegio, quando ne va la indipendenza, anzi l'essere, od il non essere dello stato, di difendersi a stormo, sarìa bene che il mostrassero, affinchè gl'Italiani si acquetino a tanto diseredamento.

So che alcuni diranno, che il governo di Venezia era cattivo; ma si risponderà dagli uomini savj, che non tocca ai forestieri il giudicare della natura del governo, e meno ancora il correggerla; nè so se muova più a sdegno che a compassione il pensare, che queste querele dottoresche sulla mala natura del governo Veneto vengono principalmente da quelli, che hanno trovato ottimo il governo del direttorio, che voleva far tagliar la testa ai naufragati, e quello di Buonaparte, che teneva prigioni per corso d'anni, ed anche in vita senza forma di processo gl'innocenti. Fatto sta, che poichè si voleva rendere i popoli Veneziani servi dei forestieri, e' bisognava con risoluzione magnanima fare, che i popoli Veneziani si salvassero da se; ma Niccolò Foscarini, in vece di gridar campane, come Piero Capponi, corse, pieno di paura, a Verona, e diede opera che gli Schiavoni, nei quali consisteva la principale difesa, l'abbandonassero, e che così i magistrati come i cittadini ricevessero pacificamente i soldati di Buonaparte. Il non aver usato il rimedio dei popoli non solo fu fatale per l'effetto, ma fu anche inutile per la fama; imperciocchè ed i partigiani e gli storici pubblicarono a quei tempi, e tuttavìa pubblicano, sebbene bugiardamente, ma per giustificare la sceleraggine commessa contro Venezia, che se Venezia non fece, volle fare lo stormo contro i Francesi, già prima che succedesse la sollevazione di Verona del novantasette, che racconteremo a suo luogo. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto veramente è falsa, non si sa che si volesse significare il manifesto di Brescia. So che dagli adulatori di Buonaparte viene, sebbene con la solita falsità, accagionato di aver macchinato questo stormo Alessandro Ottolini, podestà di Bergamo a quei tempi, uomo meritevole di ogni lode per la fedeltà e la sincerità sua verso la patria; ma egli solamente s'ingegnava di mantenere le popolazioni Bergamasche affezionate al nome Veneziano; e se quando s'impadronirono i Francesi di Verona, divenne Ottolini più vigilante e più attivo, e fece opera che le popolazioni si ordinassero, il fece perchè le minacce ed i fatti di guerra del capitano del direttorio a ciò lo sforzarono. Quell'ordinarsi accennava, non un voler nuocere altrui, ma un impedire che altri nuocesse a lui, e se Ottolini si armava, avrebbe fatto meglio l'armarsi molto più. Certamente avrebbe egli mancato del suo dovere verso la patria, se in tanto romore di guerra, non solo imminente, ma presente negli stati di Venezia, non avesse procurato di serbarsi padrone di se medesimo, e capace di mantenere con buoni ordinamenti salva la provincia commessa alla sua fede rispetto ai due nemici, che venivano a rapire le sostanze Veneziane, e ad ammazzarsi tra di loro sulle terre della repubblica. Ma nei tempi scorretti che abbiamo veduto, fu costume il chiamar traditori, ed il perseguitare con ogni sorte di pubblico improperio coloro, che più sono stati fedeli alle loro patrie, come se fosse stato debito loro il servire piuttosto a Buonaparte nemico, che ai principi proprj ed alla patria, ed a quanto ha la patria in se di caro e di giocondo. Così fu infamata la virtù di Alessandro Ottolini e di Francesco Pesaro in Italia, di Stadion in Austria, di Stein in Prussia: così anche furono condotti a morte Palmer di Baviera, Hofer di Tirolo: così finalmente i magnanimi Spagnuoli furono chiamati col nome di briganti. Queste cose chi generoso scrittore fosse, dovrebbe con disdegnosa e riprenditrice penna altamente dannare, non cercar di scusare, ora con le parole ed ora col silenzio, l'inganno, l'ingiustizia, e la tirannide.

