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VII. LA BALENA

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La mattina del 17 settembre, all’altezza del capo di Barrow, che è il più avanzato verso il nord della Giorgia occidentale, l’equipaggio del «Danebrog» scopriva le tracce del passaggio delle balena.

Erano larghe macchie di sostanze oleose che spiccavano vivamente sull’acqua verdastra del mare, e così copiose da far credere che colà fosse passato un numerosissimo branco di cetacei.

Il capitano Weimar, che già aveva cominciato a disperare, mise subito delle vedette sugli alberi e fece preparare le baleniere affinchè tutto fosse pronto al momento opportuno.

Koninson tornò a piantar domicilio nella rete del bompresso per non perdere di vista quelle macchie oleose che si dirigevano verso, l’est, seguendo le coste, della Giorgia. Ben presto fu segnalato un immenso banco di «boete», il cibo prediletto delle balene, ma qua e là rotto. Senza dubbio i cetacei avevano colà pescato – come diceva Koninson – facendo dei gran vuoti colle loro enormi bocche. Anche qui le sostanze grasse galleggiavano in gran nunero, spiccando ancor meglio sulla tinta brunastra dei banco.

Alle sette del pomeriggio, alla distanza di quattordici miglia dalla punta Tangente, si udì un gabbiere gridare dall’alto della crocetta di maestra:

– Una balena a babordo!

Il capitano Weimar e tutti i marinai, che da dodici ore erano in preda ad una viva agitazione, si precipitarono verso la murata di babordo aguzzando gli sguardi verso il punto indicato.

A due miglia dal «Danebrog», si scorgeva una specie di cilindro di dimensioni gigantesche e risplendente come se fosse di acciaio. Era perfettamente immobile, però ad una estremità si vedevano apparire, di quando in quando, due piccole colonne di vapore che si alzavano in forma di V.

– Sì, sì è una balena! – gridò il capitano.

– E di dimensioni non comuni – aggiunse il tenente che aveva puntato lentamente un cannocchiale. – La briccona pranza tranquillamente in mezzo di un banco di «boete».

– Ebbene, che mangi anche il mio rampone – gridò Koninson che aveva abbandonato precipitosamente la rete. – Mille milioni di fulmini! Era tempo che se ne incontrasse una! Olà! Ragazzi, sangue freddo e audacia, e io rispondo della vittoria!

– Il capitano diede ordine al timoniere di dirigere il «Danebrog» verso il gigante, mentre Koninson e i marinai calavano a fior d’acqua le due più solide e più svelte baleniere, mettendovi dentro tutti gli attrezzi necessari: remi, ramponi, lancie, lenze e le «droghe».

– A un chilometro di distanza il «Danebrog» si mise in panna. Avvicinarsi troppo ad una balena che si caccia non è prudente, perchè essa quando è ferita perde completamente la testa e si getta contro qualunque cosa. Il capitano Weimar ben si ricordava del brutto caso toccato alla nave «Essex» nel 1820, quando, investita da una balena resa pazza dal dolore cagionatole da una ferita, era andata a picco.

Subito il tenente Hostrup, Koninson e quattro marinai presero posto nella maggiore baleniera e mastro Widdeak, Harwey e altri quattro remiganti nell’altra.

– Badate che non ci sfugga – disse il capitano che era rimasto a bordo.

– Vi, giuro, signore, che non si ripeterà il caso del capodolio – disse Koninson. – Mi sento indosso un coraggio da non temere venti balene.

– Al largo, dunque!

Le due baleniere si staccarono dal «Danebrog» e si diressero, rapidamente, ma senza far rumore, verso il cetaceo. Quella del tenente precedeva di una gomena quella di mastro Widdeak.

Ben presto i cacciatori giunsero a sole trecento braccia dalla preda, la quale non aveva ancor dato il più piccolo segno di inquietudine.

Era una superba balena franca, lunga più di venti metri, del peso di ottanta o novanta tonnellate, con una testa voluminosissima, convessa superiormente e fornita di una bocca enorme, lunga più di tre metri e alta più di quattro. La pelle del gigante, nera, liscia, untuosa, sotto ai raggi del sole brillava così vivamente da offendere gli occhi di chi la guardava.

