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CAPITOLO UNO – Il baratro –

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A svegliarmi non era stata la fine del sonno, ma i raggi solari che entravano da qualche dannato spiraglio, e avevano cominciato a bruciarmi le palpebre. Se c’era una cosa che non sopportavo, era essere svegliato in quel modo, d’altronde cosa potevo aspettarmi visto che non avevo più un tetto dove rincasare e un letto dove sprofondare. Gli occhi si aprirono formando due piccoli spicchi di luna. Non riuscivo a vedere quasi nulla, avevo il sole in faccia che mi bruciava e l’ambiente intorno a me, era offuscato da una strana nebbiolina. Posai la mano a terra cercando di rialzarmi, ma appena provai a usarla come perno mi ritrovai con la faccia spiaccicata al suolo. Cominciai a ridere come un deficiente. Ero al tappeto e non riuscivo a rialzarmi, mi girai leggermente e rimasi steso ancora un po’ sperando di riprendermi con il passare dei minuti. Dentro la testa sembrava avessi la cavalleria del Re dei Re lanciata alla carica, che con il suo ardore e orgoglio era intenta a contrastare il più possente degli eserciti.

Che caldo faceva. Sudavo e non ne capivo il motivo, e dire che la temperatura non era così alta. Non riuscivo a vedere granché, ma controllai ciò che indossavo. Una camicia a quadrettoni rossi neri e bianchi completamente aperta, con una t-shirt, un tempo bianca, leggermente alzata da far si che la pancetta prendesse un po’ d’aria, mentre dall’ombelico in giù avevo calzati un paio di jeans Diesel e un paio di Nike dei tempi migliori, oramai arrivati anche loro alla frutta.

Dopo non pochi sforzi mi ritrovai gattoni, a guardare senza motivo il pavimento. Ma che diavolo stavo facendo? Ricominciai a ridere. La risata venne subito interrotta da dei colpi di tosse, e la tosse venne interrotta da degli sforzi provenienti dal basso addome, e come se fosse cosa di tutti i giorni, mi ritrovai a vomitare come un cretino. Per quel poco che potevo vedere era solamente acqua, ricca di succhi gastrici, e a quanto sembrava, l’ultimo pasto non era stato così abbondante, visto che in mezzo a quella gelatina non c’era nulla di solido e che apparentemente assomigliasse a qualcosa di commestibile. Finita quella patetica commedia, mi spinsi leggermente verso destra, con le poche energie che ero riuscito a racimolare, finendo nuovamente sul materasso poggiato a terra. Cercavo di pensare, ma tutto ciò che mi veniva in mente era quell’assodante frastuono che mi rimbombava nella capoccia.

Da sdraiato aprii gli occhi fissando il soffitto, e il primo pensiero che mi si era materializzato nella testa fu: ma come cazzo ho fatto a ridurmi in questo stato? Porca miseria sono Enrico Del Nero, devo reagire, non posso ridurmi in queste condizioni tutti i santi giorni, devo trovare una soluzione per uscire da questo baratro in cui sto sprofondando giorno dopo giorno. Forte di queste convinzioni, e senza non pochi sforzi, riuscii a sedermi e successivamente ad alzarmi in piedi. Cominciai a guardarmi un po’ intorno per capire dove mi trovavo, ma oltre a barcollare un po’ a destra e a sinistra, non riuscivo a dare una collocazione al posto nel quale avevo passato la notte. Decine di colonne bianche si alzavano andando a sostenere quell’ampio spazio che si manifestava di fronte ai miei occhi. Cercando di mantenere l’equilibrio, girandomi lentamente su me stesso, mi accorsi che proprio nel punto ove erano rivolte le mie spalle sino a qualche secondo prima, c’era la spiegazione alla mia prematura sveglia. Un’ampia vetrata svettava dietro di me, lasciando trapassare miliardi di raggi solari che perforavano quel dannato minerale del quale era composta, rovinando la giornata a un poveraccio che desiderava solamente riposare in pace cullato dal suo mal di testa e dalla sbornia non ancora smaltita. Visto che oramai mi trovavo in piedi e molti metodi per coprire quella dannata finestra non c’erano, se non spegnere il sole, mi avvicinai al vetro per capire almeno se riuscivo a comprendere dove mi trovavo. Ai miei primi passi risposero delle monete che caddero a terra, procurando un fastidioso rumore metallico che tanto odiavo, anche perché: che diavolo me ne facevo di pochi spiccioli? Arrivato nei pressi di una colonna, mi appoggiai per avere un po’ di sostegno, considerato che la testa continuava a girarmi alla velocità di una trottola. Con l’avambraccio posato al supporto e la fronte spiaccicataci sopra, cercavo di rimanere in piedi. La situazione era alquanto difficile. Per un attimo avevo chiuso gli occhi, quando lì riaprii per non scivolare a terra, mi trovai a tu per tu con il musetto di un topo, il quale sbucava da un foro presente sulla colonna. A risposta del suo simpatico squittio, gli vomitai addosso. Non avevo avuto nemmeno il tempo di pensare o focalizzare che cosa stava accadendo, che quello stimolo mi venne naturale, imbrattando lui e la sua povera tana. Non curante di quella sporca creatura, proseguii il mio duro cammino sino alla destinazione prefissata, sebbene con non poche difficoltà. Arrivato al balcone della finestra, mi c’ero appoggiato di peso, quasi avessi fatto una maratona e quello era l’arrivo; avevo sete, una dannata sete. Forse non avevo bevuto abbastanza la sera precedente, pensai. Accennai nuovamente un sorriso, che venne subito placato da un’altra colata di vomito. Una fitta mi prese alla pancia e come un ventaglio mi piegai in due dal dolore, quasi fossi un adolescente alla sua prima sbornia; ma che diavolo avevo mai bevuto per ridurmi in quelle condizioni? Non me lo ricordavo proprio, anche se oramai sarebbe stato alquanto superfluo scoprirlo. Grazie a Dio le fitte erano terminate, cercai quindi di riprendere il controllo del mio corpo, sebbene ero consapevole che fosse impossibile. Mi riaffacciai comunque alla finestra e cercando di guardare fuori, involontariamente andai a sbattere con il viso contro la lastra di vetro. Quest’ultima aveva una patina d’unto mista polvere; una schifezza che mi si era spiaccicata addosso. Cercai di esercitare una leggera forza sulla maniglia, ma di primo acchito, oltre a vederla leggermente arrugginita, compresi che con le energie che possedevo in quel momento non sarei mai riuscito ad aprirla. Mi guardai un po’ intorno cercando di capire dove mi trovavo; inizialmente quel luogo ampio e vuoto, sembrava l’interno di una fabbrica abbandonata, non mi era molto famigliare, e le decine di colonne portanti, non m’aiutavano a capire di che posto si trattasse, sebbene fossero ricoperte quasi completamente da dei graffiti grossolani, come del resto, lo erano anche parti delle pareti perimetrali. Il suo inutilizzo per mia fortuna, era palese, sebbene la ditta che aveva abbandonato quella struttura aveva accantonato diversi macchinari, in attesa di una nuova apertura, ipotizzai. Idea alquanto remota considerata la presenza di numerose bottiglie di vetro rotte, immondizia, un paio di materassi e pezzi di cartoni sistemati qua e là, con delle coperte lacerate posate sopra. Coinquilini pensai, sebbene la presenza di tutta quell’immondizia avrebbe facilitato l’arrivo dei parenti di quel roditore. Non ne comprendevo il motivo ma mi stava simpatico, tanto da battezzarlo topo Gigio vomitino. Una riflessione mi sfiorò la mente, per poi scivolare subito via: tutta quella situazione che stavo vivendo, la perdita del lavoro, il ritrovarmi a dormire in un edificio abbandonato, non era di certo il massimo della vita, però ero libero, senza alcun pensiero o preoccupazione, e nessun orario da rispettare o impegno al quale mi sarei dovuto presentare, libertà allo stato puro.

