Читать книгу La disfatta - Alfredo Oriani - Страница 4
II.
ОглавлениеLa mattina a colazione Bice pareva più calma. Nullameno il suo pallore aveva quei toni cerei, che fanno quasi dubitare della presenza del sangue, dando alla pelle l'apparenza di una cosa morta. Invece il dottore, sempre in piedi per tempissimo, e a quell'ora già collo stomaco alacre, divorava ogni cosa con appetito giovanile cercando d'incitarla; poi era venuta anche la contessa Ghigi per condurlo da una sua protetta povera.
Quella mattina Ambrosi era di buon umore, giacchè solamente a sera, dopo aver girato ed altercato cogli infermi della sua vasta clientela, lo riprendeva una stanchezza irritata della vita.
Nessuno aveva ancora fatto la più piccola allusione alla visita del tenente Lamberto volendo, per una squisita raffinatezza, lasciare più libera Bice in quella suprema decisione della sua vita. Anche la vecchia Rosa, sempre colla solita cuffia e quel fazzolettone sulle spalle, mangiava coi padroni.
A tavola serviva un altro cameriere, attempato, corretto nei modi, senza quella affettazione dei domestici di grandi case, che pare un complimento imposto alla loro servilità verso l'importanza dei signori.
Le due dame parlavano vivamente di un'impresa, che le preoccupava da lungo tempo: l'idea era stata della contessa Ginevra, ma senza l'aiuto dell'amica non vi si sarebbe mai accinta. Si trattava di una casa, nella quale accogliere i bambini, che le mamme operaie sono costrette ad abbandonare nel giorno, andando al lavoro; occorreva quindi un buon numero di brave donne, ed alcune fra esse al caso di fare da balie, per custodire ed allattare i piccini nella giornata. Al momento, da casa avrebbe servito una delle molte, che la contessa Ginevra possedeva nella città; ma la somma per adattarla a tale uso, e per pagare le spese vive di esercizio, mancava, giacchè si sarebbero dovuti nutrire ad un tempo i bambini e le sorveglianti. Di notte lo stabilimento resterebbe chiuso.
Il problema maggiore era però, se le mamme avessero o no a versare una minima quota giornaliera per bambino: la contessa Maria avrebbe preferito una beneficenza compiuta, l'altra con intenzioni più moderne sosteneva, che non si dovesse esonerarle anche da tale piccolo sacrificio per non diminuire in esse il già scarso sentimento della responsabilità materna.
La loro discussione si accalorava, senza che il dottore, incredulo in fatto di beneficenza, mostrasse di interessarvisi; ma siccome Bice era ricaduta in un silenzio inquietante, le due signore si arrestarono. Il dottore s'impazientò: uso ad attaccare sempre di fronte malattie e malati credette bene di eccitare Bice.
—A che ora verrà il tenente Lamberto?
La contessa Ginevra gli fece un cenno inutile.
—Alle due.
—Va benissimo.
Ella lo guardò curiosamente.
—Questa notte dormirai, ecco tutto, o io sono più bestia che medico: il caso è frequente nella nostra professione.
—Voi dunque sapete quello che risponderò?
—Te lo dirò stasera, prima che tu mi racconti la cosa: vedrai se ho indovinato.
La ragazza guardò la zia Ginevra e la contessa Maria, quasi interrogandole se fossero anch'esse della medesima opinione.
Un sentimento di rivolta le saliva dal cuore a vedersi così prevenuta nella decisione suprema della propria vita, ma sui loro volti affettuosi non scorse che una preoccupazione repressa: Bice indovinò che temevano una risoluzione contraria a quella del dottore.
—Dottore,—disse Bice appoggiando un gomito sulla tavola ed abbandonando la testa sulla palma della mano,—checchè avvenga mi darete sempre la vostra approvazione?
—Sì,—egli rispose francamente.
Non parlarono più.
Il dottore, accorgendosi di aver fatto tardi a tavola, si alzò bruscamente, ma dovette promettere alla contessa Maria di lasciarsi trovare alle tre nella solita farmacia; ella passerebbe a prenderlo colla carrozza per accompagnarlo dalla sua nuova protetta, un caso straziante, forse irrimediabile. La contessa Ginevra doveva fare delle visite.
