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L'ALLEGORIA DELL'AUTUNNO FRAMMENTO D'UN POEMA OBLIATO

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Indice

Il munifico sire Autunno, il dio

cui non più la matura uva compone

intorno il nero crin cerchio d'oblío

né come al fauno del selvaggio Edone

alto in man brilla il cembalo giulío

(ben, cingon la sua fronte ardua corone

di gemme e l'occhio cerulo gli langue

profondamente quasi che del sangue

ei nudrisca una lenta passione)

riverso in nube per i vitrei seni

lucida al sole come un rogo ardente,

quali d'árbori forme in rii sereni

vede pender ne l'aria agilemente

i fastigi de' templi, e sciolti ai leni

spirti de l'aria dà la chioma aulente

che il ciel solca, celeste fiume d'oro,

dietro lasciando un fremito sonoro

a cui guardan le turbe umane intente.

Lui seguon pe 'l viaggio, in un corteo

lungo e composto, cento giovinetti.

Han l'arco più che quello d'Odisseo

grande e lunato, in fascio han dardi eletti;

anche han palvesi; e portan su 'l febeo

capo una sorta di vermigli elmetti

ricoprenti la gota, a mo' de' Frigi,

a mo' del biondo cavalier Parigi.

Nudi e in tutte le membra ei son perfetti.

Perfetti come se dal fior de' parii

marmi avesseli tratti Prassitèle,

muovono insieme i cento Sagittarii,

al magnifico iddio coro fedele.

Brandiscono i gravi archi in gesti varii,

però che frema ne la man crudele

il disío de la strage e de la gloria

e risuonino ancor ne la memoria

le gran selve terrestri, di querele.

Argábalo n'è il buono imperadore

che tiene in pugno il gonfalon levato,

Argábalo che molto dal signore

teneramente è sopra gli altri amato.

Aureo porta l'elmetto e un giustacuore

nitido, di finissimo broccato.

Adergesi com'aquila in ardire,

su 'l capo udendo il gonfalon garrire.

Brilla di gemme il piede coturnato.

Così va la milizia, al suo comando,

raccolta presso il dio; ma se in cortesi

ludi per l'aria s'apre a quando a quando

come s'apre un'aurora, a voi sospesi

guizzano i corpi snelli balenando

e co' i dardi e co' li archi e co' i palvesi

fingon nuove a la vista meraviglie.

Alto ridono, simili a vermiglie

fiamme, gli elmetti dal gran sole accesi.

Il dio, poggiato in su la palma il mento

imberbe, a torno gli occhi umidi gira.

— Non più — mormora — i giuochi de' miei Cento,

cui par che guidi il suono d'una lira

così nobile è il lor componimento

e armoniosa la lor flórea spira,

non più recan diletto al cuor profondo!

Qual male ignoto dentro me nascondo,

che sì forte mi crucia? — il dio sospira.

Sospira ei dietro a la sua disianza

ignota; e chiama il buono imperadore.

— Fa che cessi d'in torno ogni esultanza,

o Argábalo, però che del mio cuore

il Dolore fatto abbia la sua stanza! —

Pronti, al comando, frenano l'ardore

i Sagittarii; e seguon tristamente.

Suonano ancor ne la memoria ardente

le gran selve terrestri, di clamore.

Di clamore e de l'armi e de' gran corni

risonavan le selve al lor passare.

Vedeansi lungi per i bui soggiorni

i meandri de' fiumi balenare.

Se i nudi cacciatori in su' ritorni

venìa la ninfa pavida a spiare,

scorgeano quelli in tra la fronda il molle

velo, ed un foco in tutte le midolle

correva. — Oh non mai van perseguitare!

Oh dolce cosa ancor di sangue tinti

premere l'orme de la fuggitiva

giovine, a gara per que' laberinti

ove i culmini il vespero feriva;

lei ghermir; tra la chioma di giacinti

cogliere il fior de la sua bocca viva! —

Seguono in van la desiata effigie.

Tal fino al labro era ne l'onde stigie

Tantalo, e il bel giardin vicin fioriva.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Venezia, ottobre 1887.

L'allegoria dell'autunno: Omaggio offerto a Venezia da Gabriele D'Annunzio

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