Il dolore alla testa continuava ad aumentare e il momento d’affrontare il mondo esterno, per oggi, dal mio punto di vista, non era ancora arrivato. Barcollando ritornai al punto di partenza crollando a terra, non prima però d’aver racimolato un foglio di giornale da posare sopra il viso, riprendendo così a dormire, con la speranza che al risveglio le mie condizioni sarebbero state migliori.

Non so per quanto tempo assecondai i miei sensi, anche se ipotizzavo per diverse ore, visto che scostando il foglio di giornale, la luce del giorno non filtrava più dalle finestre. Aprii gli occhi e a stento riuscii a vedere l’ambiente che mi circondava. Questa volta non era a causa della vista appannata, bensì del buio dal quale ero stato invaso nel sonno. Ad aiutarmi c’erano i fari delle autovetture che transitavano per le strade adiacenti al fabbricato, le quali con il loro riflesso, mi permettevano, sebbene a intermittenza, di conoscere il terreno sul quale avrei posato i piedi.

Decisi quindi di rialzarmi e uscire da lì. Ora che guardavo intorno però un interrogativo mi giungeva naturale, ma dov’era l’uscita? Rimasi immobile a osservare, ma non riuscivo a individuarla. Il mal di testa andava lentamente scemando. La mente si era messa in moto ma il mondo leggermente sbiadito che mi circondava non m’aiutava per niente. Era come se stessi guardando un film degli anni settanta alla tv, e in tutto questo, nessun elemento riusciva a farmi individuare ciò che cercavo. M’avvicinai a quella che sembrava una porta, ma non appena provai ad azionarne la maniglia e a tirare verso di me, m’accorsi che era bloccata con una spessa catena aggrovigliata alle maniglie antipanico, ed un lucchetto a bloccarla. Provai con un’altra porta, ma la storia era sempre uguale. Mi ritrovai così a girovagare per la fabbrica in cerca di un’uscita. Passai vicino a quello che un tempo doveva essere stato un ufficio, o qualcosa predisposto per esserlo. Sembrava la classica stanza ricava all’interno di quell’immensa struttura per avere un po’ di tranquillità e conservare le scartoffie dell’azienda, senza ritrovarsele sparse per tutta la ditta. Passando accanto alla porta, i cui infissi erano stati divelti, mi accorsi che una tenue luce arancione illuminava il suo interno. Non si vedeva gran che, ma tanto bastava ai miei occhi per scovare un’apertura, magari la stessa dalla quale ero entrato. Una volta all’interno, cominciai a guardarmi un po’ intorno per scovare la fonte del chiarore. Le pareti laterali erano completamente intatte, prive di qualsiasi finestra. Trovandomi senza alternativa, alzai la testa, constatando che sul soffitto c’era un foro. Era stato fatto grossolanamente con un martello, considerati i margini tutt’altro che simmetrici e levigati. Da quel foro, che prendeva forma vicino alla parete laterale, vi era una scala di ferro, la quale permetteva l’accesso al piano superiore. Visto che i miei impegni per le prossime ore non erano così alettanti all’interno di quello stabile, illuminando il display del mio Casio nero anni ’90, comperato da un cinese a poco meno di dieci euro, controllai l’ora, 22.30, dopo di che mi avventurai su per quella scala, accedendo così al soffitto della stanza. Una volta raggiunto il tetto, mi trovai di fronte ad una finestra aperta, o meglio, i vetri erano stati rimossi dall’intelaiatura dell’infisso, e si poteva utilizzare questo difetto come accesso, visto che dava direttamente alla scala antincendio.

