Читать книгу Tuareg - Alberto Vazquez-Figueroa - Страница 10

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Avvertì in lontananza, più che vederlo, un branco di antilopi e questo gli ricordò quanto grande fosse la sua fame.

Aveva passato i due giorni precedenti mangiando solo alcune manciate di farina di miglio e datteri, preoccupato per il suo scontro con Mubarrak, ma in quel momento la sola idea di un buon pezzo di carne che si cuoceva lentamente su un fuoco di brace gli rivoltò le budella.

Si avvicinò lentamente al bordo della grara guidando per la cavezza il suo cammello, attento che il vento non ne portasse l’odore fino alle bestie che pascolavano la vegetazione corta e dispersa della depressione che in tempi molto remoti doveva essere stata una laguna o l’allargamento di un fiumiciattolo e che conservava ancora nelle sue viscere resti di umidità.

Timidi tamarischi e una mezza dozzina di acacie nane erano sparsi qua e là, e fu contento di verificare che il suo istinto di cacciatore gli era stato fedele ancora una volta, perché lì in fondo una famiglia di magnifici animali dalle lunghe corna e dal pelo rossiccio

che brucava o dormiva al sole dell’imbrunire sembrava invitarlo a sparare.

Caricò il fucile con una sola pallottola, poiché così evitava la tentazione, se sbagliava il primo colpo, di provarne un secondo alla disperata quando le agili bestie avessero ormai intrapreso la fuga a grandi salti. Gacel sapeva per esperienza che il secondo tiro, quasi a caso, raramente faceva centro e significava uno spreco, mentre invece le munizioni, nel deserto, erano tanto rare e necessarie quanto la stessa acqua.

Lasciò libero il mehari che cominciò subito a pascolare disinteressandosi di ciò che non fosse il suo alimento, rivitalizzato e reso appetitoso dalla pioggia caduta, e avanzò in silenzio, quasi trascinandosi, da una roccia al ritorto tronco di un arbusto; da una piccola duna a un cespuglio, fino a raggiungere infine il luogo adatto, un monacello di pietra dal quale dominava, a meno di trecento metri di distanza, la snella figura del grande maschio del branco.

«Quando abbatti un maschio un altro più giovane prende immediatamente il suo posto e copre le sue femmine», gli aveva detto suo padre. «Quando uccidi una femmina, stai uccidendo anche i suoi figli e i figli dei suoi figli, che dovranno alimentare i tuoi figli e i figli dei tuoi figli.»

Preparò la sua arma e mirò con attenzione al petto, all’altezza del cuore. A quella distanza un colpo in testa era senza dubbio più efficace, ma Gacel, da buon musulmano, non poteva mangiare carne che non fosse stata uccisa con il muso rivolto verso La Mecca, pronunciando le preghiere che’aveva ordinato il Profeta. Uccidere l’antilope in quel modo sarebbe stato come sprecarla, e preferiva correre il rischio che scappasse ferita, perché sapeva bene che con una pallottola nei polmoni non sarebbe arrivata molto lontano.

L’animale alzò improvvisamente il muso, annusò il vento e si innervosì leggermente. Poi, dopo quella che gli sembrò un’eternità, ma che non furono più di due minuti, gettò lo sguardo sul branco assicurandosi che non corresse pericolo e riprese a mordicchiare un tamarisco.

Quando fu completamente sicuro che non poteva sbagliare e che l’animale non avrebbe fatto un salto al l’improvviso o iniziato un movimento strano, Gacel tirò dolcemente il grilletto, la pallottola partì con un urlo rigando il vento e l’antilope cadde in ginocchio come se le avessero segato le quattro zampe o il suolo fosse improvvisamente salito verso di lei come per magia.

Le sue femmine lo guardarono senza interesse né paura, perché anche se lo sparo aveva rintronato l’ambiente non era legato all’idea di pericolo e morte, e solo quando videro giungere l’uomo che correva con le vesti al vento brandendo un coltello cominciarono a correre per perdersi di vista nella pianura.

Gacel arrivò fino alla preda ferita che fece un ultimo sforzo per sollevarsi e seguire il suo branco, ma qualcosa dentro di lei si era rotto e niente obbediva al comando della sua mente. Soltanto i suoi occhi, enormi e innocenti, rispecchiarono la grandezza della sua angoscia quando il targui la prese per le corna, gli rivoltò il muso verso La Mecca e la sgozzò con un taglio deciso della sua affilata sciabola.

