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PARTE PRIMA. I FORZATI DI PORT-CORNWALLIS
1. La spia del penitenziario

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«Spia!»

«A me spia!»

«Bandito!»

«Taci, brutto malabaro!»

«Negalo, se l’osi!»

«Ah! A me della spia!»

«Confidente dei sorveglianti! Assassino che ci fai somministrare il gatto a nove code senza averne colpa.»

«La vuoi finire?»

«No, e lo ripeterò finché avrò soffio di vita. Spia! Spia! Spia!»

«Vuoi dunque che ti rompa le ossa?»

«Provati.»

«È perché hai l›uomo bianco dalla tua? Vi affronto tutti e due e vi riduco in una poltiglia. Nessuno ha mai tenuto testa al Guercio, il più formidabile lottatore di Ceylon.»

«Basterò io solo: un malabaro non teme cento cingalesi.»

«Ma il Guercio sì.»

«Sarò io che ti fracasserò il muso e che manderò i tuoi denti a passeggiare nella foresta, a formare la delizia dei cobra capelo

«Non la vuoi finire, malabaro?»

«No, perché sei una spia, la spia del bagno.»

Una spaventosa bestemmia sfuggì dalle labbra del cingalese.

«Che Budda sia maledetto se non t›ucciderò. È troppo, basta!»

«Tu ascoltavi i nostri discorsi!»

«Tu menti!».

«E ti sei accostato a me ed all›uomo bianco, strisciando come un serpente. Tutti sanno che sei il beniamino dei sorveglianti e del comandante, e che mai hai assaggiato la doppia catena, cane d’un cingalese.»

«Ti uccido! Bisogna che ti uccida! Spia! Ebbene sì, io ti tenevo d›occhio e ti dirò anche che ho udito tutto quello che hai detto al forzato bianco. Ah! Ah! L›europeo che sdegna di parlare con me, come se non fosse anche lui un galeotto, vorrebbe andarsene? No, ci sarò io là, al momento opportuno, per impedirglielo.»

Una salva di bestemmie e di ululati fecero eco alle audaci e compromettenti parole del cingalese.

«Dagli a quella spia, malabaro!» gridano in coro quindici o venti voci.

«È ora di finirla con quel briccone.»

«Giù, dalle, malabaro!»

«Ah! Tutti contro me, – ghignò il Guercio, furioso. – Ebbene la vedremo, brutti sciacalli. Ad ognuno il suo ed a suo tempo. Vi farò sentire se pesano i pugni cingalesi.»

«Ebbene, comincia da me, – gridò il malabaro. – Vedremo se fra cinque minuti urlerai tanto. Spicciati: l›affare deve essere finito prima che giungano i guardiani.»

«Ecco, prendi!» ruggì il cingalese, avanzandosi coi pugni raccolti sul largo petto.

Quella scena aveva luogo in una piccola radura che s’apriva in mezzo alle foreste che circondano il penitenziario inglese di Port-Cornwallis, fondato dal governo anglo-indiano, pei forzati pericolosi, sulle coste orientali dell’isola Nord-Andamana, nel golfo del Bengala, stabilimento che dopo una diecina di anni doveva venire soppresso, a causa del clima micidiale che faceva strage dei condannati e dei sorveglianti, ed a causa anche delle ostilità degli indigeni; ma che nel 1850 era ancora floridissimo.

Una ventina d’uomini, per la maggior parte indiani e cingalesi, si erano raccolti in quella radura, approfittando del riposo del mezzodì e dell’assenza dei guardiani, che avevano preferito schiacciare un sonnellino nelle amache della tettoia, sicuri che nessuno dei sorvegliati avrebbe approfittato per prendere il largo date le pessime disposizioni che fino allora avevano dimostrato gl’indigeni, nemici risoluti d’ogni straniero.

I due uomini che s’erano assaliti prima a parole e che ora si preparavano a demolirsi le costole a vicenda, nonostante i rigorosi regolamenti del bagno e la paura di venire premiati con una solenne fustigazione del terribile gatto a nove code, terrore dei marinai inglesi, erano due campioni capaci di disputarsi lungamente la vittoria.

Colui che aveva sollevato la questione e che veniva chiamato il malabaro, era un indiano di forme atletiche, alto quasi sei piedi, con un torso da gorilla, braccia muscolose senza essere esageratamente grosse: aveva lo sguardo franco ed ardito ed i lineamenti piuttosto fini, che indicavano in lui un discendente delle caste privilegiate della grande penisola indostana.

