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PRELUDIO

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DI

OLINDO GUERRINI

Quando, egregie signore e signori, quando l'autore ha compiuto l'opera, allora comincia a pensare alla prefazione. Così il signore Iddio, dopo aver creato dal nulla l'Universo, pensò alla prefazione – all'uomo – e lo creò ultimo, a propria imagine e somiglianza. Ma il pubblico, che non è iniziato ai misteri della tecnica d'arte, e ignora, per fortuna sua, con quali artifizi si costruiscono un libro o un dramma musicale, crede ingenuamente che l'opera sia stata pensata ed eseguita in quella stessa successione di tempi e di idee in cui la trova disposta. Crede cioè che l'autore abbia cominciato dal principio e finito colla fine; e che la prefazione o il preludio, che stanno sul limitare del libro o del dramma, sieno stati i primi, in ordine cronologico, ad esser composti.

E il buon pubblico erra. Che se, del resto, ragionasse soltanto per analogia, si convincerebbe subito che una gran parte delle faccende di questo mondo, contro ogni canone apparente di logica, non cominciano dal principio. Sembra un paradosso, ma è un fatto di tutti i giorni. Quante spese, per esempio, fatte prima d'avere i denari! Tutta la teoria del credito è fondata appunto su questa facoltà particolare dell'uomo di poter cominciare dalla fine. Quanti dottori esercitano la professione prima d'averla studiata; quanti sonetti si cominciano a scrivere dall'ultimo verso, quanti romanzi si cominciano a leggere dall'ultimo capitolo. Quante affermazioni prima della certezza, quanti giuramenti prima della convinzione, quante nozze prima dell'amore! L'uomo è un essere perfettamente illogico; il che lo distingue dai bruti.

Nel caso nostro poi è legge di natura, fatale come quella della gravità, che la prefazione debba esser fatta dopo il resto. Nella prefazione l'autore riassume il contenuto dell'opera, indica l'ordine, espone il metodo seguito e passa in rassegna le opinioni de' suoi colleghi sullo stesso argomento. Dimostra a luce meridiana, ciò s'intende, che tutti i colleghi e predecessori ebbero sempre torto marcio; pone delicatamente in dubbio lo stato delle loro facoltà mentali, la loro fedina criminale e il loro stato di famiglia, e dopo di averli spesso gratificati di molti ma non nobili titoli, passa a dimostrare la propria superiorità, la virtù propria, il proprio genio. Ora tutte queste operazioni espositive non possono esser condotte a bene che ad opera compiuta, quando l'autore ha finalmente un'idea chiara di quel che voleva fare e di quel che gli è riuscito di fare. Se la ciambella gli riuscì col buco egli la trasforma in altare e vi erige sopra un tempio nella prefazione, dove offre a sè medesimo la mirra e l'incenso, e fa la ruota in faccia agli ammiratori e tempera le saette per gli eterodossi. Se la ciambella poi, non che col buco, riuscì senza la minima traccia di soluzione di continuità, allora l'autore, come potete credere, fa precisamente lo stesso, si erige l'altare, si fabbrica il tempio e gratifica sè stesso dei più puri e più grati incensi della rettorica. Poichè, dal giorno in cui fu trovata questa meravigliosa e matta arte dello scrivere, non fu mai scrittore persuaso di aver fatto un brutto libro. Che se mai ne nascesse un solo, in verità vi dico, che in quel giorno il sole si oscurerà perchè sarà prossimo il giudizio universale.

Ad ogni modo, per tornare in carreggiata, qualunque sia il genere o la fortuna dell'opera, resta fissata questa legge che la prefazione si fa per l'ultima.

E se non bastassero le prove addotte, basterebbe pensare un poco al preludio di un dramma musicale. Ivi il maestro espone o riassume i motivi principali dell'opera, quasi li racconta ad uno ad uno al pubblico, il quale per lo più non è loro avaro di applausi d'incoraggiamento in principio, quanto è prodigo poi di energici fischi di scoraggiamento alla fine. Ma se l'infelice maestro non avesse già finita l'opera, come potrebbe accennarne i motivi principali nel preludio? È dunque provato che l'esordio si fa dopo la conclusione: il che era da dimostrare.

Da quel che ho detto fin qui, risulta anche provata un'altra affermazione non meno inutile, che cioè la prefazione è una instituzione antichissima.