Il sangue sgorgò a zampilli schizzandogli i sandali e il bordo del jaique, ma Gacel non ci badò, soddisfatto nel verificare che la sua mira ancora una volta era stata eccellente e che aveva colpito la preda nel punto desiderato.

Il tramonto lo sorprese mentre stava ancora mangiando e le prime stelle non erano ancora apparse che già

dormiva, protetto dal vento da un cespuglio e riscaldato dalla brace del focolare.

Lo svegliò il ridere delle iene che accorrevano al richiamo dell’antilope morta e vide che giravano intorno anche gli sciacalli, per cui alimentò il fuoco che li allontanò fino al limite delle ombre e rimase così sdraiato con la faccia al cielo, ascoltando il vento e meditando sul fatto che quel giorno aveva ucciso un uomo, il primo che uccideva nella sua vita, e questo significava che la vita non poteva essere più la stessa da allora in poi.

Non si sentiva colpevole, perché considerava giusta la sua causa, ma lo preoccupava la possibilità che si trasformasse in una di quelle scatenanti guerre fra tribù di cui aveva tanto sentito parlare dagli anziani, nelle quali arrivava un momento in cui nessuno sapeva più la causa delle morti, né il nome del promotore. E i tuareg, i pochi imohag che ancora vagavano per i confini del deserto, fedeli alle loro tradizioni e leggi, non potevano eliminarsi gli uni con gli altri, perché dovevano già impegnarsi a difendersi come potevano dall’avanzata della civiltà.

Rievocò la strana sensazione che aveva percorso il suo corpo, quando la sua sciabola era penetrata blandamente, quasi senza sforzo, nel ventre di Mubarrak e gli sembrò di udire ancora il rauco rantolo che era uscito dalla sua gola in quell’istante. Ritirando il braccio fu come se si fosse portato via appesa alla punta della sua takuba la vita del suo nemico ed ebbe paura della possibilità di usare nuovamente la sua sciabola contro qualcuno. Ma poi ricordò il secco rintronare dello sparo che aveva ucciso il suo ospite addormentato e lo consolò l’idea che non poteva esistere perdono per i colpevoli di un simile crimine.

Stava scoprendo che, se amara era l’ingiustizia, ugualmente amaro era cercare di correggerla, perché uccidere Mubarrak non gli aveva dato nessun piacere, bensì una profonda e scoraggiante sensazione di vuoto. Come il vecchio Suflem aveva detto, la vendetta non fa tornare in vita i morti.

Si domandò poi perché fosse sempre stata importante per i tuareg quella legge non scritta dell’ospitalità che si anteponeva a tutte le altre leggi, perfino a quelle coraniche, e cercò di immaginare come sarebbe stato il deserto se il viaggiatore non avesse avuto l’assoluta sicurezza che ovunque fosse andato sarebbe stato ben accolto, aiutato e rispettato.

Raccontano le leggende che in una certa occasione due uomini si odiavano in tale modo che uno di loro, il più debole, si presentò improvvisamente nella jaima del suo nemico sollecitandone l’ospitalità. Rispettoso della tradizione, il targuf accettò il suo ospite, gli offrì la sua protezione e dopo qualche mese, stanco di sopportarlo e di dargli da mangiare, gli promise che poteva andare via in pace perché mai avrebbe attentato contro la sua vita. Da allora, e ciò sembrava accadere da moltissimi anni, quella era diventata una pratica abituale tra i tuareg che risolvevano in quel modo i loro dissensi e ponevano fine ai loro dissidi.

Come avrebbe reagito lui stesso, se Mubarrak si fosse recato al suo accampamento a chiedere ospitalità cercando di farsi perdonare la colpa commessa? Non poteva saperlo, ma probabilmente avrebbe agito come il targuf della leggenda, perché non sarebbe stato logico commettere un delitto per punire chi aveva commesso esattamente quello stesso delitto.

In quel tempo, in cui gli aerei solcavano gli altissimi cieli del deserto e i camion transitavano per le piste più conosciute spingendo la sua razza verso i più nascosti angoli della pianura, non era facile immaginare

per quanto tempo sarebbe vissuta ancora la sua razza in quella pianura, ma per Gacel era chiaro che, finché uno solo di loro fosse sopravvissuto sulle sabbie, sulle infinite pianure senza vita o sulle pietraie senza orizzonti della hamada, la legge dell’ospitalità doveva continuare a essere sacra, in caso contrario nessun viaggiatore si sarebbe più arrischiato ad attraversare il deserto.