Senza guardarmi molto intorno e senza pensarci più del dovuto, mi ritrovai in strada. E ora? Pensai. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più una meta, uno scopo, non sono più nessuno. Tutto quello che ero, non lo sono più. Tutta la mia vita sino ad ora era come se non l’avessi vissuta, come se fosse stata spazzata via da un uragano, senza preavviso e ringraziamento, ero solo, quasi fossi stato partorito da ventiquattro ore e buttato in mezzo alla strada senza nessuna guida o persona che si prendeva cura di me. Alcune macchine mi sfrecciavano accanto incuranti della mia presenza, presi dalla loro vita così all’apparenza perfetta e priva di pensieri, o almeno degni di essere chiamati tali. Ora che stavo meglio, mi era tornata la voglia di bere, di ridurmi uno straccio per far passare un’altra notte e un altro giorno. Lo avevo fatto per un mese e avevo voglia di rifarlo sino allo sfinimento, per ritrovarmi ogni mattina in quella dannata fabbrica e chiedermi come cazzo ero arrivato lì e cosa diavolo mi era accaduto. Alzai lo sguardo e un negozio di pakistani era lì a un centinaio di metri con le sue luci accese e i suoi alcolici. Cominciai a incamminarmi pregustando il bruciore dell’alcool nella bocca e nello stomaco. Infilai le mani nelle tasche per controllare quanti soldi avessi, ma ciò che trovai fu solo un fazzoletto di carta usato: nemmeno al tempo del baratto ci avrei ricavato qualche cosa. Come diavolo avrei fatto ora? Con cosa l’avrei pagato il rum? Non c’erano molte macchine parcheggiate per strada, sempre meglio che nessuna, pensai. Le controllai una a una, per verificare se qualcuna avesse la porta aperta o il finestrino abbassato di qualche centimetro, ma non ebbi molta fortuna, infatti mi ritrovai di fronte alla vetrina del negozio con pochi spiccioli in mano. Che cosa avrei fatto ora? E se fossi entrato e dopo aver preso quello che m’interessava me ne fossi andato a gambe levate senza pagare? Forse quel pakistano non mi avrebbe riconosciuto, anche se qualche volta ero stato suo cliente, ma non certo conciato così. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe limitato a inseguirmi per qualche decina di metri prima di desistere, comprendendo che una persona trasandata, come lo ero io, non sarebbe mai riuscita a pagare ciò che aveva sottratto dal suo negozio. Arrivai sulla soglia dell’ingresso, intravedendo dalle vetrine che all’interno non c’era nessuno, fatta eccezione di Hamed, il proprietario. Attesi qualche secondo sulla soglia, cercando di non essere visto, anche perché quel figlio d’Allah non ci avrebbe impiegato molto a riconoscermi, gli sarebbe solamente bastato guardarmi negli occhi. Era più scaltro di una lince e anche se ero conciato male, trasandato e puzzolente, non mi avrebbe confuso con nessun altro.

La mia attesa fu ricompensata. Quattro ragazzi arrivarono in macchina, fermandosi nei pressi dell’alimentari. La vettura non era proprio nuovissima, anche perché dall’età e da com’erano vestiti, potevo ipotizzare fossero degli studenti universitari, e con molta probabilità quella sera non avevano molta voglia di stare sui libri, bensì di fare festa, magari bevendo un po’, rifornendosi da Hamed anziché andare in qualche locale pre-serata spendendo un patrimonio. Sembrava di rivedermi dieci, dodici anni più giovane, quanti anni erano passi, quante cose erano accadute, quanti guai scampati, ma che ricordi incredibili. Chiunque avesse guardato quei ragazzi, avrebbe captato la loro euforia, la loro voglia di vivere e divertirsi, e avrebbe compreso che il loro unico pensiero era ingerire un po’ d’alcool per lasciarsi andare, con la speranza magari di trovare una bella ragazza per trascorrere la serata. Mi trasmettevano quella sicurezza mista fragilità, che solo una persona della loro età poteva avere. Parcheggiarono la macchina proprio di fronte all’entrata. In tre scesero dall’auto e dopo aver oltrepassato il marciapiede salirono i tre scalini che li condussero al negozio. Io rimasi lì a osservarli. Mi passarono accanto senza degnarmi di uno sguardo, anche perché non so la loro vista quanto nitida potesse essere stata. La loro camminata era tutt’altro che normale, oscillavano a destra e sinistra come dei pendoli. Sicuramente erano giunti sino a lì perché avevano finito la scorta di birra a casa e ora volevano continuare da dove si erano interrotti. La persona che apriva la fila andò a inciampare sul primo scalino e se l’amico che lo seguiva non l’avesse afferrato al volo, mi sarebbe rovinato addosso. Con tutta sincerità, come aveva fatto ad avere quella prontezza di riflessi quel ragazzo ancora me lo sto chiedendo, buon per me comunque. Non credo che avessero molto da prendere in quel mini market, ma di certo fecero una gran caciara, perdendo del tempo su ogni minima stupidaggine. Urlavano e chiamavano l’amico che era rimasto in macchina, incitandolo a raggiungerli. Inizialmente questo attese, alzando e ascoltando un po’ di musica pop orecchiabile e coinvolgente trasmessa alla radio, ma vedendo che gli amici tardavano a tornare, decise di scendere per dar loro una strigliata, e convincerli ad accelerare i tempi. Lasciò la macchina accesa con la musica ad alto volume, e con il cantante che intonava “Dangerous…Dangerous…Bad Girl…”

“Ma che cazzo state facendo, volete muovervi, altrimenti non entriamo più in disco, e poi tutta sta roba quando la beviamo?”