Come prima si sparse in Verona, per la venuta del Foscarini, che i Francesi vi sarebbero entrati per alloggiarvi, vi nacque nelle persone di ogni condizione e grado uno spavento tale, che pareva che la città avesse ad andare a rovina. Più temevano i nobili che i popolani, perchè sapevano che i repubblicani gli perseguitavano. Il popolo raccolto in gran moltitudine sulle piazze e per le contrade, pieno di afflizione e di terrore accusava la debolezza di Foscarini, e le perdute sorti della repubblica. Lo stare pareva loro pericoloso, l'andarsene misero. Pure il pericolo presente prevaleva, e la maggior parte fuggivano. Fu veduta in un subito la strada da Verona a Venezia impedita da un lungo ingombro di carrozze, di carri e di carrette, che le atterrite famiglie trasportavano con quelle suppellettili, che in tanta affoltata avevano a molta fretta potuto raccorre. Facevano miserabile spettacolo le donne coi fanciulli loro in braccio od a mano, che piangendo abbandonavano una sede gradita per amenità di sito, graditissima per una lunga stanza. Nè minor confusione era sull'Adige fiume; perchè insistevano i fuggiaschi occupati nel caricare sulle navi a tutta pressa le masserizie più preziose dei ricchi, e gli arnesi più necessarj dei poveri: navigavano intanto a seconda per andar a cercare in lidi più bassi, od oltre le acque del mare terre non ancora percosse dalla furia della guerra.

Entrarono il dì primo giugno i Francesi in Verona. Quivi Buonaparte lodava l'aspetto nobile della città, i magnifici palazzi, le spaziose piazze, i tempj, le pitture, insomma ogni cosa, e più di tutto, per indurre opinione ch'egli elevasse l'animo alla grandezza Romana, l'Arena, opera veramente mirabile dei Romani antichi. Si rendevano anche padroni di Legnago e della Chiusa. A Verona non solo occuparono i ponti, ma ancora le porte e le fortificazioni. Così si verificava, secondo il solito, la promessa di Buonaparte del voler solo occupare i ponti. Al medesimo modo, pure secondo il solito, mantenne le promissioni da lui fatte nel manifesto di Brescia del voler pagare in contanti tutto ch'ei richiedesse in servigio dei soldati; imperciocchè essendosi sparsi nelle campagne testè felici del Bergamasco, del Bresciano, del Cremasco e del Veronese, vi facevano tolte incredibili, che, non che si pagassero, non si registravano; seguivano mali tratti e scherni ancor peggiori; nè le cose rapite bastavano od erano d'alcun frutto, perchè si dissipavano con quella prestezza medesima, con cui si rapivano. Quindi era desolato il paese, nè abbondante l'esercito, nè mai si fece un dissipare di quanto alla umana generazione è necessario, così grave e così stolto, come in questa terribil guerra si fece. I popoli intanto vessati in molte forme, e cadendo da una lunga agiatezza in improvvisa miseria, entravano in grandissimo sdegno, e si preparavano le occasioni a futuri mali ancor più gravi.

A questo tempo si udirono le novelle della dedizione del castello di Milano; il comandante austriaco Lamy, perduta per le vittorie di Buonaparte ogni speranza di soccorso, si arrese a patti il dì ventinove giugno, salve le robe, e le persone, eccettuati solo i fuorusciti Francesi, che dovevano essere consegnati ai repubblicani. Trovarono dentro la fortezza cencinquanta cannoni grossi, sei mila fucili, polvere e palle in proporzione, con molto bestiame vivo. Fu questo acquisto di grande importanza ai Francesi, perchè era il castello come un freno ai Milanesi, e molto assicurava le spalle dei repubblicani. Per solennizzare questa vittoria, si fecero molte feste, balli e conviti, dai repubblicani Francesi meritamente, dai repubblicani Italiani per imitazione.

La ruina sotto dolci parole si propagava in altre parti d'Italia; perchè trovandosi Buonaparte, per le vittorie di Lodi e di Borghetto, e così per la ritirata di Beaulieu alle fauci del Tirolo, sicuro alle spalle e sul sinistro fianco, voltò l'animo ad allargarsi sul destro; quivi ricche e fertili terre l'allettavano. Restavano oltre a ciò a domarsi il papa, ed il re di Napoli, e ad espilare il porto di Livorno. Per la qual cosa, spingendo avanti le sue genti, dopo l'occupazione di Modena, s'incamminava alla volta di Bologna, città, forse più di ogni altra d'Italia, piena d'uomini forti e generosi, e che conoscendo bene la libertà, non la misurava nè dalla licenza nè dal servaggio forestiero.