Il delitto di Mubarrak non ammetteva discolpe e lui, Gacel Sayah, si sarebbe incaricato di far comprendere a quelli che non erano tuareg che nel Sahara le leggi della sua razza dovevano continuare a essere rispettate, perché erano leggi adatte all’ambiente, senza le quali non sarebbe esistita alcuna possibilità di sopravvivenza.

Arrivò il vento e con lui il giorno. Iene e sciacalli compresero che ormai avevano perso le loro scarse possibilità di mangiarsi un pezzo di antilope e si allontanarono, grugnendo e lamentandosi, verso le loro oscure tane, come tutti gli altri abitanti della notte: il fenec dalle lunghe orecchie, il topo del deserto, il serpente, la lepre e la volpe.

Quando il sole cominciò a riscaldare stavano già dormendo, conservando le loro forze fino a che le ombre della notte avessero nuovamente reso sopportabile la vita nella più desolata regione del paese perché lì, al contrario che nel resto del mondo, le attività si svolgevano di notte e il riposo di giorno.

Solamente l’uomo, nonostante i secoli, non era riuscito ad adattarsi completamente alla notte, e con il primo albeggiare, Gacel cercò il suo cammello che pascolava a poco più di un chilometro di distanza, lo prese per la cavezza e riprese, senza fretta, la sua marcia verso ovest.

IL posto militare di Adoras occupava un’oasi a forma di triangolo, poco più di un centinaio di palme e quattro pozzi, proprio nel cuore dell’estesissimo fiume di dune, per cui poteva considerarsi un autentico miracolo di sopravvivenza minacciato costantemente dalla sabbia che lo accerchiava proteggendolo dal vento e trasformandolo, proprio per questo, in una specie di forno che a mezzogiorno raggiungeva a volte i sessanta gradi centigradi.

Le tre dozzine di soldati che componevano la guarnigione passavano la metà della loro vita maledicendo la loro sorte all’ombra delle palme e l’altra metà spalando sabbia nel disperato sforzo di farla retrocedere per mantenere libera la stretta pista di terra che permetteva di comunicare col mondo esterno e di ricevere provviste e corrispondenza una volta ogni due mesi.

Da quando trent’anni prima un colonnello impazzito aveva avuto l’assurda idea che l’esercito dovesse controllare quei quattro pozzi che erano, d’altra parte, gli unici esistenti in quasi cento chilometri intorno, Adoras era divenuto il «destino maledetto», dapprima solo per le truppe coloniali, in seguito anche per gli indigeni come dimostravano le tombe che si elevavano all’estremità del palmeto, nove dovute a «morte naturale» e sei al suicidio di chi non era riuscito a sopportare l’idea di sopravvivere in un simile inferno.

Quando un tribunale era incerto se mandare un colpevole al muro, condannarlo all’ergastolo o commutargli la pena in quindici anni di servizio obbligatorio ad Adoras, aveva piena coscienza di quello che faceva, per quanto all’inizio il colpevole considerasse che tale commutazione gli fosse favorevole.

Per il capitano Kaleb-el-Fasi, comandante in capo della guarnigione e autorità suprema in una regione estesa quanto metà Italia, ma nella quale vivevano poco più di ottocento persone, i sette anni che trascorreva ad Adoras costituivano la punizione per aver ucciso un giovane tenente che aveva minacciato di svelare le irregolarità dei conti del reggimento nella sua precedente destinazione. Era stato condannato a morte, ma suo zio, il famoso generale Obeid-el-Fasi, eroe dell’indipendenza, grazie al fatto che era stato uno dei suoi aiutanti e uomini di fiducia durante la guerra di liberazione, aveva ottenuto che gli si permettesse di riabilitarsi al comando di un distaccamento militare dove non si poteva inviare nessun altro militare di carriera che non si trovasse nelle stesse condizioni.