“Che rottura di coglioni che sei…ma preferisci Havana o Pampero?”

“Ma piglia quello che vuoi, lo sai che bevo tutto, sei te la fighetta della situazione.”

“Eh, eh, che dici, vodka o birra?”

“T’ho detto di prendere quello che vuoi, per me è uguale. Ma voi che cazzo avete in mano? Siete proprio degli idioti.”

“…eh eh…lo sai che quando si tratta di bere siamo i numeri uno…ohhhhh…ma quello dove cazzo sta andando quello con la tua auto???”

“FERMATELO…ohhhhhhh…OHHHHH…DOVE CAZZO VAI CON LA MIA MACCHINAaaaaaaa???????”

Queste furono le ultime parole che sentii pronunciare dai quei giovani mentre lì guardavo sbracciarsi e diventare sempre più piccoli dallo specchietto retrovisore del loro mezzo di locomozione, anche perché la musica era così bella che mi sembrava maleducato abbassarla.

Appena quello sbarbatello era sceso, lo seguii all’interno del negozio come un’ombra, e una volta raggiunto lo scaffale degli alcolici, sapendone già la collazione, afferrai una bottiglia di rum qualsiasi e me ne sgattaiolai fuori come un furetto, che nemmeno Hamed se ne accorse. Era troppo indaffarato a tenere a bada quei mocciosi per accorgersi di me. Sta di fatto che ora avevo una macchina e una bottiglia di rum. Che serata meravigliosa. Potevo andarmene sui colli a godermela in santa pace. Bologna era mia. Un delinquente saggio avrebbe moderato la velocità per non farsi notare dagli “sbirri” nei paraggi, ma la cosa era più forte di me, era un richiamo corrisposto sin da bambino e tenere a tavoletta quel maledetto acceleratore era meglio che scolarsi una bottiglia d’alcool. Correre era come staccare il cervello, nessuna preoccupazione, o pensiero, solo io e la strada, e gli imbranati che la popolavano. E poi ero convinto che anche loro si divertissero un bel po’ quando gli capitava di inseguire qualcuno, o imbattersi in qualche intervento delicato nel quale il minor tempo impiegato per arrivare sul posto sarebbe stato fondamentale, per non dire vitale, almeno era quello che pensavo ora e che avevo sempre pensato; ovviamente stavo parlando degli sbirri.

Scostai per un istante l’attenzione sul compagno che avevo raccattato per la serata, niente male direi, una bella bottiglia di “Havana 7”. Mi sa che Hamed se ne sarebbe accorto, quello spilorcio. Ripensai a tutte le volte che avevo acquistato qualcosa da lui, frutta, pasta, detersivo, carta igienica, e ogni volta pretendeva sino all’ultimo centesimo, e poi di tanto in tanto cercava di arrotondare in eccesso la cifra, come se i prezzi da lui fossero così economici. Passavo da lui finito il lavoro e visto che mi capitava spesso di finire dopo le nove di sera, lui era l’unico in cui potevo trovare qualcosa di commestibile, e poi era sulla strada di casa. Non ci potevo credere, m’era andata meglio di quanto mai avessi sperato, a dire il vero mi sarei accontentato anche del rum più bevuto nei peggior bar di Caracas, ma quella sera sarei rimasto sedotto dal fascino cubano. Comunque non riuscivo ad aspettare, l’emozione di tornare al volante dopo parecchi giorni, era scomparsa non appena vidi la marca del rum che avevo rubato. Baciai sulla bocca la mia compagna di viaggio, continuando nella guida. Istintivamente avevo imboccato via Stalingrado e da lì a pochi metri sarei sbucato sui viali. Ogni metro che facevo in quella dannata città equivaleva a uno stimolo per le cellule della memoria. Alzai la radio al massimo sino a far gracchiare le casse, dopo di che mi concentrai sulla strada.

“Vediamo se riesco a far divertire questa signorotta!” Avevo gridato.

Scalai marcia, sino a farla sgommare, e una volta arrivato all’incrocio, la misi di traverso, facendo fischiare tutte e quattro le gomme.

“Ora comincio a divertirmi, e all’orizzonte nemmeno l’ombra di uno sbirro, che bello. Wow!” Urlai come un ragazzino, quasi ad incitarmi.

Questa dannata bestiolina cominciava a darmi delle soddisfazioni, e il turbo a disposizione era una carta veramente interessante da sfruttare. Arrivai sino a porta Saragozza in un batter di ciglia, senza aver qualche amico alle calcagna che mi facesse compagnia in quella divertente corsa. Anche se a esser sincero, per come si era sviluppata la serata, mi sentivo alquanto fortunato. Girai a destra, imboccando via Saragozza, sino a raggiungere i giardini di villa Spada. Lasciai la macchina a qualche centinaio di metri dal punto d’entrata del parco e guidato dalla luna, consumai i passi sino a quello che sarebbe stato il mio letto per quella notte, il manto erboso. Il cielo era limpido, nessuna nuvola che avrebbe disturbato lo spettacolo che il cielo di Bologna proiettava solamente per me. Era tutto così meraviglioso e luccicante che non sapevo dove guardare. Il cielo era un incanto. Lo spicchio di luna non offuscava la luce delle piccole stelle che puntellavano quel vellutato tappeto blu. Abbassai lo sguardo di qualche centimetro, la città con le sue luci, i suoi palazzi, si estendeva di fronte a me, con il suo fascino irresistibile. Era come se avesse indossato il suo abito da sera migliore per far breccia nel mio cuore; e ci stava riuscendo perfettamente, facendomi rimanere a bocca aperta. C’era riuscita sin dal primo momento in cui l’avevo conosciuta.