Il suo avversario, che si faceva chiamare il Guercio, perché mancava effettivamente d’un occhio, del sinistro, e che si era dichiarato cingalese, era assai più basso di statura, ma lo sviluppo del suo corpo era veramente enorme, assai superiore a quello dell’altro. Aveva una testa massiccia, forse troppo grossa, cogli occhi leggermente obliqui, che tradivano un miscuglio di razza; il viso butterato dal vaiuolo in modo da sembrare una vera schiumarola; un collo da toro, spalle da gigante e braccia formidabilmente muscolose, che finivano con certi pugni grossi come mazze da fucina.

Entrambi non avevano che un paio di pantaloni di tela bigia, essendosi sbarazzati delle giacche e degli zoccoli che l’amministrazione del penitenziario fornisce a quei disgraziati, e mostravano così i numerosi e bizzarri tatuaggi che screziavano i loro petti, rappresentanti serpenti e foglie, idoli ed animali.

«Dàlli, malabaro! – gridarono per la seconda volta gli spettatori. – Merita una correzione quello spione.»

Il cingalese gettò sui forzati, col suo unico occhio, uno sguardo da tigre, mentre il malabaro allargava le gambe coprendosi il petto ed il viso colle braccia.

Stavano per precipitarsi l’uno contro l’altro, quando il cerchio formato dagli spettatori fu violentemente aperto ed un nuovo personaggio si mise a fianco del malabaro, dicendogli:

«Lascia fare a me, Palicur. Anch›io ho un vecchio conto da saldare con quel cingalese.»

Mentre tutti gli altri erano indiani o cingalesi, il nuovo venuto era invece un europeo di circa trent’anni, colla pelle abbronzata nelle varie sfumature che si scorgono sui visi della gente di mare, dovute ai calori del sole tropicale ed ai venti salsi degli oceani, con due occhi d’un azzurro profondo dai quali trapelava un non so che di profonda tristezza. La sua taglia non era così alta come quella dei due avversari, era anzi appena al di sopra della media, piuttosto slanciata pur essendo vigorosa, nondimeno le sue braccia mostravano dei muscoli poderosi, che dovevano sviluppare, in certi momenti, una forza poco comune.

Pronunciando quelle parole, aveva gettato l’ampio cappello di paglia che lo riparava dagli ardenti raggi del sole, mostrando una bella fronte ampia, solcata da qualche ruga precoce, ed una folta capigliatura molto bruna.

«Lascia fare a me, Palicur, – ripeté, prendendo la classica posa dei pugilatori inglesi. – Il cingalese non mi fa paura.»

«No, signore, – rispose il malabaro. – Non compromettetevi con quella canaglia.»

«Signore! – ghignò il Guercio. – Quanto ti dà al mese, malabaro? Non sapevo che tu fossi il suo servo.»

L’europeo gettò sul miserabile uno sguardo sprezzante e fece atto di avventarglisi addosso; ma il malabaro fu pronto a metterglisi dinanzi.

«No, mai, non voglio che vi misuriate con quest›uomo che è il più forte del bagno e che solo in me può trovare un rivale capace di tenergli testa. Voi un giorno mi avete salvato, strappandomi dalle mascelle d’un gaviale, quindi vi devo la vita ed è mio dovere proteggervi. Se quest’uomo mi ucciderà, poco monta.»

«Sì, lasciate fare al malabaro, signore,» dissero in coro gli spettatori, che pareva professassero un certo rispetto per quell’uomo, quantunque fosse un condannato al pari di loro.

L’europeo ebbe una breve esitazione, poi fece due passi indietro, dicendo: «Aspetterò il mio turno; quella spia oggi deve avere una solenne correzione e l’avrà o da Palicur o da me.»

«Avete finito con le vostre chiacchiere? – chiese il cingalese, che cominciava a perdere la pazienza. – O aspettate che i sorveglianti aprano gli occhi?»

«Eccomi,» disse il malabaro, rizzandosi d›un colpo, e menò un pugno formidabile che cadde nel vuoto, avendo fatto il cingalese un rapido salto indietro.

Il circolo formato dagli spettatori si era subito allargato, onde lasciare ai due pugilatori spazio maggiore.