Tre anni prima, basandosi unicamente sulle informazioni che erano in suo possesso, il capitano Kaleb era giunto alla conclusione che i componenti del suo reggimento erano colpevoli di più di una ventina di omicidi, di quindici violenze carnali, di sessanta rapine a mano armata e di uno svariato numero di furti, di truffe, di diserzioni e di reati di minore importanza per cui, per dominare una simile truppa, aveva dovuto dare fondo a tutta la sua esperienza, astuzia e violenza. Il

rispetto che infondeva era superato soltanto da quello che imponeva il suo uomo di fiducia, il sergente maggiore Malik-el-Haideri, un uomo magro, piccolo e apparentemente debole e infermo ma così crudele, astuto e valido che era riuscito a controllare una tale combriccola di bestie sopravvivendo a cinque tentativi di omicidio e a due duelli al coltello.

Malik era la «morte naturale» più normale ad Adoras e due dei suicidi erano dovuti a un’estrema insofferenza nei suoi confronti.

Ora, seduto in cima alla più alta duna che dominava l’oasi da est, una vecchia ghourds di più di cento metri di altezza, dorata dal tempo e indurita nel suo interno tanto da trasformare la sabbia quasi in pietra, il sergente Malik osservava senza interesse come i suoi uomini spalavano sabbia dalle giovani dune che minacciavano di sommergere il pozzo più lontano, fino a quando mise a fuoco il binocolo verso il solitario cavaliere che aveva fatto la sua apparizione montando un bianco mehari e che avanzava senza fretta in direzione del posto militare. Si domandò che cosa cercasse un targuf in quei luoghi fuori mano, quando ormai da sei anni avevano smesso di frequentare i pozzi di Adoras evitando ogni contatto con i loro occupanti. Le carovane beduine arrivavano sempre più raramente, facevano rifornimento d’acqua, riposavano un paio di giorni nel punto più appartato dell’oasi cercando di nascondere le loro donne e di non frequentare assolutamente i soldati e riprendevano la marcia sospirando di sollievo che non ci fosse stato alcun incidente. Ma i tuareg no. I tuareg quando sostavano nell’oasi, assumevano un atteggiamento altero e sfrontato e permettevano che le loro donne girassero liberamente con il viso scoperto e le braccia e gambe nude, indifferenti al fatto che quegli uomini non toccavano una donna da anni, e imbracciavano i fucili e le loro affilate sciabole quando qualcuno cercava di eccedere.

Da quando due guerrieri e tre soldati morirono in una rissa, i Figli del Vento avevano preferito cancellare il posto militare dal loro cammino, ma in quel momento quel cavaliere solitario avanzava deciso, abbordava l’ultima cresta, si stagliava contro il cielo dell’imbrunire con le vesti al vento per addentrarsi infine tra le palme e fermarsi vicino al pozzo nord, a un centinaio di metri dalle prime baracche.

L’ufficiale si lasciò scivolare per la duna senza fretta, attraversò l’accampamento e arrivò vicino al targuf che abbeverava il suo cammello capace di bere cento litri d’acqua in un solo sorso.

«Aselam, aleikum.»

«Metulem, metulem», rispose Gacel.

«Hai una buona bestia. E molto assetata.»

«Veniamo da lontano.»

«Da dove?»

«Dal Nord.»

Il sergente Malik-el-Haideri odiava il velo targuf perché si vantava di conoscere gli uomini e di capire, dall’espressione dei loro volti, quando dicevano la verità e quando mentivano. Ma con i tuareg quella possibilità non esisteva, perché lasciavano scoperta appena una fessura per gli occhi, che socchiudevano e rimpicciolivano di proposito nel parlare. Anche la voce suonava distorta e perciò si vide costretto ad accettare per buona la risposta, poiché in effetti lo aveva visto arrivare dal Nord e non aveva motivo per sospettare che Gacel si fosse preoccupato di fare un grande giro e fare sì che lo vedessero avanzare da quella direzione, l’opposta di quella da cui realmente proveniva.

«Dove sei diretto?»

«Al Sud.»

Aveva lasciato che il suo mehari si sdraiasse, soddisfatto e gonfio, con la pancia piena d’acqua, e si dedicava al compito di ammucchiare rami per preparare un piccolo focolare.

«Puoi mangiare con i soldati», gli fece notare.

Gacel sollevò un lembo di coperta e mostrò mezza antilope ancora tumida e coperta di sangue secco.

«Tu puoi mangiare con me, se lo desideri. In cambio della tua acqua.»