Lo ricordavo come fossero passate solamente poche ore. Ad accogliere il mio arrivo a Bologna c’era stata una caserma dissestata e definirla poco accogliente, significava esagerare. Le camere erano affollate e fatiscenti, per non parlare dei bagni, sporchi e metà dei quali non funzionanti. Credo che l’unica cosa che la facesse differenziare da un carcere fosse la libertà. Mi sentii da subito abbandonato e avvilito. Come poteva una persona, non dico un agente di polizia, ma una persona vivere in quelle condizioni? Chiamai una mia amica e a stento trattenni la delusione e l’amarezza che m’animava. Le dissi che avevo voglia di lasciare la polizia e che tutto quello che mi stava intorno mi faceva schifo. C’erano persone che sembravano felici di vivere in quelle condizioni. Ma com’era possibile? Forse non ero adatto per fare lo sbirro. Terminata la conversazione con lei, buttai la borsa nell’armadio e scappai fuori. Dovevo respirare, dovevo vedere che quello non era ciò che mi aspettava, come minimo, per i prossimi quattro anni. Presi la macchina e dopo aver girovagato per diverse ore, mi trovai dov’ero ora; ad osservare quel groviglio di strade delimitate dalle centinaia di lampioni dell’illuminazione pubblica, animate dal serpeggiare delle automobili con i loro bagliori gialli e rossi. Era così bella guardarla da lassù e allo stesso tempo, strana. Mi trasmetteva una sensazione indescrivibile, come se non facessi parte di tutto quel mondo. Mi sentivo un estraneo e di quel mondo non ne condividevo nulla, ma non riuscivo a fare a meno.

Non riuscivo a pensare a nulla, o forse pensavo troppo. Poggiai il fondoschiena a terra e lasciai che quel meraviglioso paesaggio lentamente divenisse sempre più sfocato e che l’alcool m’accompagnasse tra le braccia di Morfeo sino all’indomani. Il rum m’aiutava a sentirmi ancora più male, ogni sorso che facevo m’offuscava sempre più la vista, strappando dalla margherita della felicità, uno ad uno, i suoi petali. Mi sentivo un verme, inutile e insensato. Se avessi avuto una pistola magari mi sarei anche sparato, o almeno ci avrei pensato seriamente, ma per mia fortuna, l’unica cosa che avevo tra le mani era una bottiglia di buonissimo rum.

“Che diavolo farò domani? Come cazzo andrò avanti? Beh, domani è un altro giorno e per gli altri si vedrà.” Questo mi ripetevo tra me e me, attendendo una risposta che ovviamente non c’era.

Ogni pensiero era seguito da un sorso, e questa era l’unica soluzione che riuscivo a darmi. Il sonno m’assalì, o forse era il corpo che diceva basta al contenuto del vetro, fatto sta che i sensi m’abbandonarono, lasciandomi dondolare nelle onde dell’ignoto sino al giorno seguente.

A farmi ritornare tra la gente comune o alla vita reale, come si poteva meglio dire e come accadeva ogni dannato giorno nell’ultimo mese, erano i raggi del sole, i quali cominciarono a pizzicarmi le palpebre e a non farmi più riposare. Aprii gli occhi, se così si poteva definire quel misero gesto di mettere a fuoco il paesaggio circostante e strisciare sino alla prima zona d’ombra, dove speravo di continuare per qualche altra oretta il sonnellino appena interrotto; anche perché l’orologio mi diceva che erano solamente le sei della magnana e arrivare a mezzodì sarebbe stata maledettamente lunga. L’unico posticino utile era sotto la chioma di alcuni alberi, lì di certo non avrei avuto problemi, almeno ci speravo. Presi per il collo la mia amica, e sino a che non mi fece chiudere nuovamente gli occhi, continuai a parlargli. Quel liquido era l’unico mio conforto, l’unica cosa che riusciva a non farmi ragionare e conseguentemente, sebbene lentamente mi stesse uccidendo, mi faceva rimanere in vita: per me era l’acqua dell’eterna giovinezza. Ogni volta che desideravo far cessare il battito del mio cuore, c’era lei che mi fermava, che mi ascoltava, che mi rincuorava, che mi toglieva le energie.