È chiaro infatti che, le leggi naturali non avendo mai subito alcun mutamento, gli autori della più remota ed incredibile antichità debbano aver avuto le stesse passioni e sofferti gli stessi bisogni che questi moderni. Intendo rispetto alle relazioni col pubblico, e non al contenuto delle opere. Non so se come tutte le invenzioni anche questa ci venga dalla China. Certo se lo merita. Ma ad ogni modo quel remotissimo figlio del Cielo che primo commise una prefazione, fu tratto dal desiderio di parlare di sè, della sua opera e di propiziarsi il lettore, riuscendo come sempre all'effetto contrario, perchè è vero quel che dice il Pascal che l'io è odioso.

Il costume latino, anzi più precisamente italiano, vorrebbe qui che io vi sprofondassi meco nelle voragini della più oscura erudizione, in cerca delle origini della prefazione. Avrete notato infatti che presso di noi non si scrivono poche pagine sopra le cose meno importanti del mondo, se, col pretesto di illuminar bene il lettore, non si risale alle origini del genere umano. I più discreti si contentano della Bibbia. Molte volte vi sarà capitato in mano un opuscolo che parla di un quadro, di un coccio di maiolica o di un arazzo, e avrete visto che una buona metà è spesa a ricordarvi le pitture degli Egizi, i vasi degli Etruschi, e le tele di Aracne. L'autore vi fa subito capire che vi stima ignoranti e v'insegna, bontà sua, che Jubal inventò la musica e Tubalcain la metallurgia. Gli atti e le memorie delle Accademie storiche od archeologiche, ora quasi esclusivamente consacrate allo studio assiduo delle pentole e dei pentolini storici e preistorici, primeggiano specialmente in questo comodo genere di pedanteria. È incredibile come l'uso delle pentole fosse comune presso i nostri lontani progenitori e come fosse grande la malizia loro nel nasconderle sotto terra per fornir materia agli atti accademici; ma è più incredibile ancora l'estensione e la profondità che ha preso ai nostri giorni questa scienza dei pentolini, per cui gli archeologi moderni, dopo aver esposto tutta la storia della ceramica, da certi segni e da certe graffiature sanno dirci appuntino se il coccio fu di un Umbro o di un Ligure, se il vasaio fu bello o brutto, ammogliato o scapolo. Il che importa molto alla umanità ed alla archeologia.

La consuetudine italica del far precedere ad ogni più piccola cosa una storia completa e un profluvio di erudizione, somiglia molto al morbo della prefazione. È sempre un preambolo che si volge bensì alla crassa ignoranza del lettore e non alla sua supposta simpatia, come accade per lo più nella prefazione veramente detta; ma come preambolo deve esser messo cogli altri. Ed anch'io per non esser meno buono italiano e meno felice proemiatore, dovrei seguire questa bella tradizione di erudita seccatura ed infliggervi il supplizio della storia e della preistoria della prefazione. Ma tanta è la cortesia che mi avete dimostrato, e per la quale vi sono gratissimo, che sento l'obbligo di essere umano e vi risparmio la solita risalita della corrente dei secoli, la solita Bibbia e i Fenici e gli Egizi.

Non posso però fare a meno di ricordarvi i Greci, perchè tanto fu lieto il loro beato cielo che vide nascere gli uomini meglio proporzionati del corpo e dell'intelletto che fossero mai. Il buon gusto fiorì tanto e così felicemente sul fortunato suolo dell'Ellade, che il suo profumo penetrò perfino la coriacea compagine della prefazione, la indusse ad esser breve, e gli scrittori che erano Ateniesi nel testo, furono Spartani nel proemio. Tempi invidiabili ed invanamente desiderabili, nei quali Tucidide preludeva alla sua storia con dieci righe, ed Erodoto preponeva alle sue Muse immortali queste sole parole: «Erodoto d'Alicarnasso avendo per ricerche conosciuto tra le altre cose, le cagioni delle guerre tra i Barbari ed i Greci, le scrisse in questi libri e le pubblicò, perchè le cose fatte dagli uomini non siano in progresso di tempo dimenticate, e le azioni preclare e mirabili, così dei Greci come dei Barbari, non siano defraudate della debita lode.» E nient'altro! Nell'originale sono trentanove parole, poco più di un telegramma comune. Oh, se i fati benigni avessero concesso che le prefazioni fossero tutte così, io credo fermamente che l'umanità sarebbe più felice!