Il sergente maggiore Malik sentì che il suo stomaco faceva un salto. Erano più di quindici giorni che i cacciatori non catturavano una preda, perché con gli anni le avevano sempre più allontanate dai dintorni, e tra i suoi soldati non c’era nessun beduino autentico conoscitore del deserto e dei suoi abitanti.

«L’acqua è di tutti», rispose, «ma accetto con piacere il tuo invito. Dove lo hai cacciato?»

Gacel sorrise dentro di sé per il rozzo trabocchetto.

«Al Nord», rispose.

Aveva ormai riunito tutta la legna di cui necessitava e sedutosi sulla coperta della sua cavalcatura, estrasse la pietra focaia e lo stoppino, ma Malik gli offrì la sua scatola di fiammiferi.

«Usa questa», disse. «È più comodo. Tienila. Ne abbiamo molte in fureria.»

Si era seduto di fronte a lui e lo osservava mentre infilzava le zampe dell’antilope nella baionetta del suo vecchio fucile preparandosi ad arrostirle lentamente a fuoco basso.

«Cerchi lavoro al Sud?»

«Cerco una carovana.»

«Non è periodo di carovane, le ultime sono passate da un mese.»

«La mia mi aspetta», fu l’enigmatica risposta e, poiché avvertì che il sergente lo guardava fisso senza comprendere, aggiunse con lo stesso tono: «Sono più di cinquant’anni che mi aspetta».

L’altro sembrò capire e lo guardò a lungo:

«La Grande Carovana!» esclamò alla fine. «Vai in cerca della Grande Carovana della leggenda? Sei pazzo!»

«Non è una leggenda. Mio zio c’era. E io non sono pazzo. Mio cugino Suleimàn, che vive caricando mattoni per una paga miserabile, sì, che è pazzo.»

«Nessuno di coloro che sono andati in cerca della carovana è tornato vivo.»

Gacel indicò con un gesto della testa le tombe che si intravedevano tra le rade palme, in fondo all’oasi.

«Non saranno più morti di quelli. E se l’avessero trovata sarebbero ricchi per sempre.»

«Ma la terra vuota non perdona. Non c’è acqua, né vegetazione che serva da cibo per il tuo cammello, ombra che ti copra, o alcun punto di riferimento per orientarsi. È un inferno!»

«Lo so», ammise il targuf. «Sono stato lì due volte.»

«Sei stato nelle terre vuote?» ripetè incredulo.

«Due volte.»

Il sergente Malik non ebbe bisogno di vederlo in faccia per sapere che diceva la verità e un nuovo interesse nacque in lui. Aveva trascorso abbastanza anni nel Sahara per dare il giusto valore a un uomo che era stato nelle terre vuote e ne era tornato. Potevano contarsi sulle dita di una mano da Marruecos all’Egitto, e neanche Mubarrak-ben-Sad, guida ufficiale dell’avamposto militare che passava per uno dei migliori conoscitori delle sabbie e delle pietraie, ammetteva di averci tentato. «Ma conosco uno», gli aveva confessato una

volta durante una lunga spedizione alla scoperta del massiccio di Huaila, «conosco un inmouchar del Kel Talgimus che è andato e tornato.»

«Che cosa si avverte lì dentro?»

Gacel lo guardò a lungo e alzò le spalle.

«Nulla. Devi lasciare fuori ogni sentimento. Devi lasciare fuori perfino le idee e vivere come una pietra, attento a non fare nessun movimento che consumi acqua. Anche la notte devi muoverti piano come un camaleonte, solo così riesci a diventare insensibile al caldo e alla sete e, soprattutto, se riesci a vincere il panico e a conservare la calma, solo così hai una remota possibilità di sopravvivenza.»

«Perché lo hai fatto? Cercavi la Grande Carovana?»

«No. Cercavo, in me, i resti dei miei antenati. Loro vinsero le terre vuote.»

L’altro negò convinto.

«Nessuno vince le terre vuote», rispose sicuro di quello che diceva. «La prova è che tutti i tuoi antenati sono morti e che le terre continuano a essere inspiegabili come quando Allah le creò.» Fece una pausa, agitò la testa e chiese come domandando a se stesso: «Perché lo avrà fatto? Perché Allah, capace di creare cose portentose, creò anche questo deserto?»

La risposta di Gacel non era presuntuosa, anche se all’apparenza poteva sembrarlo: «Per poter creare gli imohag».

Malik sorrise divertito.

«Veramente», ammise. «Veramente.» Indicò la gamba dell’antilope. «Non mi piace la carne molto cotta», aggiunse. «Così va bene.»