Aveva il senato di Bologna anticonosciuto, che per la vittoria di Lodi diveniva il generale Francese signore di tutta la Lombardìa, quanto ella si distende dall'Alpi agli Apennini. Però desiderando di preservare il Bolognese, e massimamente la capitale, dalle calamità che accompagnano la guerra, aveva a molta fretta, dopo di aver creato un'arrota d'uomini eletti con autorità straordinaria, mandato a Milano i senatori Caprara e Malvasia coll'avvocato Pistorini, acciò veduto il generalissimo, il pregassero di aver per raccomandata la patria loro. Al tempo medesimo il sommo pontefice, spaventato dall'aspetto delle cose, siccome quegli, che nell'approssimarsi dei repubblicani vedeva non solo la ruina del suo stato temporale, ma ancora novità perniciose alla religione, specialmente se come nemici allo stato pontificio si accostassero, aveva commesso al cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, che già era intervenuto alla composizione con Parma, andasse a Milano, e procacciasse di trovar modo d'accordo con quel capitano terribile della repubblica di Francia. Era Azara molto benignamente trattato da Buonaparte, e perciò personaggio atto a far quello che dal pontefice gli era stato raccomandato. Furono dal generale umanamente uditi i senatori di Bologna: parlaronsi nei colloquj secreti di molti gravi discorsi, il fine dei quali tendeva a slegare i Bolognesi dalla superiorità pontificia, a restituire quel popolo alla sua libertà statuita già fin dai tempi della lega Lombarda, e ad impetrare che i soldati repubblicani, passando pel Bolognese, vi si comportassero modestamente. Questi erano suoni molto graditi ai popoli di quel territorio: Buonaparte che sel sapeva, promise ogni cosa, e più di quanto i deputati avevano domandato: partironsi molto bene edificati di lui, e se ne tornarono a Bologna. Intanto le sue genti marciavano. Comparivano il diciotto giugno in bella mostra, e con aria molto militare poco distante da Bologna dalla parte di Crevalcuore. Nel giorno medesimo una banda di cavalli condotta da Verdier entrava, come antiguardo, in Bologna, e schieratasi avanti al palazzo pubblico faceva sembiante d'uomini amici e liberali. Il cardinal Vincenti legato, non prevedendo che fosse giunta al fine in quella legazione l'autorità di Roma, avvisava il pubblico dell'arrivo dei Francesi, e della buona volontà mostrata dai capi. Esortava che attendessero quietamente ai negozj; comandava che rispettassero i soldati; minacciava pene gravi, anche la morte, secondo i casi, a chi o con parole o con fatti gli offendesse. Entrava poi il seguente giorno la retroguardia: arrivavano la notte Saliceti, e Buonaparte.