Un silenzio profondo era succeduto a quella pioggia d’invettive, rotto solo dal grido lamentevole e noioso d’una coppia di scimmie appollaiate fra i rami d’un fico baniano. Pareva che tutti trattenessero perfino il respiro, per non perdere nulla di quella lotta, che prometteva di diventare terribile e che poteva finire colla morte dell’uno o dell’altro avversario.

Palicur, mancatogli il primo colpo, si era affrettato a rimettersi in guardia e si teneva diritto, mostrando la sua superba statura d’atleta, mentre il cingalese invece, che doveva meditare qualche tiro a sorpresa, si era come ripiegato su se stesso, in modo da coprirsi tutto il corpo coi pugni e colle braccia.

Per qualche istante i due avversari si guardarono, poi il malabaro si piegò a sua volta bruscamente, dicendo:

«Ti ho compreso, Guercio: prendi!»

Il suo formidabile pugno scattò colpendo il cingalese in mezzo al petto, il quale risuonò come una grancassa. Se quel corpo non fosse stato più che robusto, avrebbe certamente ceduto sotto il colpo poderoso. Il Guercio fece una brutta smorfia e strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire un grido di dolore, poi a sua volta si slanciò, menando uno dopo l’altro sette od otto pugni, che il malabaro ricevette sugli avambracci senza scuotersi.

«Ah! Perdi la flemma! – esclamò l›indiano con voce tranquilla. – Le braccia dei pescatori di perle possono resistere anche alle martellate e perdi inutilmente il tuo tempo, Guercio, se batti qui.»

Un urlo di rabbia era sfuggito alla spia.

«Che non ti possa demolire, brutto malabaro! – ruggì. – Eppure devi cadere.»

Fece tre passi indietro, tornando a ripiegarsi su se stesso. Il malabaro, che non voleva lasciargli il tempo di preparare qualche altro gioco, spiccò un salto innanzi per investirlo subito, ma ricevette un pugno in pieno viso che lo fece traballare e gli fece sprizzare sangue dal naso.

L’europeo mandò un grido credendolo perduto, ma il pescatore di perle si riebbe prontamente. Piombò sul cingalese, che stava in quel momento per rialzarsi, e l’abbracciò a mezzo corpo, alzandolo da terra e scuotendolo vigorosamente.

Il Guercio, non essendosi aspettato quell’attacco che convertiva il pugilato in una partita di lotta, dapprima non oppose resistenza; poi, comprendendo che stava per venire atterrato, puntò le ginocchia sul ventre del malabaro il quale fu costretto a deporlo.

Allora fra i due atleti s’impegnò una lotta disperata. Si afferravano a vicenda, si urtavano poderosamente, si abbassavano e si alzavano tentando di atterrarsi. Ansavano, grondavano sudore, e non mandavano alcun grido per non svegliare i sorveglianti che dormivano non molto lontano, sotto la tettoia del deposito dei legnami.

Il cingalese opponeva una resistenza furiosa, tuttavia si capiva facilmente che avrebbe finito per cedere. Le sue forze si esaurivano rapidamente, mentre il malabaro conservava le sue per l’ultimo momento.

L’europeo seguiva attentamente col più vivo interesse le diverse fasi della lotta, incoraggiando di quando in quando il pescatore di perle con uno sguardo o con un gesto della mano. Gli altri scommettevano sottovoce, non già denari, bensì le loro magre razioni.

La lotta durava da quattro o cinque minuti, sempre più ostinata, quando il malabaro, che era riuscito a liberarsi la destra, scaricò un pugno terribile sul cranio dell’avversario. Questi si piegò bruscamente, sbalordito da quel colpo che gli aveva rintronato il cervello.

Bastò quell’attimo di interruzione perché il pescatore di perle ne approfittasse. Sollevò il Guercio fra le poderose braccia, lo tenne un momento sospeso, poi lo scaraventò dieci passi lontano, nel bel mezzo d’un cespuglio.

«Dagli il resto, malabaro! – esclamarono gli spettatori. – Concialo per bene.»

Palicur era già sopra alla spia ed aveva alzato nuovamente il pugno per dargli una tremenda lezione, quando una voce minacciosa risuonò a breve distanza: «Ferma o ti brucio le cervella!»