I Romani, grandi corruttori d'ogni cosa, guastarono questa aurea e santa semplicità greca, e la prefazione di Tito Livio, per quanto bella, non è più così breve. A poco a poco il decadimento non ebbe più riparo e si giunse a tanto che Cicerone confessa ad Attico di aver pronta una raccolta di prefazioni che possono adattarsi a qualunque libro.

A tanto giunge il demone della prefazione, e c'è chi sostiene che i primi capitoli sallustiani della congiura di Catilina e della guerra di Giugurta, non siano appunto che due prefazioni del genere delle ciceroniane, a doppio uso, come i sofà letti o le canne seggiole, poste in fronte al libro. Tanto e così esecrabile fu l'imperversare della prefazione, che il pubblico irritato, nauseato, si ribellò, e ai tempi di Plinio il giovane le prefazioni erano cadute in disuso. Quanti forse tra voi non si augurano ora il ritorno di quella felice rivoluzione!

Ma la ribellione del pubblico e la sua avversione ai proemi, da Plinio in qua, seguitò vivacissima e per 18 secoli non ha smesso e spero che non smetterà così presto. C'è una guerra, ora sorda, ora fieramente rumorosa tra gli autori e i lettori. I primi hanno bisogno di parlar di sè e dell'opera propria, gli altri non ne vogliono sapere, hanno fretta e stimano perduto il tempo speso nei preamboli. Il commensale che ha l'appetito in resta sdegna i piattini dell'antipasto e si butta ai piatti di resistenza. Chi ha un colloquio, d'affari o d'affetto, se la cosa gli preme, salta il proemio ed entra subito in materia. E gli autori sono tanto ciechi da non vedere che quando si salta la prefazione si fa un elogio al libro, poichè si crede di trovarlo buono e si ha fretta di leggerlo. E che quando si fa sul serio si dimentichino i preamboli, ce lo insegnò quello stesso Cicerone che teneva le prefazioni bell'e fatte e lo confessava senza arrossire. Quando si trovò in faccia, non un avvocato in tribunale, ma Catilina in Senato, e non si trattava più delle ciarle del poeta Archìa, ma della testa che non era molto sicura sullo spalle; Cicerone, l'uomo delle prefazioni premeditate, l'uomo che ispirò al Passeroni un enorme poema che non è altro che una prefazione senza libro, credete voi che ricordasse i precetti dell'oratoria e curasse che la parrucca della rettorica fosse pettinata con tutte le regole? Si faceva sul serio, e saltò a pie' pari nell'argomento e cominciò ex abrupto col celebre quousque tandem. La paura di perdere il capo non gli fece perdere la testa e spettava proprio a lui ad insegnarci con tanta autorità che quando la cosa preme i preamboli sono dimenticati.

Ebbene, il pubblico ha sempre fretta. Vuol conoscere il libro e non l'autore. Questi gli sorride dietro le frasche della prefazione, gli strizza l'occhio e gli dice: guardami come son bello! Ma il lettore vuole il libro e non le smorfie: non cura gli sfoghi del povero autore che ha tanto bisogno di convincere il prossimo della perfezione dell'opera sua, di perorare, di persuadere; ma tira dritto, salta le prime pagine serenamente e comincia il libro. L'autore insiste, ma l'altro fa di peggio. Di qui una guerra accanita, di stratagemmi, di imboscate, d'insidie; qua per immergere proditoriamente un'acutissima prefazione nel cranio del prossimo, là per schivare l'orribil colpo e punire degnamente lo scellerato aggressore. Le peripezie della lotta sono varie e la fortuna alterna. Oggi, per esempio, lo sorti volgono contrarie alla prefazione; il Dio delle battaglie sorride ai lettori. Vedete la poca fortunata resurrezione del prologo nelle commedie. Quando gli eventi della guerra favorirono gli autori, costoro infierirono sui miseri vinti ed inflissero loro il supplizio di questi prologhi che narrano anticipatamente la commedia e le lodi di chi la fece. Mutate le sorti, il prologo fu sepolto a suon di fischi. Ma eccolo, cadavere quattriduano, uscito dalla fossa, così sfiaccolato e bastonato che non c'è bisogno d'esser Profeti o Sibille per predire il suo prossimo ritorno alla pace del sepolcro. Vedete anche il preludio dei drammi per musica, il quale, o arieggia alla concisione greca, o si stacca dall'opera, sotto forma di sinfonia, e tende a vivere di vita propria e non parassitaria. Così abbiamo opere senza preludio e sinfonie senza opera, come segno certo della decadenza della prefazione e dell'abominio in che è tenuta dal pubblico.