Gacel sollevò la baionetta, estrasse i due pezzi di carne, gliene offrì uno e con l’aiuto della sua affìlatis q sciabola cominciò a tagliare grosse fette dall’al

«Se qualche volta sarai in difficoltà», disse, «non

cucinare la carne. Mangiala cruda. Mangia qualunque animale che incontri e bevi il suo sangue. Ma non ti muovere. Soprattutto non ti muovere.»

«Ne terrò conto», assentì il sergente. «Ne terrò conto, ma prego Allah di non farmi mai trovare in simili condizioni.»

Conclusero la cena in silenzio, bevvero acqua fresca del pozzo e Malik si mise in piedi e si stirò soddisfatto.

«Devo andare», disse. «Devo fare rapporto al capitano e vedere che tutto sia in ordine. Quanto tempo ti fermerai?»

Gacel alzò le spalle facendo segno che non lo sapeva.

«Capisco. Rimani quanto vuoi, ma non ti avvicinare alle baracche. Le sentinelle hanno l’ordine di sparare a vista.»

«Perché?»

Il sergente Malik-el-Haideri sorrise in modo enig-matico e con un gesto della testa indicò la più appartata delle casette di legno.

«Il capitano non ha molti amici», puntualizzò. «Né lui né io li abbiamo, ma io so badare a me stesso»

Si allontanò quando ormai le ombre cominciavano a scivolare nell’oasi fermandosi ai bordi delle palme, e le voci risuonavano con maggior nitidezza, mentre i soldati ritornavano con le pale in spalla, stanchi e sudati, sospirando il rancio e il pagliericcio che li avrebbe condotti per alcune ore nel mondo dei sogni, lontano dall’inferno di Adoras.

Ci fu un crepuscolo brevissimo, il cielo passò, quasi

senza transizione, dal rosso al nero e subito brillarono le luci nelle capanne.

Solamente l’abitazione del capitano aveva gli scuri che impedivano di vedere ciò che accadeva dentro e, prima che calasse completamente la notte, una sentinella montò di guardia, rigida e con l’arma pronta, a meno di venti metri dalla porta.

Mezz’ora dopo quella porta si aprì e vi si stagliò una figura alta e robusta. Gacel non ebbe bisogno di distinguere le stellette della sua uniforme per riconoscere l’uomo che aveva ucciso il suo ospite. Lo vide rimanere fermo per alcuni momenti, respirando a pieni polmoni l’aria della notte, e accendersi una sigaretta. La luce del fiammifero gli portò alla memoria ogni suo movimento e l’espressione dura e sprezzante dei suoi occhi mentre assicurava che lui era la legge. Si sentì tentato di caricare la sua arma e di ucciderlo con un solo colpo. A una distanza così breve, chiaramente visibile in controluce, si sentiva capace di mettergli una pallottola in testa spegnendo contemporaneamente la sigaretta nella bocca, ma non lo fece. Si limitò a osservarlo a meno di cento metri di distanza, compiacendosi nell’immaginare che cosa avrebbe pensato quell’uomo nel vedere che il targuf che aveva offeso e disprezzato era seduto lì, davanti a lui, appoggiato a una palma e vicino alla brace di un focolare, a meditare se ucciderlo in quel momento o se lasciarlo per dopo.

Per tutti quegli uomini della città trapiantati nel deserto, che non avevano imparato ad amare e che in realtà odiavano, desiderando scappare a qualunque prezzo, loro, i tuareg, non costituivano altro che una parte del paesaggio; tanto erano incapaci di distinguerli l’uno dall’altro.

Non avevano nozione né del tempo, né dello spazio, né degli odori e dei colori del deserto, e nello stesso

do non capivano ciò che distingueva un guerriero del p1 polo del Velo da un imohag del Popolo della Spada, n inrnouchar da un servo, o un’autentica donna tarf libera e forte, da una povera beduina schiava di un harem.

Si sarebbe potuto avvicinare a lui, parlargli per mezz’ora della notte e delle stelle, dei venti e delle gazzelle e lui non avrebbe riconosciuto in «quello straccione puzzolente» colui che aveva cercato di affrontarlo cinque giorni prima. Per anni i francesi avevano cercato invano di fare scoprire il volto ai tuareg.

