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LA FORFECCHIA

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Gli uomini e le ragazze – cominciata la mietitura – prestavan opera fuori del fondo, e le donne erano andate tutte e tre al fiume, a risciacquare il bucato, perchè nel rio vicino mancava l'acqua. A guardia della stalla avrebbe dovuto rimanere il garzone; e a servire il vecchio, se lo chiamasse.

Ed ivi, all'ombra del noce, il nonno ottantenne e la bambina di sei anni, l'uno adagiato sulla scranna a bracciuoli, l'altra seduta su la sponda del fosso invaso dalle erbe, guardavano con indifferenza lo spazio conceduto ai loro occhi.

Tacevano i campi nella lunga ora pomeridiana e nella ferma calura della fine di giugno; la casa, vuota delle solite voci, sembrava aspettare in un abbandono tranquillo; e la vita, che urgeva d'intorno e di cui non percepivano l'arcano senso, infondeva nel loro animo una letizia quieta, come se nel mondo ci stessero solo loro due, e così paghi, o come se il mondo fosse un bene dato a lor due soltanto. Anche, per essi soltanto le cincie e le averle pareva che pungessero di pigolii e gridii l'immoto silenzio. E se abbassavano le palpebre e poi le rialzavano, la luce vibrante al limite dell'ombra era quale un fulgido e tremulo velo diffuso sulla terra perchè essi, a scorgerlo, fossero contenti di trovarsi, così, sulla terra.

– Cosa fai, dunque? – domandava sorridendo il vecchione.

E la piccolina rispondeva seria:

– Lavoro. Non vedi? – Si provava a intrecciare spiche di loglio. Nè, attenta all'impresa, poteva curarsi di lui, che cercava attirarla coi più dolci nomi e le promesse più dolci per afferrarla, sollevarla su le ginocchia e simulare di divorarsela in un boccone, vólto contro vólto; i capelli bianchi contro i capelli biondi. – Hamm! ti mangio!

Quelle per lei eran carezze faticose, sì valide braccia aveva ancora il vecchio; ma in compenso, quando lui allentava la stretta, lei scappava sicura di pareggiar la partita.

– Prendimi!

Prenderla? Da anni il nonno aveva perduto l'uso delle gambe. E rideva o sgridava. Sgridava a tutti, fieramente, donne e uomini; quasi pretendesse veder ripartita e accresciuta in ognuno l'energia che non aveva più e l'energia che gli era rimasta, o quasi volesse garantirsi del comando – sebbene costretto a farsi reggere a braccia ogni volta che desiderava mutar luogo. Ma a lei, la figlia minore del figlio minore e prediletto, non aveva mai rivolta una parola cattiva; e guai a chi la toccasse!; e se non l'aveva vicina, sempre gli si offuscava la faccia chiara, intorbidava lo sguardo limpido. Con lei diveniva bambino nei discorsi; nei giuochi le era uguale.

– Vieni qua! Porta qua – le disse – , che ti aiuto!

No. Diffidava; non aveva voglia di resistere alle tentazioni dei morsi, di premere le mani contro la faccia rugosa, per non soffocare, nè di strillare a difesa.

Ma poi la sedusse la proposta di una nuova gabbia da grilli. A comporla occorrevano gambi di erba volpina e non di loglio; e il nonno glieli indicava; e la esortava di non andar al sole a coglierne, e di non piegarli e romperli nello strappo.

Quando bastarono, la gabbia fu presto in ordine. Non appena però fu compiuto il lavoro, si compiè il tradimento.

– Hamm! Ti mangio!

Le strida sbigottirono fin i passeri, su per il tetto.

E il grillo?

Rispondeva il nonno che i grilli di giorno stanno in casa, per uscir la sera a cantare alla luna e alle fate.

E lei, credula, ripigliò la faccenda di prima; decisa a non lasciarsi ingannare mai più.

Ora il vecchio l'udiva borbottare senza ascoltarla e seguiva il ronzo d'un calabrone tra il folto dei rami. E, come la piccolina quando egli protraeva una tiritera noiosa, chinò il capo; e a poco a poco si addormentò.

C'era tuttavia da dubitare che fingesse, per tradir poi di nuovo; e l'altra venne a lui adagio; lo considerò un pezzo, lo toccò a un braccio; fuggì zitta. Dormiva? Ripetè, più ardita. Lui non si mosse; una mosca gli passeggiò sul naso: essa rise, e si convinse che dormiva davvero.

Che cosa fare adesso? Pensava di scappar via; di correre dal garzone, il quale sapeva formar bambocci con la paglia o con la mota; pensava di inseguire una farfalla al sole.

Ma rammentava le minacce materne e l'imposizione di non scostarsi dal nonno; e trovò meglio imitare il nonno. Per dormire allo stesso modo di lui si assise al piede del noce, appoggiata al tronco. E il calabrone che, tra il folto, ronzava per addormentar lei pure, l'addormentò.

Il vecchione intanto sognava. Sognava di essere a mietere; e il frumento era tanto bello che pareva d'oro. Ma le grane d'oro uscivano dalle loppe; cadevano. Egli rampognava i figliuoli d'essere andati a mietere prima quello degli altri, a stagione avanzata; e si sentiva stanco di curvarsi a recider mannelle e di sgridare mentre tutti cantavano.

A poco a poco gli rifluiva nel cuore una soavità immensa. L'aria affocata s'alleviava, si affinava in una deliziosa frescura; e al di là del grano, il campo fioriva sotto il cielo d'un nitido turchino. Rose e garofani; papaveri e gigli. Poi sorgeva un'immagine, che avanzava passo passo: e sorrideva. Sembrava domandare: – Non mi riconosci?

Se la riconosceva! La sua donna, quando era giovane. E gli parve di sognare nel sogno, perchè la sua donna morta mutava il colore dei capelli e il colore degli occhi. E il sorriso, non più triste, la giocondava tutta, trasformandola. Un sogno nel sogno. L'immagine mutava, lentamente e distintamente, in una ragazza bionda, dagli occhi celesti, bellissima. Chi? Era lei; la bambina, ingrandita come se andasse a nozze; felice.

Egli vedeva bene che era un sogno, che non poteva essere già sposa; nondimeno a scorgerla così felice, non godeva: soffriva in fondo al cuore. E l'afflizione cresceva cresceva, e la nipote, che egli amava più di sè stesso, lo guardava in uno stupore muto. Ah ecco, tornava quale doveva essere: bambina; lo chiamava; e poichè, stretto al cuore, egli non ricuperava la voce a risponderle, rompeva in pianto.

Finchè, del tutto desto, il vecchione la vide che piangeva davvero, presso a lui. N'ebbe un insolito dispetto.

– Cos'hai da piangere? Smorfiosa!

Poverina! Aveva ragione di lamentarsi. Soffriva.

– Nell'orecchia? Cosa ci hai nell'orecchia?

– Una formica. – Piagnucolando portava la mano alla guancia, quasi per attenuare il fastidio. La formica, che le era entrata nell'orecchio, era tanto grande!, e pregava il nonno di liberarla dalla pena, che era tanto grande!

– Cávala, nonno!

Il nonno la confortò, già impietosito, ma senza timore. Si fece dare un fuscello a cui si appigliasse l'intrusa, ed estrarla. Nel dubbio però che fosse peggio, le disse:

– Non ci badare! Non è niente!

Anche a lui, mentre dormiva su l'erba, un giorno, era successo lo stesso; ma le formiche hanno giudizio, e, a non stuzzicarle, tornan fuori, riprendono l'andare.

Il diavolo nell'ampolla

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