Era costume di Buonaparte, per fare che i popoli si muovessero più facilmente contro i governi loro, e sentissero meno acerbamente il suo dominio, di dare loro speranza di liberargli, e spesso anche gli liberava da quanto essi governi avevano o di più odioso o di più gravoso; perchè in tutti i reggimenti sono sempre di questi tasti, che fanno mal suono ai popoli. Aveva Bologna perduto la sua libertà, od almeno quello che stimava libertà, dappoichè la somma delle faccende dello stato era venuta in mano della chiesa; la qual cosa i Bolognesi sopportavano molto di mala voglia. Oltre a questo era Bologna stata spogliata dai pontefici del dominio di Castel Bolognese, terra grossa situata oltre Imola, e fondata anticamente dai Bolognesi desiderosissimi di ricuperare quell'antica colonia. Nè ripugnavano a questa ricongiunzione i castellani medesimi, ricordevoli tuttavìa del dolce freno col quale erano stati retti. Buonaparte, informato dai deputati di questi umori, come prima arrivava a Bologna, restituiva il possesso di Castel Bolognese, ed aboliva ogni autorità del papa, reintegrando i Bolognesi nei loro antichi diritti di popolo libero ed independente. Nè mettendo tempo in mezzo, comandava al cardinal Vincenti legato, se ne partisse immantinente da Bologna. Indi chiamato a se il senato, a cui era devoluta l'autorità sovrana, gli significava che essendo informato delle antiche prerogative e privilegi della città e della provincia, quando vennero in potere dei pontefici, e come erano stati violati e lesi, voleva che Bologna fosse reintegrata della sostanza del suo antico governo. Ordinava pertanto che l'autorità sovrana al senato intiera e piena ritornasse: darebbe poi a Bologna, dopo più matura deliberazione, quella forma di reggimento che più al popolo piacesse, e più all'antica si assomigliasse: prestasse intanto il senato in cospetto di lui giuramento di fedeltà alla repubblica di Francia, ed in nome e sotto la dipendenza di lei la sua autorità esercesse: i deputati dei comuni e dei corpi civili il medesimo giuramento in cospetto del senato giurassero.

Preparata adunque con grande sontuosità la sala Farnese, e salito sur un particolare seggio riceveva Buonaparte il giuramento dei senatori in questa forma: «A laude dell'onnipotente Iddio, della Beata Vergine, e di tutti i Santi, ad onore eziandìo, e riverenza della invitta repubblica di Francia, noi gonfaloniere e senatori del comune e popolo di Bologna giuriamo al signor generale Buonaparte, comandante generalissimo dell'esercito Francese in Italia, che non faremo mai cosa contraria agl'interessi della stessa invitta repubblica, ed eserciremo l'ufficio nostro, come buoni cittadini, rimosso ogni qualunque odio o favore, e tanto giuriamo nella forma patria, toccando gli Evangeli».

Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.

Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano, all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero le armi ai cittadini.

I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli, ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà, la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler. Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa contraria alla natura dell'uomo.

Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel terrore dei supplizj.

Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini.

Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma; specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.

Questi furono gli articoli patenti del trattato di tregua concluso tra Pio VI ed i capi dei repubblicani in Italia. Quantunque fossero molto gravi, parve nondimeno un gran fatto, che si fosse potuto distornar da Roma un sì imminente pericolo: fecersi preci pubbliche per la conservata città. Intanto non lieve difficoltà s'incontrava per mandar ad effetto il capitolo delle contribuzioni. Non potendo l'erario già tanto consumato dalla guerra sopperire, faceva il papa richiesta degli ori e degli argenti, sì delle chiese come dei particolari, e quanto si potè raccorre a questo modo, e di più il denaro effettivo, che insino dai tempi di papa Sisto V si trovava depositato in Castel Sant'Angelo, fu dato per riscatto in mano dei vincitori. S'aggiunse che il re di Napoli, vedendo avvicinarsi quel nembo a' suoi stati, aveva ritirato settemila scudi di camera, che erano depositati nel tesoro pontificio, come rappresentanti il tributo della chinea, e che la camera apostolica non aveva voluto incassare, perchè il re aveva indugiato a presentare al tempo debito la chinea. Una così grossa raccolta della pecunia coniata produsse un pessimo effetto a pregiudizio della camera apostolica e dei privati, il quale fu, che le cedole, che già molto scapitavano, perdettero viemaggiormente di riputazione. Così solamente ad un primo romore di guerra, e sul bel principio di una speranza di pace, le cose pubbliche tanto precipitarono in Roma, che già vi si pruovavano gli estremi di una guerra lunga e disastrosa.