Un uomo vestito di tela bianca, con un elmo di sughero in testa coperto d’una fascia di flanella, si era aperto violentemente il passo fra gli spettatori, tenendo nella destra una pistola a doppia canna, che puntò risolutamente sul malabaro. Era uno dei sorveglianti della colonia penale, il quale era stato probabilmente svegliato dalle ultime grida dei forzati.

Palicur, udendo quella voce minacciosa, abbassò il pugno e si voltò verso il guardiano, dicendogli:

«Non abbiamo fatto nulla di male. Abbiamo semplicemente provato le nostre forze in una partita di lotta.»

Il Guercio aveva approfittato dell’intervento per sgusciare fra il cespuglio e mettersi in salvo presso il sorvegliante.

«Quel cane d›un malabaro ha mentito! – gridò. – Egli mi voleva accoppare, sospettando in me una spia.»

«Buffone! – gridò l’europeo. – Sei più vile d’uno sciacallo.»

«Taci tu, Will, – disse il guardiano ruvidamente. – Tu non hai maggior diritto di parlare degli altri ed io non ti ho interrogato.»

«Ma sì, il Guercio ha mentito!» urlarono in coro gli spettatori.

«E perché sanguina allora il naso di Palicur?» chiese il sorvegliante.

«Perché sono caduto,» rispose il malabaro.

«Non è vero, – urlò il cingalese. – Mi ha aggredito e nel difendermi gli ho dato un pugno, e vi era con lui anche l’europeo. Vi consiglio anzi di tenerli d’occhio, signor Bek, perché li ho sorpresi mentre ordivano la fuga. Ecco il movente della loro aggressione.»

Un urlìo di collera accolse le parole del briccone. Tutti i forzati tesero i pugni verso di lui e si fecero innanzi minacciosi, pronti ad accopparlo. Il sorvegliante si gettò prontamente dinanzi al cingalese, poi estrasse la daga che portava appesa alla cintura, mentre impugnava la pistola colla sinistra.

«Fermi, furfanti!– gridò. – Il primo che si accosta è uomo spacciato.»

Poi mandò un lungo fischio, il fischio di allarme e di richiamo dei poliziotti inglesi. Tosto altri quattro sorveglianti armati di fucile sbucarono dalle vicine macchie, collocandosi ai fianchi del loro compagno. I forzati, che parevano disposti a scagliarsi contro il cingalese ed il suo protettore, vedendo giungere quel rinforzo si fermarono. Solo l’europeo fece qualche passo innanzi, dicendo con voce grave:

«Spero, signor Bek, che voi non crederete a quello che ha detto quel miserabile cingalese. Nessuno lo ha aggredito, potete credere alla parola leale d›un uomo di mare.»

«Tu sei un forzato al pari degli altri e la tua parola non ha maggior valore della loro, quantunque tu sia un inglese al pari di me,» rispose il sorvegliante.

Una viva fiamma balenò negli sguardi di Will, mentre un pallore mortale gli copriva il volto.

«Un giorno, – disse con voce alterata, fremente di collera e d›indignazione, – fui un uomo d’onore. Se io ho ucciso il mio sergente d’armi lo feci perché costrettovi e spintovi in un momento di follia, e voi lo sapete. Mi hanno condannato e sia pure, ma questa condanna non ha guastato la lealtà dell’antico quartiermastro della Britannia

L’espressione dura, quasi sprezzante, che si leggeva sul volto del guardiano, si era a poco a poco dileguata.

«Ti credo, – disse, con accento un po› raddolcito. – Sono però costretto a rinchiudervi tutti e tre nella cella di rigore, finché i fatti saranno chiariti. Io non posso trasgredire i regolamenti.»

«Fate pure, – rispose asciuttamente l›ex quartiermastro della Britannia, porgendo i polsi. – Ammanettatemi.»

Il sorvegliante fece un segno ai suoi uomini, i quali s’affrettarono ad incatenare le braccia all’europeo, al malabaro ed al cingalese

«Al deposito, – disse, – e fate fuoco su chi tenta di fuggire.»

Poi rivolgendosi agli altri forzati, aggiunse con un tono che non ammetteva replica:

«Al lavoro, voi: l›ora del riposo è trascorsa.»

E mentre nella foresta rimbombavano i colpi di scure dei galeotti ed i tronchi resinosi dei darmar precipitavano al suolo con gran fragore, i tre prigionieri, scortati da due guardiani, venivano condotti a Port-Cornwallis.

La perla sanguinosa

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