Non so che ore erano, quando la mia attenzione fu catturata da un vociare lontano che si faceva sempre più forte. Ero appoggiato con la schiena all’albero e sebbene inconsciamente avvertivo la possibilità che quelle persone ce l’avessero con me in qualche modo, non riuscivo, anzi, non avevo voglia di aprire gli occhi e interessarmi alla cosa. Rimasi a gongolarmi, accarezzato dalla leggera brezza cresciuta da qualche minuto che andava a graffiarmi la pelle, dall’afa che cominciava ad aleggiare nell’aria. Mi ero quasi riaddormentato quando un violento calcio mi colpì al volto. Non ebbi nemmeno il tempo d’aprire gli occhi che venni raggiunto nuovamente da un colpo all’addome. Trascorsero solo pochi secondi e un altro calcio mi raggiunse alla bocca dello stomaco lasciandomi senza fiato, procurandomi istantaneamente delle forti colate di vomito. Cercai di mettermi in sesto e di reagire, ma non ce la facevo, ero lì, carponi, a sputare a terra. Ebbi il tempo solo di alzare la testa e scorgere tre ragazzi correre via verso la strada e successivamente udire lo stridio delle gomme allontanarsi. Solo una cosa mi rimase colpita di quei giovani; uno indossava un giubbino dell’Harley Davidson arancione e nero. Sentivo il dolore delle percosse ricevute, ma non era tanto per il dolore fisico, che sarebbe scomparso da lì a pochi giorni, ma quello spirituale. Accettai quell’avvenimento come un segnale, un evento dal quale dovevo riflettere e ripartire. Non tanto perché ero stato scoperto, ma perché non avrei dovuto lasciare nulla al caso e se l’avessi fatto l’avrei pagata a malo modo. Ora potevo solamente gustare il sapore dolciastro del sangue in bocca. Non era la prima volta che mi capitava di provare quella sensazione, ma il modo in cui si era sviluppato tutto, era alquanto singolare ed eccitante. Per quanto patetico possa essere stato in quel momento, mi sentivo bene, più o meno. Mi misi gattoni e senza esagerare con la forza, racimolai l’impasto che avevo in bocca, sputandolo a terra. La mandibola mi fece vedere i sorci verdi, ma almeno non sentivo tutta quella poltiglia tra i denti. I fili d’erba affioravano dalle insenature delle dita, e l’umidità condensatasi durante la notte sul terreno, cominciava a bagnarmi il palmo delle mani, filtrando anche dal tessuto dei jeans, sulle ginocchia. Contrassi un po’ le gambe e con un leggero slancio mi misi a sedere. Tutto quello che potevo fare ora, era ridere. Me l’ero meritato, e con tutta sincerità, se mi fossi trovato nella situazione di quei ragazzi, credo che avrei adottato lo stesso comportamento, o forse anche peggio. E nonostante il bruciore, mi sentivo fortunato. Tutto quello mi faceva sentire vivo. Provavo dolore. La carne e le ossa trasmettevano impulsi al cervello e questo non lì assorbiva con indifferenza. Il dolore, il bruciore alla bocca e il sapore dolce del sangue misto a quello di vomito, mi faceva sentire parte di quel mondo che stava ai piedi di quella collina. Una cosa mi avevano fatto capire quei ragazzi, anche se me l’avrebbero pagata alla prima situazione utile, che dovevo rialzarmi per non finire più in basso di quanto non stessi ora, perché al baratro non c’era mai fine.

Mi alzai. I passi incalzavano precipitosi sotto le suole delle scarpe come i pensieri nella mia mente. Riflettevo e ipotizzavo una qualsiasi soluzione o direzione che potessi intraprendere. Sino a ora ero sempre stato una persona rispettosa della legge, sconfinando magari a volte di qualche centimetro; magari ero un po’ estroverso, nel senso che nel mio piccolo avevo cercato di far sempre quello che mi passava per la testa, senza ovviamente andare a calpestare i piedi a qualcuno, non tanto per timore, ma per un quieto e sereno vivere. Ora però sentivo che era diverso, avevo perso tutto, dal mio lavoro, alle mie amicizie, e a questo punto il quieto vivere poteva andarsene a quel paese.

Nella testa un’ipotesi si faceva sempre più ferma e concreta. Cosa avrei dovuto fare per racimolare un bel po’ di soldi senza fare molta fatica, utilizzando solamente la testa? Senza magari vincere alla lotteria nazionale o ai classici gratta e vinci? Un’unica risposta si accese nei miei pensieri: lo spacciatore di droga. Io che con il mio lavoro l’avevo sempre combattuto, ora trovavo in esso l’unico punto di forza per rialzarmi e riuscir a far voltar pagina alla mia vita. Gli spacciatori arrestati nella mia carriera di certo non lì riuscivo a contare sulle dita di una mano, e nemmeno in tutte quelle che possedevo, e forse grazie anche a questa esperienza, avrei potuto scavalcare la staccionata senza risentire del cambiamento di ruolo. Poche volte avevo fatto uso di droga, se qualche spinello nell’adolescenza si poteva definire tale, e questo era un bene, perché essere tossicodipendente non avrebbe fatto di certo bene agli affari, anzi, mi avrebbe fatto diminuire di molto il profitto. La cosa però non era molto semplice da imbastire. Il primo problema era riuscire a trovare la roba buona senza conoscere il prodotto. Il secondo, forse però di maggior importanza, era l’esser conosciuto dalla maggior parte degli spacciatori come uno sbirro, visto che l’ottanta per cento di loro li avevo arrestati. L’unico punto a mio favore erano le pessime condizioni in cui mi trovavo ora, e quella gentaglia forse non mi avrebbe riconosciuto subito, e se l’avessero fatto magari percependo le voci che giravano per i bassi fondi, non avrebbero dato peso alla mia presenza, e poi provare non mi sarebbe costato nulla, al massimo avrei ricevuto una coltellata alla schiena.

Ora questa prospettiva mi stava dando un grosso stimolo. Non so sino a dove sarei arrivato, ma utilizzare la mia esperienza e la mia intelligenza per sfuggire alla polizia e racimolare quanti più soldi possibili, era una cosa che mi galvanizzava e l’essere totalmente libero e indipendente era di certo un vantaggio da non trascurare. Non una famiglia da mantenere, non dei genitori ai quali dover render conto e l’unica persona con la quale dovevo fare i conti alla fine di ogni giornata ero solamente me stesso.