Tutto questo risguardava alle facoltà sì pubbliche che private, ma il governo di Francia, spaventando il papa, non solamente aveva in animo di cavar denaro pei soldati, ma ancora di tirare il pontefice a far qualche dimostrazione, acciocchè i cattolici di Francia accettassero volentieri le cose fatte, e con la opinione favorevole della maggior parte dei popoli il nuovo stato si confermasse. Era questo motivo di grande importanza in tutta la Francia, ma molto più sulle rive della Loira, dove coloro che avevano l'armi in mano contro il reggimento nuovo, pretendevano alla impresa loro parole di religione. Conseguì Buonaparte questo fine. Il pontefice mandava fuori il cinque luglio un breve indiritto ai fedeli di Francia, col quale paternamente, ma fortemente gli esortava a sottomettersi, e ad obbedire ai magistrati, che il paese loro governavano; affermava essere principio della religione cattolica, che le potestà temporali siano opere della Sapienza divina, che le prepose ai popoli, affinchè le faccende umane non fossero governate dalla temeraria fortuna, o dalla volontà del caso, e le nazioni agitate da onde contrarie; avere perciò Paolo apostolo, non particolarmente di uno special principe, ma generalmente di questa materia parlando, statuito, che ogni potestà da Dio procede, e che chi alle potestà resiste, alla volontà di Dio resiste. Badassero dunque bene, sclamava il pontefice, a non lasciarsi traviare, ed a non dare, sotto nome di pietà, occasione agli autori di novità, di calunniare la religione cattolica, il che sarebbe peccato, che non solo gli uomini, ma Dio stesso con pene severissime punirebbe; poichè sono, continuava, dannati coloro che alla potestà resistono. «Vi esorto adunque, terminava il pontefice, figliuoli carissimi, e vi prego per Gesù Cristo nostro Signore, ad essere obbedienti, ed a servire con ogni affezione, con ogni ardore e con ogni sforzo a coloro che vi reggono, perchè a loro obbedendo, renderete a Dio medesimo quell'obbedienza, di cui gli siete obbligati; ed essi vedendo vieppiù, che la religione ortodossa non è sovvertitrice delle leggi civili, le presteran favore e la difenderanno, in adempimento dei precetti divini, ed in confermazione dell'ecclesiastica disciplina: infine desiderio nostro è che sappiate, figliuoli carissimi, che voi non abbiate nissuna fede in coloro che vanno pubblicando, come se dalla santa sede emanassero, dottrine contrarie a questa».

Queste esortazioni del pontefice non partorirono effetto alcuno in Francia, perchè da una parte non rimise punto il direttorio del suo rigore contro i preti cattolici, che non avevano voluto giurare la constituzione del clero, dall'altra i Vendeesi, e coloro che in compagnìa loro combattevano nelle province occidentali della Francia, od in altri luoghi impugnavano o palesemente o segretamente il governo di Parigi, non davano luogo ad alcuna inclinazione alla pace. Nè alcun frutto buono sorse da quest'atto di Pio. Gli uni dicevano che l'aveva fatto per forza, gli altri per debolezza, e nissuno obbediva. Allegavano poi la fermezza dei principj non poter essere scossa, nemmeno dall'autorità del papa. Così gli uomini obbediscono all'autorità delle sentenze, quando è favorevole alle loro opinioni od interessi, non obbediscono quando è contraria. Quindi nasce che il genere umano è più ancor pieno di contraddizioni, che di enormità.

La presenza dei Francesi negli stati pontificj aveva bensì atterrito i sudditi, ma non gli aveva fatti posare, e si temevano ad ogni tratto nuove turbazioni. Per la qual cosa il papa esortato dal generale repubblicano, e mosso anche dall'interesse dei popoli, raccomandava con pubblico manifesto, e comandava ai sudditi, trattassero con tutta benignità i Francesi, come richiedevano i precetti della religione, le leggi delle nazioni, gl'interessi dei popoli, e la volontà espressa del sovrano.

Tutte queste cose faceva il pontefice in confermazione dello stato. Intanto o perchè la cessazione delle armi si convertisse in pace definitiva, o perchè con una dimostrazione efficace di desiderar di conchiuderla, si pensasse di aspettare con minori molestie occasione di risorgere, s'inviava dal pontefice a Parigi l'abbate Pieracchi con mandato di negoziare, e di stipulare la pace. Tanta variazione avevano fatto in pochi giorni le sorti di Roma, che quel pontefice, il quale poco innanzi esortava con tutta l'autorità del suo grado i principi ed i popoli a correre contro i Francesi partigiani del nuovo governo, come gente nemica agli uomini, nemica a Dio, ora caduto in dimessa fortuna comandava con parole contrarie alle precedenti ai fedeli di Francia ed ai sudditi proprj, che obbedissero, ed ogni più cortese modo usassero ai Francesi ed al governo loro. Il che non fu senza notabile diminuzione dell'autorità del Romano seggio.