Ma gli autori sono costanti, tenaci, testardi. Come i Pelli Rosse camminano cautamente nel sentiero di guerra, si appiattano alle cantonate dei librai e scuoiano senza pietà il povero ingenuo che cade nell'insidia. O si infingono come l'avvelenatore ed aspergono di falso liquore gli orli del vaso, cercando di fare inghiottire la prefazione sotto il nome di preludio, di preambolo, di esordio, di proemio, di avviso al lettore. O commettendo ad altri il mandato di perpetrare il misfatto premettendo al libro una lettera di amico illustre o le lunghissime due parole dell'editore. Non v'è furberia che non sia stata adoperata, non v'è lacciuolo che non sia stato teso. Il Manzoni inventò un brano di cronaca vecchia. Altri più basso e più tardi, trovò la gherminella dell'amico che pubblica i versi dell'amico morto ed abusò di tutti i più sacri sentimenti di pietà e di compianto pur di far scoccare l'indegna trappola della prefazione.

Quando il lettore c'è caduto una volta, inferocisce, e vede dappertutto il fantasma della prefazione che lo perseguita. Poche prefazioni si sono salvate dalla fiera ecatombe, e si sono salvate perchè in fondo non sono prefazioni. Il prologo del Decamerone è il racconto della peste, l'introduzione all'Enciclopedia una esposizione di principii filosofici, il proemio al Cromwel un codice di precetti d'arte. Si sono salvate, prima, certo, perchè belle, poi, certissimo, perchè impersonali. Infatti possono stare assolutamente senza il libro e non sono prefazioni che pel posto occupato nella paginatura. Tutte le altre sono involte nell'odio e nella maledizione, e il lettore che si sente inseguito dall'autore, gira alla larga, cogli occhi sospettosi; indovina il nemico, come la colomba lo sparviere; fiuta il pericolo da lontano, lo fugge coll'anima guasta e il fegato avvelenato, e non ha abbastanza vituperi, oltraggi e anatemi pel nemico che lo tribola e lo caccia, il fratricida Caino!

Ma se gli odii e le vendette fra le parti belligeranti sono giunte a tale che per poco non si danno al cannibalismo, considerate che si tratta sempre di una prefazione scritta, di poche carte stampate che si possono non leggere o sopprimere, se così piace. Ma che avverrà quando la prefazione incarnata e fatta uomo, spinge la temeraria crudeltà fino a presentarsi ad un pubblico di persone ben educate e gentili quanto si voglia, ma non meno sensibili ai tormenti, non meno dolorosamente eccitabili al martirio di un preambolo? È il mio caso. Io sono qui l'odiosa, l'orribile, la spaventosa prefazione, cosciente del male che fa e dell'avversione che desta. Io sono la prefazione eseguita contro ogni ragion tecnica dell'arte, cioè fatta prima dell'opera e non dopo. Io sono la vittima, ahimè non innocente! che gli autori hanno designato al sagrificio, la mascula Ifigenia che colla sua perdita deve propiziare i venti alle altrui navi. Si cercava Curzio che si gettasse nella voragine, Orazio al ponte, Muzio Scevola all'ara. Si volle uno che morisse pel popolo tutto, un candido agnello, una bianca colomba da offrire al nume irato su questo altare; ed eccomi, candido agnello, bianca colomba, accettante la passione, interceditrice per tutti.

Che se la giusta fama della cortesia vostra non mi avesse persuaso, avrei respinto con orrore questo ufficio spietato di prefazione viva. D'altronde ricordai il detto di uno Svizzero arguto, secondo il quale l'amore prima del matrimonio è una prefazione troppo corta ad un libro troppo lungo, e pensai di esser breve anch'io come l'amore, per conciliarmi la vostra benignità. Quanto al matrimonio ci penserete voi ed i miei successori, contentandomi di augurarvelo felice e ricco di numerosa prole.