—Vuoi che resti teco?—chiese a Bice cingendole con un braccio l'esile vita, e baciandola sulla fronte.
—No, zia, andate pure.
La contessa era indecisa; un'onda d'affetto le traboccò dal cuore.
—Oh, Bice mia, sii forte!
Quando tutti se ne furono andati, ella tornò con Rosa nel proprio appartamentino, e si fece vestire. Malgrado la sua sgraziata figura, Bice era sempre di una eleganza tanto più squisita che non ne traspariva alcuna civetteria; laonde molti dicevano che vestiva all'inglese per satireggiare con questa parola male appropriata la severità delle sue stoffe e l'indifferenza colla quale le portava. Appena le due cameriere ebbero finito, sotto la sorveglianza della vecchia Rosa, che non parlava mai, Bice passò nel proprio gabinetto, uno stanzino parato di arazzi moderni, con soggetti quasi tutti derivati dai romanzi di Walter Scott, e si fece portare il piccolo telaio, sul quale ricamava da due mesi, nei momenti d'ozio, un manipolo per il curato della sua villa. La vecchia Rosa seduta presso di lei, facendo automaticamente la calza, l'osservava tratto tratto con ansiosa acutezza. L'altra avrebbe voluto parere calma, ma le mani sottili e ceree le tremavano involontariamente fuori dei piccoli merletti delle maniche, mentre quell'abito di velluto azzurrognolo smorto, con certe vivezze improvvise che parevano brividi, rendeva anche più inquietante il suo pallore.
—Rosa,—mormorò respingendo il telaio,—nessun di loro ha voluto dirmi nulla: che cosa debbo fare? Perchè non mi hanno consigliata?
—Il professore ti ha pur detto di riceverlo.
—Ma non ha detto nulla di più.
La vecchia si lasciò cadere nel grembo i ferri colla calza e, passando le mani sugli occhi di Bice, glieli chiuse carezzevolmente.
—Gli vuoi bene?—si chinò a susurrarle nell'orecchio.
Ma l'altra invece le domandò:
—Perchè non soffro di più, mentre la mamma ha potuto morire di amore?
Stettero un altro pezzo in silenzio. La vecchia, colla testa della fanciulla sulle ginocchia, la contemplava con una adorazione atterrita: ella vedeva nei suoi occhi azzurri le stesse piccole fiamme, che già avvampavano negli occhi della madre bruciandole il cuore tanto presto. Bice era in preda ad un orgasmo indefinibile.
—Rosa!—domandò nuovamente:—dopo te, chi mi vuol più bene?
La vecchia non esitò un istante:
—Il dottore.
—Perchè si ostinò a volermi far vivere, quando invece dovrò morire all'età della mamma? Mi restano ancora sei anni, sono molti. Lasciami dire, Rosa: io lo sento meglio di voi altri, che non si può vivere così.
—Vuoi tentare il Signore con questi discorsi?
—Sino ai quindici anni sono campata di acqua civilina e di olio di merluzzo; meno male che sono rimasta magra,—seguitò con amarezza;—se mi fossi ingrassata, avrebbero dovuto mettermi sulle bottiglie per réclame. Ecco il risultato della mia vita.
Rosa, che non voleva quei discorsi, se la tirò più su, contro il petto, come una bambina.
—Che cosa gli dirai, a lui?
—Dimmi piuttosto, come potrà spiegarsi meco?
La vecchia non seppe rispondere; gli occhi limpidi della fanciulla avevano una purità insostenibile.
—Dimmelo, Rosa: questo è il grande momento della vita per me. Tutto quanto ho imparato, tu che mi credi dotta, non mi serve a nulla davanti al problema, che sta per risolversi. Anche la mamma ha dovuto morire di un tradimento; tu devi capirlo bene, che ho bisogno di saperlo. Se l'amore degli uomini è così naturalmente diverso dal nostro, la colpa non è loro…. Ma dimmelo…. Questa notte ho sempre pensato alla mamma; non mi sono potuto sottrarre all'idea che, anche lei, sia stata tradita.