Con l’avanzare del tempo e dello spazio, mi ritrovai tra i vicoli del centro. Molti ricordi si celavano in quelle vie, belli e brutti, ma questo non faceva differenza perché erano parte della mia vita e della mia persona, ma ora non avevano alcun valore, se non quello di stuzzicare la memoria in vecchi ricordi oramai troppo lontani per sentirne il sapore. Cercavo lo sguardo delle persone che incrociavo, frugavo nei loro occhi qualche segno, o qualche familiarità, ma di sicuro non sapevo nemmeno io di cosa avevo bisogno o cosa speravo di trovare, ma continuai in quella vana osservazione, sino a che decisi di fermarmi. Avevo le gambe appesantite, e oltre ad avere la gola secca, anche lo stomaco cominciò a brontolare e a contorcersi dal digiuno, ma certo, di spiccioli per mangiare in tasta non me n’era rimasto nemmeno uno. Prima di mettermi comodo, accettai un volantino pubblicitario distribuito da uno dei tanti ragazzi universitari, che posizionati sulle arterie principali, sfruttavano quell’attività per mantenersi gli studi. Cominciai a creare un origami. Piega dopo piega, davo forma a quel semplice depliant, come insegnatomi dal mio professore di tecnica al tempo della scuola media. Non era difficile da comporre, bastava piegare i vari angoli e faccettature sino a comporre una barchetta, e sciolta questa, la scatolina era ben che fatta. Posai a terra il piccolo capolavoro e abbassando la testa, assumendo un’espressione sconsolata, rimasi in attesa degli spiccioli di qualche buonanima di passaggio. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo cercando un po’ di compassione, considerato che le monetine non fioccavano come rondini a primavera. Ogni volta che accadeva guardavo il mondo intorno a me. Dagli studenti che animavano con il loro passaggio e le loro chiacchiere il marciapiede coperto dai portici simmetrici di colore grigio, alle persone ferme alla fermata dell’autobus pronte a salire per dar cambio a quelle che scendevano. Senza tralasciare le scritte dei vari negozi di moda, dei piccoli bar, e di tutti gli altri esercizi commerciali che contornavano la via. Di tanto in tanto la mia attenzione veniva catturata da un negozio posto dall’altra parte della strada, anche perché era stato aperto da qualche mese, ma la sua affluenza non era diminuita con il passare dei giorni, stavo parlando del negozio della mela più conosciuta al mondo. Mi trovavo in via Rizzoli, a pochi passi da piazza Maggiore. Se guardavo a destra potevo vedere innalzarsi le torri degli asinelli. Il solo vedere i piccoli mattoni arancioni di cui erano composte, mi portava alla mente il giorno in cui in compagnia di una nuova amica, Stephanie, che avevo conosciuto in una delle mie tante serate in discoteca solo qualche giorno prima a quell’evento, con l’abilità che solo una donna possiede, era riuscita a raggirarmi, convincendomi a salire sin su la torre più alta, per ammirare lo spettacolo che Bologna stava riservando solo per noi. Quella ragazza era una forza della natura, brasiliana e dal sorriso coinvolgente. Capelli ricci biondi contornavano il suo viso dolce e morbido. Ora che ci pensavo non comprendevo perché decisi di non frequentarla più dopo sole due settimane che uscivamo, anche se il lavoro aveva influito e non poco, considerato che mi portava via il novanta per cento della giornata. A quanto ricordavo però e per quel poco tempo che l’avevo vissuta, l’avevo trovata una persona gioiosa e positiva, con la quale condividere del tempo assieme era sempre un piacere. Anche perché detto tra di noi, ero giunto al punto di affermare che le ragazze brasiliane erano dotate di una carica sessuale fuori dal comune, appurando che se le loro voglie non venivano soddisfatte puntualmente, ti lasciavano per il primo che passava. Magari il primo no, ma il secondo indubbiamente sì. A convincermi a salire per tutti quegli scalini, fu solo un motivo, il più banale per un uomo, le era bastata una sola e semplice frase, detta con accento portoghese ovviamente: “Se non sali con me questa sera niente samba.” Non serviva spiegare cosa intendesse lei per samba, visto che io non sapevo di certo ballarla. Fatto sta che ero salito sin lassù, trovando lo spettacolo che s’intravvedeva, impagabile. La ringraziai per avermi fatto fare tutta quella fatica, non a parole ma alla mia maniera la sera stessa, con la samba ovviamente. Quella che vedevo da lassù, ed era sotto ai miei piedi, era la mia città e da lì mi sentivo parte di essa come non mai.

Durante i momenti in cui la mia mente si riposava dai flashback che la memoria gli sparava, mi capitava di incrociare lo sguardo di molti dei miei ex colleghi. Non so se mi riconoscessero o meno, sta di fatto che proseguivano per la loro strada come nulla fosse, senza nemmeno lasciarmi un euro. Come riuscivano a essere così indifferenti? Come riuscivano a cancellare tutte le esperienze trascorse assieme con un semplice colpo di spugna? Se sino ad ora la stima e il rispetto per quelle persone era calato precipitosamente, considerata la loro indifferenza per la mia situazione, ora queste due emozioni venivano cancellate via per ognuno di loro a ogni loro passaggio. Ora esisteva solamente una persona, me stesso. Cominciai a pensare di cosa avevo bisogno, e la risposta fu piuttosto banale e veniale, di soldi, e molti, e di certo stando seduto come un barbone alcolizzato non avrei risolto il problema. Ero già con le mani posate a terra, pronto a rialzarmi, quando notai avvicinarsi alla scatolina una persona. Calzava dei sandali usurati, con un paio di jeans tutt’altro che alla moda. Man mano che il mio sguardo si alzava, analizzavo l’abbigliamento grossolano indossato da quell’uomo magnanimo. Dalla cintura gli usciva una camicia a quadretti rosso e bianca, assomigliava un po’ alla mia, non di pari bellezza, però alla moda. La vestiva leggermente aperta all’estremità superiore, facendone fuoriuscire un ciuffetto di peli neri. I miei occhi si fermarono sui suoi, lasciandomi per un attimo spiazzato; sensazione esternata anche da lui, considerato che aveva fatto un mezzo passo indietro. Tentai di mascherare il mio disagio, ma non so quanto ci riuscii, sebbene normalmente la cosa mi veniva spontanea, ma con lui accadde qualcosa di anomalo. Guardare nei suoi occhi era come guardare in quelli di un bambino. Nessuna cattiveria o pregiudizio, e massima trasparenza. Mentire a quegli occhi era come mentire a una persona immacolata, a un parroco al momento della confessione. Il mio imbarazzo, ipotizzavo fosse nato dalla stima che versavo nei suoi confronti, perché non aveva la capacità di mentire, e se lo faceva chiunque avesse avuto di fronte se ne sarebbe accorto immediatamente. Era una situazione tutt’altro che semplice, ma che lui riuscì a spezzare con un semplice sorriso. Sfilò dalla tasca dei jeans la mano e dopo essersi piegato leggermente in avanti posando un’altra moneta, questa volta da due euro, nella mia piccola creazione architettonica, mi chiese:

“Ti spiace se ti faccio un po’ di compagnia?”