Comincia dunque così un ciclo di letture in questa gentile e gloriosa Firenze, destinata, senza dubbio, dal suo fato a far attecchire finalmente in Italia questo genere d'arte e di coltura. Pur troppo, finora, presso di noi, anzi in tutti i paesi latini, i tentativi fatti non ebbero che risultati mediocri, mentre nei paesi nordici, e specialmente anglosassoni, la lettura e la conferenza ebbero ed hanno una vita vivace e lodata. Di chi la colpa? Un po' di tutti; dei lettori e del pubblico. I primi furono per lo più troppo inamidati, troppo accademici, e il pubblico troppo esigente, troppo facile alla stanchezza. Quest'arte deve ancor fiorire e fruttificare tra noi, e senza dubbio la palestra che una colta società apre oggi ai migliori ingegni italiani, gioverà a far amare questi ludi minervali, e la prova sarà vinta. Poichè, non è già che le razze germaniche siano dotate di maggior forza di resistenza fisica e morale, da sopportare letture di maggior peso che gli omeri nostri non possono tollerare. Non è che gli uomini del settentrione, abituati fino dalla puerizia ad una ragionevole ginnastica del corpo e della mente, ne traggono muscoli più rigidi e nervi più tesi contro l'urto e lo sforzo della seccatura. No, poichè non v'è possa umana capace di resistere a tanto, e ve ne accorgete pensando soltanto che forza erculea si richiegga per reprimere un indiscreto sbadiglio. La ragione sta qui; che gli ascoltatori nordici hanno l'abitudine, ed i lettori l'attitudine alla conferenza. I protestanti hanno sostituito sermoni e conferenze alle nostre prediche, lasciando in disparte l'enfasi e la gonfiezza che dal Segneri in qua sciupano la nostra eloquenza sacra, ed accostandosi sempre più al fare piano e persuasivo delle lezioni e delle letture laiche, educando alla lor volta gli ascoltatori a questo genere d'arte e guidandoli a gustarlo ed a compiacersene. Così i lettori e gli ascoltatori, anche per questo, si sono raffinati ed educati, e tra loro vibra spesso quella corrente di simpatia che è indispensabile perchè una lettura non riesca a male. Infatti una conferenza è una grande gabbia, dove sono chiusi due cani, o mettiamo due bestie più nobili, due leoni, che debbono passare un'ora insieme. Cominciano a guatarsi, a scodinzolare e ad annusarsi. Se c'è la corrente di simpatia, l'ora passerà bene; se la simpatia non c'è, accade la baruffa e uno dei duellanti è inevitabilmente accoppato. Così se la corrente ipnotica non si stabilisce tra il conferenziere e gli ascoltatori; o il primo fa morire i secondi coll'asfissia, o i secondi ammazzano il primo colla disapprovazione. In ogni caso poi, qualunque dei due abbia la peggio, chi muore veramente e di mala morte, è l'instituzione. Il giusto, secondo il solito, muore pel peccatore.

Ora, se altrove questa corrente di sensi simpatici fra i lettori ed il pubblico è diventata quasi abituale, purtroppo dobbiamo confessare che in Italia non è frequente. E la ragione è facile. Le conferenze sono freddolose; una temperatura mediocre le ammazza subito, è finchè le signore non si decideranno a frequentare con assiduità questi convegni dove l'arte o la scienza le desiderano, l'ambiente sociale e morale sarà sempre freddissimo.

La donna, che (in generale s'intende) ha i nervi più forti dell'uomo, tanto che riesce a ballare un carnevale intero senza stancarsi, si spaventa troppo facilmente all'idea di un piccolo sforzo di attenzione. La sua nativa delicatezza rabbrividisce all'idea di un quarto d'ora di raccoglimento. E se qualche lettore non la contenta, generalizza troppo e si sdegna colla instituzione intera, la sfugge e colla sua assenza la fa morire gelata. Se le signore sapessero come la loro presenza riscaldi, come i loro begli occhi illuminino questi convegni, quanto calore e luce e vita diano a tutte le cose umane il loro aspetto e la benevolenza loro, come voi, egregie Signore, sfiderebbero il pericolo di qualche momento non perfettamente allegro, mosse dall'idea di far un'opera bella, utile e veramente degna della fine cortesia femminile. Che se v'ha certezza di buona riuscita per questa colta società che promove le letture, essa sta tutta nella felice conciliazione dell'opera intrapresa, colle simpatie e colla lieta presenza dell'eterno femminino.