—Tu sei ancora troppo piccina; queste cose si sanno solamente dopo.
—No, Rosa: ho bisogno di saperlo. La mamma è morta di dolore…. tradita, anche lei?
—No.
—Giuralo.
—Te lo giuro.
—Perchè dunque è morta di amore? Si può morire della sua gioia?
Adesso la vecchia era malcontenta; anch'essa ricadde in una meditazione. Aveva quasi settant'anni, ma così curva e grinzosa li portava tuttavia abbastanza bene. La sua fronte di un colore di terra cotta, a larghe macchie, pareva spiegazzata: la bocca le era rientrata violentemente dentro le gengive deformando le linee, forse una volta belle del naso e del mento, ma sotto l'imperturbabilità della sua maschera antica s'indovinava ancora un cuore buono. Parlava lentamente, senza gestire, con voce bassa, che certe volte pareva un'eco. Da moltissimi anni era rimasta sola, poi aveva fuso la propria vita con quella di Bice disputandola, giorno per giorno, alla morte con la stessa energia di contadina, colla quale ella medesima se ne difendeva.
Ma leggendo più profondamente nell'anima della fanciulla, Rosa temeva più degli altri. Era la grande crisi; forse la morte si nascondeva dentro quell'amore di fanciulla come una vipera sotto un cespuglio.
—Andiamo dalla Madonna,—disse risolutamente.
Pochi minuti dopo uscivano di casa, a piedi, Bice imbacuccata in una pelliccia di martora, che la copriva sino a terra, e con un fitto velo sul viso per non aspirare l'aria troppo rigida; la vecchia avvolta in uno scialle antico della contessa Ginevra, e con un grande fazzoletto di seta sulla testa.
Talvolta la gente si voltava a vederle passare.
Entrarono in San Bartolomeo.
La chiesa era quasi tiepida e deserta: Rosa porse le dita bagnate nell'acqua santa a Bice, e andarono difilate all'altare della Madonna di Guido Reni, la sola che a Bologna abbia un'eguale celebrità di arte e di miracoli.
Due donne del volgo, inginocchiate dinanzi alla balaustra della cappella, non si mossero vedendo una signorina prostrarsi vicino a loro. La cappella, di un gusto villano, aveva per altare uno dei soliti banchi in legno dipinto stupidamente a marmo, ma la bella immagine sogguardava dalla piccola cornice, ovale e dorata, con uno sguardo dolcemente estatico, dentro al quale si sentiva come una tregua di dolore. Il suo busto, avvolto in un confuso panneggiamento turchino, sfuggiva nell'ombra.
Rosa piegò la fronte sulla fredda pietra della balaustra, mormorando a mezza voce una Salve Regina.
Nel silenzio della chiesa, vivamente illuminata, strisciavano dei passi: ogni tanto il portello pesante, sotto al quale erano passate, si richiudeva rimbombando cupamente; in fondo, nell'abside, ove alcuni apparatori lavoravano ad un addobbo salivano tratto tratto parole in dialetto, quasi striduli appelli di piazza in quel raccoglimento torpido, fra il volo muto delle preghiere.
Bice ne ricevette una penosa impressione. Ella non sapeva pregare che a certi momenti, quando l'anima, gonfia di poesia, le si alzava spontaneamente verso l'invisibile: allora tutti i mistici fantasmi le riapparivano attirandola sempre più in alto, per un azzurro rorido e vampeggiante d'improvvise illuminazioni.
Per qualche tempo seguì il passaggio dei pochi devoti, che entravano nella chiesa, s'inchinavano a quell'altare ed uscivano dall'altra porticina di fianco. La chiesa diventava volgare come ogni luogo pubblico. Malgrado lo spessore della pelliccia, ella si sentiva già i ginocchi indolenziti sulla durezza dello scalino: a che scopo quella visita, a quell'ora?
