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LA PRIMA GIORNATA

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Egli uscì a testa alta, col volto lucido di quel sorriso, che sembra illuminarsi dall'interna contentezza di un buon pranzo.

Aveva mangiato copiosamente, solo ad un tavolino dell'ampia sala bislunga, nella quale gli avventori rumoreggiavano, e i camerieri in giacchetta nera e cravatta bianca mutavano correndo i piatti sporchi coi piatti pieni, fra l'incrociarsi degli ordini e il vocìo saliente delle conversazioni. Parecchie donne della piccola borghesia pranzavano in cappellino, colle mantiglie ripiegate sul dossale delle sedie, perchè gli attaccapanni delle pareti erano già carichi di pastrani e di cappelli maschili; ma nessuna era bella, e tutte avevano nell'atteggiamento quel ritegno nervoso, che tradisce nel suo stesso disagio la brama di attirare l'attenzione. Da alcuni tavoli affollati di studenti il chiasso si allargava come un'onda, facendo spesso rivolgere le teste con atto fra furioso e scontento di tale trivialità non abbastanza giustificata dal buon mercato del luogo e dalla eccellente riputazione del suo vino.

Infatti il Chianti, che vi si beveva, senza essere degno del proprio nome, era assai migliore di quello che ormai ha degradato nel giudizio dei più il famoso vino di Broglio, ultimo orgoglio del grande barone, egli stesso ultima originale figura della aristocrazia toscana.

La sala era illuminata a luce elettrica da vecchi bracci dorati, nei quali le vaschette del gas avevano ceduto il posto alle diafane pere dal rameo stelo attorcigliato e rosso dentro un candore abbacinante: nell'aria satura di odori grassi un calore cresceva a colorare le facce, accendendo tratto tratto nel fondo degli occhi qualche fiammella.

Egli aveva pranzato fra due tavole occupate da due gruppi abbastanza diversi: a sinistra sei o sette studenti ineleganti ed affamati, villani ed allegri; si vedeva che quel loro magro pranzo di pensione non bastava a tutte le cupidigie dello stomaco giovanile, indarno distratto dal baccano dei discorsi. Certe parole, alcune arie improvvise tradivano un dispetto nell'urto di una qualche difficoltà prevista forse, ma non per questo meno pungente; i coltelli tagliavano le pietanze a pezzetti troppo piccoli, e le pagnottelle sparivano dalla tovaglia con una celerità quasi prestigiosa. Li serviva un vecchio cameriere, lento, bonario, che si piegava sempre con lo stesso sorriso ad ascoltare tutte le domande pei baratti o le porzioni divise fra due o tre studenti, nei quali l'appetito più facilmente ammorzava le pretese della vanità; poi se ne andava traballando con una pila di piatti sulle mani.

All'altro lato si allargava una intera famiglia di provinciali dalle vesti e le mosse sgraziate, ma con quel contegno sicuro della gente ricca, che sa di poter essere a posto dovunque. Lo si capiva specialmente dal viso della madre, una donna secca e giallognola dentro un abito scuro, la quale discorreva col cameriere, un giovanotto biondo, come se avesse già sovra di lui una certa autorità, mentre il marito, più vecchio, grasso e rosso, si preoccupava dei due figli più piccoli per farli mangiare decentemente. Tre ragazze vestite allo stesso modo, di una stoffa sanguigna, tenevano tutto un lato della tavola, guardando nella sala con una curiosità beata e maliziosa; ed erano tutte tre brune, così simiglianti nelle facce rotonde che parevano tre ritratti della stessa persona a non molta distanza di tempo.

Gli studenti, appena notato quel gruppo, avevano subito colla provocatrice iattanza della giovinezza alzato il tono della conversazione, già abbastanza scabra secondo il solito, e le ragazze, incapaci di resistere alla tentazione di voltarsi, ascoltavano coll'aria di parlare fra loro, nascondendo a stento fra le pieghe della bocca un sorriso involontario a certe più vive scappate.

Anch'egli se n'era accorto.

Era un sensale di molte cose, da grano e da vino, da seta e da legna, che gli affari traevano spesso a Firenze per mezza giornata: aveva una statura troppo alta, un corpo allampanato, e nel viso storto due piccoli occhi castani, dentro i quali si accendeva di quando in quando un barlume d'intelligenza. Al vestito, ai modi, gli s'indovinava un'intenzione di eleganza ancora mal sicura ma non senza qualche amabilità; e siccome guadagnava abbastanza e sapeva spendere con una certa giustezza, il suo aspetto poteva in alcuni luoghi, fra gente non troppo fina, ottenergli quel primo involontario rispetto per le persone, che sanno far sentire con garbo la propria superiorità. Così durante il pranzo, pur divertendosi alle intemperanze degli studenti eccitati dal contegno delle tre ragazze e da alcuni trasalimenti nervosi della mamma, aveva abbastanza bene simulato l'indulgente disattenzione di un uomo meglio abituato, non senza provarne in fondo al cuore una vera contentezza di orgoglio. Quegli studenti, nati forse da famiglie più alte della sua e passati oramai per tutta la filiera delle scuole, non apparivano nè più intelligenti, nè gran cosa più signorili di lui; fors'anco i loro studi non li condurrebbero mai all'agiatezza raggiunta da lui in pochi anni.