Se in Italia poi è città alcuna più degna di dar vita a simili imprese e dove più fausti sorridano gli auspici, senza dubbio è questa – la cara e gentilissima Firenze – dove le conferenze sembrano esser nate, e dove certo per lunghi secoli vissero prosperamente. Quando la caligine del medio evo cominciò a diradare, e gli uomini, che tornavano a sentirsi giovani, credettero alla bellezza ed all'amore, su per questi giocondi colli fiorentini, fuggendo la morìa e lo spavento, tre giovani e sette fanciulle cominciarono il più lieto corso di conferenze che sia mai stato. Infatti, che altro è il Decamerone se non una serie di conferenze amorose, ora geniali, ora brutali, scintillanti ancora dell'arguzia fiorentina, spiranti ancora l'alito dell'antica vita italiana? Ma passata la gaiezza della fiorente gioventù, quando la dolce fiamma dell'amore fu spenta, un'altra illusione sorrise agli ingegni fiorentini, l'illusione della filosofia. Ed in questa disperata ricerca dell'ideale, in questa speranza sempre vana di sapere il perchè delle cose, ecco rinascere la conferenza, e il Ficino negli Orti famosi, parlare ai fratelli in Platone e cercare affannosamente le prove del Cristianesimo nella filosofia nata già sotto i platani e gli olivi di Acadèmo. E rifiorirono le beltà dell'arte, frondeggiò l'albero della scienza in questa Atene italica che dell'antica ebbe tutto, il genio, la gloria e talvolta anche i vizi.

Caduta la giovinezza con l'amore, sfiorita colla speranza la virilità, venne il doloroso periodo della scienza che è fatta di disillusioni e di scetticismo. Già il Machiavelli leggeva i discorsi sulle Deche negli Orti neoplatonici e cercava, non più le recondite ragioni dei fenomeni universali, ma il segreto dei fatti e delle coscienze contemporanee. Il vero, il freddo vero, rimane immobile e terribile sulle ruine degli ideali e dei sogni caduti. Agli entusiasmi dell'amore, della fede, della speranza, succedono, come i vecchi ai giovani, i severi studii della realtà e della esperienza, e in questo radioso e divino sole di Toscana, Galileo trova e numera le macchie. L'Accademia del Cimento notomizza la natura, l'Accademia della Crusca notomizza la lingua. Non ci sono più entusiasmi e tutta una generazione di vecchi frigidi, lavora matematicamente precisa a scrutare, a compilare, a raccogliere; ma sul suolo spossato la pianta della conferenza vegeta ancora, diventata scientifica, erudita o anche pedante, pur tuttavia verde e vitale. Persino gli ultimi e più cinerei tempi della decadenza la videro trasformata in misere cicalate, ridotta ai puri lenocinii della lingua, ultimo belletto alla decrepitezza del pensiero; ma la videro tuttora, quasi a testimoniare della sua tenace vitalità in queste propizie aure toscane. Le annose radici gettarono polloni ancor verdi fino a che i tempi furono maturi e compiuti.

Ed ora, rinnovata ogni cosa nella vita sociale, politica e letteraria, ecco di nuovo la conferenza antica che, sotto forma di lettura, ringiovanita e rinnovata, si ripresenta ai colti fiorentini, non immemori delle gloriose loro tradizioni. E così, uscita dal pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e guata il passato e si propone di dipingervi per ora il lontano periodo delle origini, il principiare dei Comuni, della Monarchia, del Papato, della lingua e dell'arte. Eccola, sotto il patrocinio di illustri uomini, col decoro di celebri nomi, ricordarvi che, nata già in Firenze, a voi, concittadini suoi, spetta il farle accoglienze oneste e liete ed assicurarle vita duratura. Eccola, per indegno ambasciatore, rivolgersi fiduciosa a voi, graziose signore, chiedendo la benevolenza e l'amor vostro che vivifica, riscalda ed illumina. Eccola, infine, ad implorare la vostra cortese pietà per la vittima della prefazione.

NOTA

Alle letture fiorentine doveva preludere l'onor. Ferdinando Martini. Ma l'illustre uomo, trattenuto a Roma da gravi doveri, non potè, ed io fui chiamato a sostituirlo.

Grato agli egregi amici che pensarono a me ed a tutti coloro che benevolmente mi accolsero e festeggiarono, mi è forza però far noto ai lettori come fu fatta questa conferenza; cioè quasi all'improvviso. Ed essendo prefazione ad un libro ancora da farsi, non poteva darne che cenni vaghi con parole inconcludenti. Si trattava di menare il can per l'aia un paio di quarti d'ora, tanto per cominciare. Il che mi sia di scusa presso coloro che cercheranno qualche cosa qui, e non la troveranno. O. G.

Gli albori della vita Italiana

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