Ma le altre due donne, e la vecchia Rosa, seguitavano a pregare immobili, col volto fra le palme, in una posa di profondo abbattimento; per loro la Madonna era così presente, che non avevano nemmeno il bisogno di guardare la sua bella immagine sull'altare. Allora Bice s'incantò di nuovo a contemplarla, rammentandosi confusamente le parole di De Nittis sulla Vergine Madre di Dio. Erano vere: nessuna poesia supererebbe mai quella della madonna cristiana, così vergine da ricusare l'onore di madre di Dio, e così madre da abbandonare alla morte il proprio figlio divino per salvare quelli di tutte le altre donne. Ma la soave figura di quel quadro era appena malinconica: le sue guance rotonde, la sua piccola bocca, la sua fronte liscia non esprimevano la sovrumana tragedia della sua vita; solo gli occhi appannati lasciavano indovinare come un pianto di rugiada.
Poi tutto fu inutile, Bice non potè pregare. Invece era sorpresa di sentirsi così indifferente, mentre la grande crisi della sua vita stava per scoppiare.
—Di' un'Ave Maria con me,—le susurrò Rosa.
Uscirono: all'aria aperta Bice tornò pensierosa.
—Il signor tenente Lamberto è già nel salotto ad aspettarla,—disse il cameriere aprendo loro la porta dell'appartamento.
Bice sussultò.
—La zia è tornata?
—No, signorina.
Bice entrò risolutamente nel gabinetto, senza trarsi la pelliccia, alzandosi il velo sul cappellino; il tenente Lamberto balzò in piedi ma, per quanto si fosse preparato al colloquio, rimase incerto di tenderle la mano o d'inchinarsi solamente.
—Buon giorno,—gli disse Bice sull'uscio, e venne a sedersi presso di lui, sopra una poltrona, stringendosi freddolosamente nella pelliccia.
Il suo volto pallido era agitato da un tremito, che il freddo della strada bastava a spiegare. Egli non sapeva come incominciare. Così vestito, colle mostreggiature bianche del reggimento Novara, e la corta montura nera, poichè aveva gettato lo spencer sopra una poltrona, senza berretto, era veramente bello; la sua media statura di proporzioni ammirabili, e la sua piccola testa cogli occhi neri e la pelle bronzina avevano un'espressione di forza simpatica.
—È freddo.
—Da intirizzire.
—Anche la zia è uscita?
—Sì.
Non sapevano andare avanti.
—Sedete dunque,—ella gli disse.
Ma quando fu seduto, si sentirono entrambi così lontani l'uno dall'altro, ad una tale distanza, che non avrebbero più potuto farla sparire: ella dentro a quella pelliccia, dalla quale non sporgeva che la testina sofferente, era ripresa dal freddo. Poi una tristezza insopportabilmente greve le cadde sull'anima. Egli se ne accorse.
—Prima di presentarmi,—cominciò con visibile stento,—sono stato dal professore De Nittis: egli mi ha consigliato a venire, perchè vi debbo una spiegazione.
Bice attese; l'altro, che aspettava una parola d'incoraggiamento, s'imbrogliò di nuovo.
—Sarete offesa; ne convengo, tutte le apparenze sono contro di me.
—Che importano le apparenze?
—Mi credete dunque ancora?
—Vi crederò, senza dubbio, giacchè volete dirmi qualche cosa, e non potreste avere l'intenzione d'ingannarmi.
Questa facilità di Bice rendeva anche più difficile la spiegazione. Evidentemente egli si attendeva ad un'altra accoglienza, a lamenti, ad accuse, che provandogli di essere ancora amato, gli avrebbero dato immediatamente una superiorità sopra di lei: invece la fredda bontà di Bice lo sconcertava. La sua vanità ne fu punta: involontariamente si atteggiò con più seduttrice eleganza sulla poltrona, passandosi la spada tra i piedi e la mano sinistra sui piccoli baffi.
—Io non voglio certo ingannarvi.
—A che scopo lo fareste? Una fanciulla come me, fuori della vita….
—Come fuori della vita? Quando ne siete uscita?
—Voi mi avete provato, che non vi sono mai entrata davvero.