Nè minore variazione fecero le cose di Napoli, come se fosse destinato dai cieli, che le più forti protestazioni, ed i più validi apprestamenti di difesa, in tempesta tanto improvvisa, altro effetto non dovessero partorire che una più grave diminuzione di riputazione e di potenza. Eransi udite con grandissima ansietà a Napoli le novelle delle vittorie dei repubblicani sul Po e sull'Adda; ma all'ansietà succedeva il terrore, quando vi s'intese la rotta totale dei Tedeschi, e la loro ritirata verso il Tirolo. L'impressione diveniva più grave, quando i soldati di Buonaparte, occupato Reggio e Modena, nè nulla più ostando che entrassero nell'indifesa Romagna, si vedeva il regno esposto all'invasione. Laonde il re volendo provvedere con estremi sforzi ad estremi pericoli, perchè o fosse solo, o dovesse secondare le armi imperiali, gli era necessità di usare tutte le forze, ordinava che trentamila soldati andassero ad alloggiar ai confini verso lo stato ecclesiastico; ma perchè si facesse spalla e retroguardo a tante genti con altre squadre d'uomini armati, comandava, che si tenessero pronte a marciare, e di tutto punto si allestissero, ed in corpi regolati si ordinassero tutte le persone abili all'armi; la quale massa avrebbe aggiunto quarantamila combattenti. Perchè poi si usassero coloro, che consentissero di buona voglia ad accorrere alla difesa del regno, dava loro privilegi e speranza di ricompense onorevoli. Volendo poi favorire anche con l'autorità e con l'armi spirituali, le forze temporali, scriveva ai vescovi ed ai prelati del regno lettere circolari, con cui gli ammoniva, e con parole patetiche gli esortava dicendo, che la guerra che già da tanto tempo desolava l'Europa, e nella quale già tanto sangue e tante lacrime si erano sparse, era non solamente guerra di stato ma di religione; che i nemici di Napoli erano nemici del Cristianesimo; che volevano abolire il principato, come avevano abolito la religione; per questo turbare le nazioni, per questo sollevare i popoli; per questo ridurgli all'anarchìa con le massime, alla miseria con le rapine: saperlo il Belgio, saperlo la Olanda, saperlo tanti paesi e città illustri di Germania e d'Italia, confuse, desolate, spogliate, ed arse dalla rabbia e dall'avarizia loro: invano gemere, invano querelarsi i popoli conculcati; sotto la crudele tirannide non trovar luogo il diritto, non trovar luogo l'umanità; ma la santa religione essere principalmente segno alle lor barbare voglie, perchè tolto di mezzo il suo potente freno si possano violare senza ribrezzo, ed a sangue freddo tutte le leggi sì divine che umane; ma inspirare la religione il coraggio, come insegnar il dovere; amare il cristiano la patria per gratitudine, amarla per precetto. Esortassero adunque i popoli ad impugnar le armi contro un nemico, a cui niuna legge era sacra, niuna proprietà sicura, niuna vita rispettata, niuna religione santa, contro un nemico che dovunque arrivava, saccheggiava, insultava, opprimeva, profanava i templi, atterrava gli altari, perseguitava i sacerdoti, calpestava quanto di più sacro e di più reverendo ha ne' suoi dogmi, nei suoi precetti, e ne' suoi sacramenti divini lasciato alla chiesa sua Cristo Salvatore: non abborrire il re, per amore verso i sudditi, gli accordi, ma volergli giusti ed onorevoli, nè tali potergli conseguire, che con la potenza dell'armi. Combatterebbe egli il primo a guida de' suoi soldati: sperare, che il Re dei re, il Signor dei signori, che ha in sua mano il cuore dei principi, e non cessa d'inspirargli con retti consigli, quando sinceramente invocano il suo santo nome, gli avrebbe dato favore in così santa, in così generosa impresa.

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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