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Abdùl Satelèch

Abdùl Satelèch prega Dio su un tappeto verzino

che fu di suo padre e del padre del nonno del padre.

Da quando è venuto a Torino fuggendo dall'Africa,

il suo tappetino lo tiene ravvolto alla vita

e solo lo spiega a pregare rivolto alla Mecca.

Abdùl Satelèch sta su un'auto sul corso Valdocco

trovata relitta e stargata e vi mangia e vi dorme:

non vuole ammassarsi in soffitte affittate da cinici

a più di duecento migliaia di lire per mese,

tra gente che pecca sfidando la Legge, che spaccia

o fa le rapine alle donne e agli anziani indifesi.

Lui tira il carretto per conto di qualche ambulante

e fa le consegne dei fiori per Lucio il fioraio

– a volte, qualcuno lo chiama a portare dei mobili

e allora guadagna quel giorno tre volte di più – .

La sera lo vedono in tanti che stende il tappeto

tra gli alberi in mezzo alle àuto e si volge al Signore,

né più lui s'accorge di voci, di rombi, di clacson,

di gente che attorno lo guarda ridendo di lui.

Poi mangia da solo e la notte la passa sull'auto;

gli stracci e i giornali d'inverno gli bastano appena

e quasi congela, ma Abdùl chiede niente a nessuno.

Quest'uomo, di certo, è nel cuore dell'unico Dio.

Volevano fargli la pelle laggiù al suo paese

perché non taceva di fronte ai soprusi d'un capo;

ma pure a Torino c'è gente che vuole che muoia:

Omàr Salazìm gli ha proposto di vendere droga,

e lui gliel'ha detto che il male è nemico del Bene

e più non gli parli e gli resti voltato e distante.

Omàr l'ha giurato, che o cede o gli toglie la vita,

e ieri l'ha fatto picchiare da quattro dei suoi,

poi gli hanno bruciato davanti il tappeto verzino.

Non passa più molto che Abdùl lo ritrovano morto.

Lui pensa: «Alla fine ritorno nel grembo di Dio».

Centro Storico - Porta Palazzo E Dintorni 1990

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