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Il 2 decembre 1831, circa le dieci antimeridiane, i sei auditori della Rota Fiorentina, che formavano il Turno Giudicante sugli affari criminali, erano tutti congregati nella stanza in cui solevano tener consiglio.

Arrivati alla spicciolata, si eran messi a discorrer fra loro degli argomenti più estranei allo scopo pel quale si riunivano.

Un auditore raccontava che un suo bambino di tre anni aveva ruzzolato la scala: un secondo si lamentava del mal di capo: un terzo deplorava di non trovar rimedio alle sue insonnie. Non posso dormire, diceva, neppur all’udienza!

Dopo un quarto d’ora giunse il presidente.

Tutti gli mossero incontro per stringergli la mano e dargli il buon giorno.

Il presidente entrò sorridendo, fece riverenze a destra e a sinistra, e strinse con tutte e due le mani la mano che gli porgeva ciascuno degli auditori.

– Vostra signoria sta bene? – domandò l’auditore Lechini, un omettino di bassa statura, magrolino, sempre ligio, cerimonioso, e che faceva uno sforzo per non buttarsi in ginocchioni quando parlava col presidente, con gli alti magistrati della Consulta, o con qualche altro dignitario da cui dipendeva il suo avanzamento.

– Sto benissimo, caro Lechini, – rispose il presidente, gratificando di un sorriso speciale il suo prediletto. – Loro, signori, stanno tutti ottimamente, lo vedo! – continuò, volgendo attorno un’occhiata benevola e con un gesto di cordiale protezione. – Ci sono notizie da Pisa sulla salute di Sua Altezza la Granduchessa?

– Lo stato di Sua Altezza – rispose il Lechini, inchinandosi nel pronunziare la parola Altezza, e andando a cercare tra molte carte sopra una tavola la Gazzetta di Firenze, del giovedì – è sempre il medesimo. Ecco quello che dice il giornale.

Il presidente, sedutosi nella sua poltrona, faceva sembiante di prepararsi ad ascoltare con grande raccoglimento.

Il Lechini lesse, sotto la data di Pisa:

«Tutto quello che ha rapporto allo stato attuale della nostra adorabile Sovrana forma ora, può dirsi, la principale e più importante occupazione di tutta questa popolazione. Tra le altre pie funzioni dedicate a tale interessantissimo oggetto…»

Gli auditori, tutti in piedi, intorno al banco del presidente, ascoltavano attenti, o ne facevan sembiante, la lettura del giornale.

Quando l’auditore Lechini ebbe finito, il presidente esclamò:

– È ammirabile in ogni circostanza l’esempio, che dà la famiglia regnante, di sentimento religioso… A proposito, Lechini, avete sentito la messa del maestro Andrea Nencini nell’Oratorio dei Preti di San Firenze?

– Sicuro, signor Presidente! – disse il Lechini – Anzi l’arcivescovo Minucci mi ha domandato notizie di lei.

– È un buon lavoro questa messa?

– Stupendo! – rispose l’auditore – L’esecuzione poi magnifica… Il tenore Giovanni Duprez ci ha imparadisati. Anche il basso Domenico Cosselli ha fatto prodigi. L’orchestra del Teatro della Pergola è stata eccellente…

Il presidente della Rota, colto, ingegnoso, faceva pompa volentieri del suo gusto per la letteratura, per le arti, e in specie per la musica.

– Ho sentito sere sono – riprese il presidente – al Teatro degl’Infuocati una ragazza, che canta di contralto, in modo… – creda, Lechini.... – da sbalordire.... Si chiama Clementina Vecchietti. E cantava quella bellissima aria del nostro Mercadante:

Ah! s’estinto ancor mi vuoi…

E il magistrato ripeteva l’aria a mezza voce, e con la mano destra batteva la misura sopra un bracciuolo della poltrona.

– Sembra che sia piaciuto molto il Torquato Tasso recitato dalla Compagnia Internari e Paladini… La Internari mi scrivono che nella parte della duchessa Eleonora è insuperabile.

– Ma l’autore del lavoro si è scoperto?