Con la mano spazzai via le cartacce che si erano depositate accanto a me portate dal vento. Non ricordavo da quanto tempo non lo vedevo, ma caspiterina era intatto, dal taglio di capelli, ai vestiti. Sin da quando l’avevo conosciuto, l’avevo sempre visto in quelle vesti, come fosse un super eroe con la sua tenuta speciale, e mai avevo trovato il suo odore sgradevole, a parte magari quello dell’alito, tendente molte volte all’aglio.

La nostra conoscenza era stata del tutto causale, per non dire dettata dal destino, anche se a queste stupidaggini non ci credevo profondamente. A volte imboccavo questo sentiero per giustificare certi avvenimenti della vita, dei quali non riuscivo a dare una spiegazione plausibile, ma con i quali ci dovevo convivere giorno dopo giorno, ora dopo ora. Credere che certe cose siano già scritte nella lavagna della vita, fa sperare che un capitolo venga chiuso al più presto e che allo stesso tempo ne venga aperto un altro, capace di mutarla completamente. Era una mera speranza, un’idea nata e accantonata nel profondo dei miei pensieri, la quale però m’aiutava ad andare avanti e affrontare un giorno alla volta senza aspettarmi nulla dal futuro, solo avvenimenti positivi per migliorare e stimolare la mia esistenza.

La prima volta che lo conobbi mi venne subito alla mente, come un riflesso naturale. Entrò nel nostro ufficio, o meglio, ex ufficio della narcotici dove lavoravo, accompagnato da un altro nostro collaboratore, e suo connazionale. Era la prima volta che lavorava con quella mansione, però l’amicizia con la persona che ce l’aveva presentato valeva più di mille parole. Infatti con l’avanzare dei giorni la sua esperienza cresceva sempre più, come la confidenza con noi, e lentamente, con garbo e educazione, esprimeva la sua mera impressione su ciò che sentiva e traduceva, facendoci capire che sebbene quelle persone dicessero una cosa, ne volevano intendere un’altra, insomma stava diventando uno sbirro. La cosa che più lo faceva arrabbiare e per la quale aveva accettato il lavoro come interprete, era l’antipatia verso i suoi paesani, ovvero verso quelle persone che si ritenevano più furbi e scaltri degli extracomunitari che vivevano in Italia rispettando le leggi e le regole presenti, e farceli arrestare per lui era una grossa soddisfazione. Certo per lui non era una bella reputazione, lavorava si per la polizia di stato, e per noi era un grosso vantaggio, ma visto dall’altra parte, lo ritenevano un infame, un Giuda traditore, e per questo sia nell’entrare che nell’uscire dalla questura era sempre molto discreto e cercava di mimetizzarsi tra le persone per non essere notato da qualche passante.

“Brutta storia la tua.” Esordì… “ma ora cosa fai? Mica potrà finire tutto così?”

“Non credo siano fatti tuoi. Ero uno sbirro e ora non lo sono più, quindi vedi di farti gli affari tuoi.”

“Non volevo mancarti di rispetto. Lo sai che ho sempre avuto grandissima stima di te e vedrai che tutto questo si sistemerà, abbi fiducia nello Stato, la verità viene sempre a galla.”

“La verità, seeeee…la verità, a chi diavolo gliene frega della verità? A nessuno! E anche se fosse? Tutta questa faccenda si risolverà tra un anno o più, ed io sino ad allora che dovrei fare, dormire sotto un ponte? Eh me lo spieghi tu come faccio a campare per un anno senza lavorare, dopo quindici anni che faccio lo sbirro e lo stipendio mi bastava solo per arrivare a fine mese?”

“Tu sei una persona intelligente e non credo che la polizia sia il tuo unico mondo, apri gli occhi, allarga i tuoi orizzonti e vedrai che riuscirai in tutto ciò che vorrai. Questo è il mondo, il tuo mondo, ci sono persone che dal nulla diventano qualcuno solo perché hanno la volontà e la caparbietà di credere in loro stessi e la forza di non buttarsi giù alla prima difficoltà. Prendi tutto questo come la rinascita dello spirito e della persona, un capitolo nuovo ed entusiasmante della tua vita, della tua nuova vita.”

“Belle parole le tue, ma senza nulla non si va da nessuna parte.”

“Anche su questo ti do ragione, ma ora che hai intenzione di fare, di rimanere qui per il resto della giornata? Non rispondere nemmeno, prendi su i tuoi stracci e vieni a casa mia, se ti accontenti di un materasso buttato per terra, sei il ben venuto.”

“In altre circostante avrei rifiutato o almeno tentato di farlo, però accetto volentieri, e appena posso levo le tende. Ma con chi vivi? Anzi non me ne frega un accidenti, fai strada, e visto che ci siamo, che si mangia per cena?”

“Quasi me ne pento di averti invitato.”

Oltre Il Limite Della Legalità

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