Infine, convinti che non avrebbero mai abbandonato il velo, dovettero arrivare alla conclusione che non sarebbero mai stati in grado di distinguerli dalla voce o dai gesti e abbandonarono completamente la speranza di differenziarli.

Né Malik, né l’ufficiale, né tutti quei soldati che spalavano sabbia erano francesi, ma erano simili per la loro ignoranza e il loro disprezzo per il deserto e i suoi abitanti.

Quando il capitano finì la sigaretta gettò il mozzicone sulla sabbia, salutò svogliatamente la sentinella e chiuse la porta, da dove si sentì il rumoroso scorrere del pesante catenaccio. Le luci si andavano spegnendo una dopo l’altra e l’accampamento e l’oasi rimasero in silenzio; un silenzio rotto soltanto dal sussurro dei pennacchi delle palme agitati da una leggera brezza e dal lontano grido di uno sciacallo affamato.

Gacel si avvolse nel suo mantello, appoggiò la testa sulla sella, lanciò un’ultima occhiata alle baracche e alla fila dei veicoli e si addormentò.

L’alba lo sorprese mentre, in cima alla palma più carica, gettava a terra pesanti rami di datteri maturi. Ne riempì un sacco; riempì anche di acqua le sue ger bas sellò il mehari che protestò rumorosamente, desiderando rimanere ancora all’ombra vicino al pozzo.

I soldati avevano cominciato a fare la loro apparizione orinando contro le dune e lavandosi il viso nell’abbeveratoio del pozzo più grande; anche il sergente Malik-el-Haideri abbandonò il suo alloggio e si avvicinò con passo rapido e sicuro.

«Te ne vai?» domandò, anche se la domanda era chiaramente inutile. «Credevo che saresti rimasto a riposarti per un paio di giorni.»

«Non sono stanco.»

«Lo vedo. E mi dispiace. Fa piacere a volte parlare con uno straniero. Questa feccia non pensa altro che a rubare o alle donne.»

Gacel non rispose, occupato ad assicurare bene i sacchi in modo che i sobbalzi del cammello non li facessero cadere dopo appena cinquecento metri, e Malik lo aiutò dall’altra parte del cammello, continuando a fargli domande.

«Se il capitano mi desse il permesso, mi porteresti con te alla ricerca della Grande Carovana?»

II targuf negò con un gesto. «La terra vuota non è luogo per te. Solamente noi imohag possiamo penetrarvi.»

«Io porterei tre cammelli. Potremo avere più acqua e più provviste. In quella carovana c’è denaro che avanza per tutti. Ne darei una parte al capitano, con l’altra comprerei il mio trasferimento e me ne rimarrebbe ancora per il resto della vita. Portami con te!»

«No.»

Il sergente maggiore Malik non insistè, ma scorse lentamente con la vista le palme, le baracche e le dune di sabbia che chiudevano tutto dai quattro lati, trasformando il posto militare in una prigione in cui le sbarre erano state sostituite da alte dune che minacciavano di sotterrarli una volta per sempre.

<Ancora undici anni qui!» mormorò quasi tra sé. (<riesco a sopravvivere sarò vecchio, mi hanno nernfmo il diritto al congedo e alla pensione. Dove gat0 p9 >> Si rivolse di nuovo al targui: «Ma non è 311 Ho morire degnamente nel deserto, con la speranza un colpo di fortuna possa cambiar tutto?»

C6«Forse.»

«È quello che provi a fare tu, non è vero? Preferisci rischiare che vivere male trasportando mattoni.»

«Io sono targui. Tu no.»

«Oh, va’ all’inferno, con il tuo maledetto orgoglio Hi razza!» protestò di malumore. «Ti credi migliore perché ti hanno abituato da bambino a sopportare il caldo e la sete? Io ho dovuto sopportare questi figli di puttana e non so che cosa è peggio. Vattene! Quando vorrò andare in cerca della Grande Carovana lo farò da solo. Non ho bisogno di te.»

Gacel sorrise leggermente sotto il velo senza che l’altro potesse vederlo, obbligò il suo cammello a mettersi in piedi e si allontanò piano, conducendolo per la cavezza.

Il sergente Malik-el-Haideri lo seguì con lo sguardo fino a che scomparve tra il dedalo di corridoi che lasciavano tra di loro le dune, a sud della pista dei veicoli, e fece ritorno poi, pensoso, verso la baracca più grande.

Tuareg

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