Era l'accusa: allora egli si sentì finalmente sollevato:
—V'ingannate. Può darsi che qualcuno vi abbia riferito le cose ben diversamente; so che i giornali ne hanno parlato, ma chi crede più ai giornali? Si conosce come ricevano le notizie e le propalino; hanno bisogno di trovare lo scandalo dovunque, giacchè non vivono d'altro.
—Quindi non vi è stato nulla.
Egli si arrestò.
—Hanno falsato, ecco: il fatto è vero, ma non così. Io fui insultato, ho dovuto battermi.
Un'emozione passò sul volto di Bice, egli se ne avvide.
—Ho fatto male. Un amico mi aveva pregato di accompagnare quella donna a casa, poichè lo aveva trovato con lei nel Corso, e si erano bisticciati. Ella invece volle entrare al Gambrinus; quelle donne son tutte così. Era impossibile rifiutare.
Bice ascoltava.
—Il tenente Ravizza aveva meco un vecchio rancore; ma, del resto, viene dalla bassa forza e ne ha conservati tutti i modi. Senza la sua provocazione troppo palese, nulla sarebbe accaduto…. Infine, qualunque sia la condizione di una donna, quando è anche momentaneamente, per caso, con noi, ogni gentiluomo ha il dovere di ottenerle da tutti il rispetto.
Egli aveva detto ciò in fretta, come un finale di lezione mandata a memoria, ma si sentiva che non ne era rimasto contento: d'altronde Bice non si era mossa. Parevano due stranieri, che per una stravaganza inesplicabile parlassero di un caso intimo; egli si trovava ridicolo con quelle spiegazioni assurde anche per un bambino, mentre il giorno prima con De Nittis raccontando sinceramente l'accaduto, aveva trovato qualche scatto simpaticamente generoso.
Ricaddero in silenzio, umiliati tutti e due.
Quindi un ricordo della loro tenerezza giovanile li punse, come un rimprovero pieno di dolci rimpianti; erano così confidenti allora l'uno nell'altra, che nessuna età della loro vita sarebbe mai più così felice. Egli, robusto e turbolento, ne faceva di tutte le sorta; ella lo rappattumava colla zia e coi maestri tornando poco dopo a bisticciarsi con lui, ma senza che una viltà d'inganno li avesse mai separati. Invece, soli in quel gabinetto tiepido, nell'abbandono di una spiegazione, che avrebbe dovuto suggellare il loro amore, s'accorgevano di non riconoscersi più. Involontariamente Bice pensava a quella cortigiana, una delle celebrità più impure della capitale, che Lamberto aveva condotto a cena, difendendola dai motteggi di un crocchio di ufficiali, sino a battersi col più imprudente di loro. Secondo tutti i giornali quella donna era irresistibile di eleganza, bella come le sue pari debbono esserlo, colla freschezza dei fiori e la mobilità carezzevole e tempestosa del mare.
Un'amarezza dolorosa le salì dal cuore alle labbra. Allora, con moto repentino, aperse la pelliccia per rigettarla sopra una sedia; Lamberto fu pronto a passarle di dietro, ma ella gli rispose un "grazie" secco, e rimase in piedi, quasi per farglisi vedere in tutta la propria desolata magrezza. L'imbarazzo dì lui crebbe; ella seguitava a tacere.
—Mi congedate?
—Non avevate delle spiegazioni da darmi?
—Mi sembrate così poco disposta a riceverne!
—Sarò io che ve le darò invece.
—Voi….
—Siete libero,—ella disse raddolcendosi nuovamente:—avrei voluto potervelo dir prima, per risparmiare ciò che avete creduto di dovermi spiegare, ma il tempo dei nostri giochi è passato. Io, lo vedete, sono rimasta egualmente pallida e magra, un'imponderabile, come una volta mi disse ridendo il dottore; solo l'anima e il volto sono invecchiati in me. Voi invece siete diventato un uomo: siete bello,—aggiunse con uno strano accento di purezza e d'indifferenza.
—Bice….
—Forse il mondo è troppo grande perchè noi donne possiamo comprenderlo, ma ho sentito che non sareste più ritornato dal vostro nel mio.
—Io vi amo, Bice.
—Ancora!—ella ribattè con ironia rassegnata.
—Qualunque siano i miei torti, dovete credere….