– Oh! si scopre facilmente l’autore di un lavoro che piace, anche se voglia sulle prime farsi pregare.... Si è quindi saputo subito che il Torquato Tasso è dell’autore della Monaca di Monza.

Fu picchiato alla porta.

– Entrate! – disse il presidente.

Un usciere entrò, portando una lettera, e la consegnò al presidente.

Il presidente l’aprì e lesse: «Vostra signoria è invitata ad assistere alla prima adunanza, che l’I. e R. Accademia dei Georgofili terrà domenica mattina, 4 decembre, a ore 10 e mezzo.»

La porta fu spalancata di nuovo con grande strepito ed entrò, tutto accigliato, e con mal garbo, l’auditore Pantellini.

Questo auditore rappresentava in tutte le discussioni la contradizione, l’opposizione.

Mentre l’auditore Lechini credeva suo obbligo di essere sempre dello stesso parere del presidente, l’auditore Pantellini si compiaceva di esporre sempre un parere contrario a quello del suo superiore.

– Buon giorno! – disse bruscamente, appena entrato, e come se avesse voluto addentare tutti i presenti. E, mentre posava il cappello sopra una sedia, guardava il Lechini con un piglio quasi stesse in forse di divorarlo.

L’auditorìno aveva paura delle violenze e delle escandescenze del suo collega, alle quali serviva spesso di bersaglio.

– Buon giorno, signor auditore! – rispose il presidente al saluto quasi minaccioso del collega.

Il presidente, che non si era mosso dalla poltrona, tendeva la mano al nuovo arrivato con fisonomia ilare e in atto di molta cortesia.

Il presidente apparteneva ad una famiglia nobile, frequentava i più eletti convegni della città, era uomo di squisita educazione, di animo mitissimo, di carattere amabile.

Mise la sua mano bianca, morbida, in quella ruvida e nervosa dell’auditore Pantellini: quindi, alzandosi, esclamò:

– Signori!… è tardi, dobbiamo entrare in udienza.

L’auditore Lechini corse al cordone del campanello e lo tirò.

Subito comparve un usciere.

– Andate ad avvertire il signor Avvocato Fiscale e il Cancelliere che il signor presidente vuol cominciare l’udienza…

L’usciere, che aveva lasciato la porta aperta, fece un cenno.

Altri due uscieri entrarono: e cavarono da due armadii le toghe dei magistrati.

– Il prigioniero è sceso? – domandò il presidente all’usciere capo, mentre questi gli legava con molta diligenza le facciòle.

– Sì, signor presidente: si trova nella stanza di custodia, accompagnato dall’agente Lucertolo che è ora di servizio alle carceri, e con il quale l’inquisito parla molto volentieri.

– L’Avvocato Fiscale, il Cancelliere sono già in sala d’udienza!… – disse, tornando con la toga già in dosso, e col berretto in mano, l’usciere, che era stato mandato a far l’ambasciata.

– Signori, sono pronti? – interrogò il presidente.

E visto che tutti avevano infilato la toga, aggiunse, rivolto al capo usciere:

– Dunque, possiamo andare!

– Prendete! – disse all’usciere l’auditore Pantellini, relatore nella causa, tendendogli, con un gesto molto brusco, un grosso fascio di fogli.

Pochi secondi dopo, i sei magistrati della Rota entravano nella sala d’udienza, preceduti dall’usciere, che alzando una mano verso il pubblico, gridava: abbasso i cappelli!

Gli auditori sedettero.

Il presidente scambiò un lieve saluto con l’avvocato fiscale, quindi rivolto al birro graduato, che stava dinanzi una porta chiusa, a sinistra della sala, vicino al banco dei magistrati:

– Fate entrare – gli disse – l’inquisito.

Ci fu un mormorìo di curiosità.

Subito entrarono un gruppo di birri e dietro di loro comparve, sereno, tranquillo, quasi sorridente, Nello Bartelloni, accompagnato da altri birri.

Da un’altra porta entrava nel medesimo istante l’avvocato Arzellini.

Prima di sedersi al banco della difesa, si tolse di capo il berretto nero, e s’inchinò rispettoso al Presidente e all’Avvocato Fiscale.

Il processo Bartelloni

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