– Cosa fa? – chiese sottovoce il tenente a Koninson che la fissava con occhi fiammeggianti.

– Pascola in mezzo al banco di «boete». – rispose il fiociniere.

– Se si potesse sorprenderla..

– Lo dubito, tenente. Ecco che comincia a dar segni d’inquietudine.

La balena infatti, che fino allora aveva conservato una immobilità quasi perfetta, aveva alzato la sua potente coda terminante in una pinna orizzontale, triangolare e larga sei o sette metri. Con un colpo vigoroso lanciò a destra ed a sinistra due altissime onde, poi agitò le pinne pettorali che sono lunghe ben tre metri, causando nuove onde e si mise a filare fra il banco di «boete», cacciando fuori dagli sfiatatoi due colonne di vapore, il quale ricadeva sotto forma di goccioline che formavano sull’acqua macchie oleose.

– Attento, Koninson! – disse il tenente, facendo segno ai remiganti di raddoppiare la battuta.

– Spingete innanzi la baleniera senza tema, signore, – rispose il fiociniere che aveva afferrato il suo terribile rampone.

– Sono pronto!

– Ad un tratto la balena si tuffò lasciando dietro di sè un piccolo vortice. Il tenente guardò attentamente da qual parte aveva piegata la coda per indovinarne la direzione presa, poi comandò ai remiganti di avanzare lentamente e senza far rumore.

Passarono alcuni minuti che parvero lunghissimi, poi si udì un rumore simile ad un tuono lontanissimo e sulla tranquilla superficie del mare si scorse un largo tremolio.

– Attenti! – disse il tenente. – La balena sta per mostrarsi. Sei pronto, Koninson?

– Sempre! – rispose il fiociniere.

Il rumore si faceva sempre più distinto, poi a quattrocento passi dalla baleniera, verso prua, apparve un punto nero, l’estremità del muso del cetaceo, indi gli sfiatatoi, il dorso e finalmente la formidabile coda, la quale battè violentemente il mare.

– Il gigante è inquieto – disse il tenente. – Ci ha sentiti. Allungate la battuta, ragazzi.

Tornata a galla, la balena aveva lanciato in aria, a parecchi metri d’altezza due colonne di bianco vapore, poi si era un po’ immersa.

Per trenta o quaranta secondi scivolò mostrando solamente il dorso, e a intervalli la coda; indi rialzò la testa e gettò due altre colonne di vapore. Tornò a immergere la testa e per parecchi minuti ancora ripetè quella manovra gettando, di quando in quando, colonne di vapore che diventava però sempre meno denso, e agitando la coda innanzi e indietro.

– La briccona scandaglia – mormorò Hostrup,.

Le due baleniere avanzavano lentamente e con prudenza. I due fiocinieri in piedi, colla coscia cacciata nella scanalatura di prua, il rampone in aria un po’ pallidi, lanciavano sguardi di fuoco sulla preda.

Il cetaceo non fuggiva, ma dava sempre segni di inquietudine. Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell’acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano.

– Arranca a tutta lena! – gridò ad un tratto il tenente.

La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo.

– Koninson! – gridò il tenente.

– Pronto, signore! rispose il fiociniere.

– Getta!…

Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne.

Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza.

– Attenti ragazzi! – gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima.

La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l’arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un’altra e più formidabile nota.

– Maledetto! – gridò Koninson – Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l’arteria della coda.

La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un’altra.

– Per mille, boccaporti! – gridò il fiociniere. – Vuol scendere all’inferno?

– Pazienza, – Koninson – disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io.

Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare.

– Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! – gridò il tenente. – Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera.

– Lo riceveremo, come si deve! – rispose il mastro.

– Eccolo! Eccolo! – gridarono ad un tratto alcuni marinai.

Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio.

Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo.

Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi.

Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza.

Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d’aria spinta dentro un largo tubo di bronzo.

Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l’acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore.

– Avanti! Avanti! – gridò Koninson.

Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze.

I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo.

Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque.

– Urrah! Urrah! – urlò il fiociniere balena è nostra!

Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l’arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie.

In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali.

Allora cominciò l’agonia, ma un’agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il «Danebrog».

Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall’acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli.

Il «Danebrog» si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda.

Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l’intera massa.

Mandò un’ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d’acqua.

Era morta!

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