—Di qual fede volete voi parlare, Lamberto? Io non so che cosa sia l'amore degli uomini: esso può, secondo voi, dimenticare e transigere. È così, non è vero? Invece io sono tanto poco donna, che il vostro amore non saprebbe vivere di me: non m'interrompete, Lamberto. Nessuna generosa menzogna potrebbe cambiarmi la coscienza che ho di me stessa: vedete che non mi lagno.
—Così mi umiliate doppiamente.
—La colpa è della mia memoria, che in voi non ha potuto difendersi contro impressioni più gradevoli. Eccovi la mano, Lamberto, restiamo amici.
—È impossibile!—proruppe.—Vi dirò tutto, piuttosto che restare sotto il peso di questa bontà, che mi schiaccerebbe.
Con un gesto risoluto e grazioso, le prese una mano appressandole insensibilmente il volto al volto: i suoi occhi neri sfavillavano.
—Bice,—riprese con voce commossa,—quando vi avrò confessato che noi uomini diventiamo brutali, anche se ci brilla nell'anima la più santa delle immagini, ne saprete forse quanto prima: eppure è così. Quella donna, della quale un angelo come voi non potrebbe essere geloso, l'ho conosciuta; è vero, non ci pensavo, ma il mondo è così stupidamente fatto, che per lei ho dovuto arrischiare inconsideratamente la mia vita e ferire un compagno. Però essa non mi è mai entrata nel cuore: mi credete, non è vero?
—Sì.
—Allora mi perdonate.
—Non sono io che lo posso: dovrà perdonarvi quel vostro compagno, egli è il solo ferito.
Lamberto le lasciò cadere la mano; ella fece un passo addietro afferrando la pelliccia; egli raccolse lo spencer. Era diventato pallido; automaticamente Bice si rimise la pelliccia.
—Ve ne andate?
Ella gli tese la mano, col suo dolce sorriso.
—Addio, Lamberto.
—Così freddamente!—gridò, reprimendo a stento la collera:—adesso comprendo che non mi avete mai amato.
Una fiamma si accese negli occhi cilestri di Bice. Egli stava per prorompere, ma una improvvisa umiliazione lo colse di essere invano così giovane e bello per quella gracile creatura, che sino allora aveva creduto di trascinare vittoriosamente dietro al carro della propria vita. Bice gli sfuggiva in alto, come una di quelle immagini, che paiono risalire verso l'aurora della nostra infanzia, mentre noi discendiamo pel meriggio verso il vespro.
—Resterete a pranzo colla zia?
—No, se mi lasciate a questo modo.
—Allora tornate stasera a vederla: sarà contenta di trovarvi così bello.
—Mentre voi mi trovate moralmente tanto brutto.
Ella sorrise ancora:
—Non sareste allora uno dei miei amici.
—Amico! piuttosto nulla.
—Verrete stasera?
—Faremo la pace?
Ella ridivenne fredda.
—Addio, Lamberto.
E indietreggiò di qualche passo: pareva ad entrambi impossibile di lasciarsi così, ma nullameno avevano finito, non trovavano più altra parola. Non si erano nemmeno dati la mano.
Egli, sempre più piccato, fece un inchino contegnoso sull'uscio, ma allora Bice pentita della propria durezza gli corse dietro, lo raggiunse nell'anticamera, traversandola rapidamente per entrare nell'appartamento della zia, e gli tese la mano.
—Addio,—mormorò con un accento, sul quale era impossibile ingannarsi.
Ma entrando nel solito gabinetto di conversazione dovette sedersi per resistere alla emozione, che la soffocava: adesso le pareva di sentirsi più grande nella libertà del nuovo abbandono, dopo quella suprema abdicazione alla vita mondana, nella quale Lamberto avrebbe dovuto introdurla. Dopo avere per tanti anni creduto di amarlo con una passione di orfanella, la più intensa e dolorosa fra tutte, era sorpresa della propria pace fredda, mentre i nervi le fremevano ancora, e gli occhi le battevano dalla voglia di piangere. Era dunque questo il grande dolore aspettato? Poi un'ultima reazione la risospinse.
Suonò il campanello.
—Andrea,—disse al cameriere:—Rosa deve essere stanca, accompagnatemi voi.
Si riabbassò il velo sul volto ed uscì. Il vento si era fatto anche più rigido. Ella camminava in fretta, ascoltandosi dietro il passo del domestico, senza badare alla folla più rumorosa in quell'ora del passeggio, sotto i portici di Santo Stefano; quindi piegò per via Remorsella, verso la casa De Nittis. Secondo le sue abitudini, il professore doveva essere rientrato dopo la lezione delle due pomeridiane.
—Voi! Bice!—egli esclamò meravigliato, vedendola entrare colla grossa Margherita.
Nello studio il caldo della stufa era quasi insopportabile.
—Si cavi la pelliccia, signorina,—diceva la governante del professore.
Bice le sorrise: quella vasta stanza, calma e severa, le aveva subito dato un senso di gioia. Le pareti erano interamente nascoste da alti scaffali pieni di libri; in fondo, presso la finestra senza tende, che lasciava entrare tutta la luce della strada, lo scrittoio del professore spariva quasi sotto mucchi di fascicoli e di volumi, mentre egli, sempre così ben pettinato, vestito di nero, signorilmente elegante, stava seduto sopra un'antica poltrona in cuoio giallo, a spalliera alta e dritta.
—Che cosa avete?—le domandò premuroso tirandosela vicino.
Ella tardò invece a rispondere, ma il suo viso era così tranquillo che
De Nittis non le ripetè la domanda.
—È la grande opera?—ella chiese indicandogli un mucchietto di fascicoli a copertine rosee.
—La mia grande opera!—ribattè con un sorriso d'ironia,—quella che forse non finirò.
Bice ne prese un fascicolo, ma non potendo ancora star ferma, andò alla finestra per leggerne qualche riga.
—Ah!—esclamò,—è un latino che capisco anch'io.—Dominus, pars haereditatis meae et calicis mei: tu es qui restitues haereditatem meam mihi.—È una citazione di Rénan; come sarà bella! Quindi proseguì leggendo ad alta voce: Ah! que je frapperais volontiers ma poitrine si j'éspérais entendre cette voix chérie, qui autrefois me faisait tressaillir. Mais non, il n'y a que l'inflexible nature: quand je cherche ton oeil de père je ne trouve que l'orbite vide et sans fond de l'infini, quand je cherche ton front céleste je vais me heurter contre la voûte de airain, qui me renvoie froidement mon amour. Adieu donc, ò Dieu de ma jeunesse! Peut-être tu seras celui de mon lit de mort. Adieu: quoique tu m'aies trompé, je t'aime encore!
Ella aveva letto modulando le frasi, ma alle ultime parole si arrestò. Quel perdono superbo e malinconico, che l'anima umana, ingannata in tutte le proprie dolorose ricerche, gettava morente per l'infinito verso Dio, le fece vibrare tutte le fibre del cuore ancora agitato da quell'ultimo abbandono.
De Nittis si era alzato per venire a leggere sul manoscritto al disopra delle sue spalle.
—Ditemelo voi, è una bestemmia quest'ultimo grido di Rénan?—gli si volse con voce commossa.
—No, Bice, è il principio di una nuova preghiera: l'uomo perdonando a Dio di non esserglisi voluto rivelare, afferma così l'amore al disopra della fede. E voi avete perdonato a Lamberto?
—Sì.
—Come vi siete lasciati?
—Amici.
—Tu non l'ami dunque più?
Egli le aveva preso le mani, la sua voce era quasi severa.
—Nemmeno egli può amarmi.
Bice tornò a deporre il manoscritto sulla scrivania, e si rimise la pelliccia per uscire. De Nittis pensieroso si accostò per aiutarla. Ella lo lasciò fare, provando una dolce contentezza a sentirsi stringere da lui la pelliccia sul corpicino così bisognoso di riguardi, mentre una luce tremula le rideva negli occhi. De Nittis si attardava.
—Ho voluto dirlo a voi per il primo,—mormorò salutandolo graziosamente col capo:—verrete stasera?