Infatti la sua giovinezza non superava la loro. Egli toccava forse i ventiquattro anni, ma aveva già corsa tutta l'Italia, passata la frontiera austriaca, parlava non troppo male il francese, era in relazione con molti milionari, poteva citare grossi nomi e grosse cifre con quella trascuranza che stupisce sempre la gente estranea al commercio, e per la quale il danaro non sa scompagnarsi mai da un senso di pena per la difficoltà di guadagnarlo. Quindi aveva largheggiato con se stesso nel pranzo, chiudendolo col caffè, il cognac e un pacco di sigarette: poi, ripreso dalla tovaglia il giornale, lo scorreva distrattamente colla schiena appoggiata al dossale della sedia e la testa arrovesciata sotto il fumo lieve della sigaretta.

Qualcuno lo guardava, le tre ragazze avevano barattato su lui qualche parola.

Poco dopo trasse dal taschino un grosso orologio d'oro e parve consultarlo lungamente; erano le sette e mezzo, il treno per Bologna non partiva che a mezzanotte. Avrebbe potuto, volendo, passare quella notte a Firenze invece di ritornare a Forlì, ma non ne aveva alcun motivo; nel mattino gli era riuscito di vendere cinquecento quintali di grano, comprati da lui stesso a Faenza, e sui quali guadagnava novanta centesimi al quintale. La sua giornata era stata perciò delle migliori; poi nel pomeriggio un grosso mugnaio di Marradi gli aveva parlato di una transazione per una vecchia lite ferroviaria, chiedendo quasi consiglio. Egli s'era offerto senza sapere ancora come la cosa fosse davvero, per il piacere della vanità solleticata dall'importanza di una simile trattativa.

—Che dote avranno queste ragazze?—pensava esaminandole:—Talvolta le provinciali così mal vestite sono più ricche di molte donnine eleganti, che s'incontrano per via Calzaioli, e soprattutto hanno minori esigenze. La loro dote tocca davvero al marito, che non essendo uno sciocco può trarne una fortuna.

Il suo pensiero ondeggiò su questo problema, mentre gli occhi gli correvano per tutta la sala luminosa e rumoreggiante. Notò che nessuna persona veramente distinta vi si trovava: forse egli era il più elegante, capitato per un buon caso a quel tavolo vuoto, ove era stato servito meglio degli altri.

Perchè vi restava ancora?

Il pranzo eccellente non gli era costato che tre lire, tutto compreso: bisognava uscire, trovare un modo, un piacere, per ingannare il tempo sino all'ora del treno.

Quando si alzò, la sua alta statura e il lungo pastrano, che il cameriere troppo piccolo stentava a porgli sulle spalle, attirarono l'attenzione della sala; passò dritto, a testa alta fra le occhiate, sentendovisi quasi crescere, ma già preso da un vago bisogno di essere con qualcuno.

Fuori l'aria si era fatta rigida, benchè l'inverno fosse oramai trascorso. Via Calzaioli si affollava di gente sotto la viva luce dei fanali, fra quel chiacchierio delle ore serali, che pare fatto di prime confidenze nella tregua del lavoro quotidiano. Gli uomini camminavano adagio, le donne avevano un indefinibile languore nel passo, dalle vetrine uscivano barbagli, molte finestre erano illuminate, qualche fiacre correva al piccolo trotto, mentre alcune cacciatrici notturne, già scese nelle strade, passavano negli abiti vistosi, col volto vivido di vernice e gli occhi troppo aperti, che guardavano in faccia agli uomini con una insistenza interrogatrice.

Ma nessuna lo tentò.

In quella strada, fra quella gente, a quell'ora, esse non erano che una miseria, alla quale poteva solamente arrestarsi qualcuno di coloro, che essendo troppo soli hanno troppa fretta; egli invece avrebbe potuto facilmente imbattersi in qualche amico di affari, e stava benissimo.

Preferiva di andare al caffè. Ma l'onda lenta della folla lo prese senza che quasi se ne accorgesse, trascinandolo per quella vecchia strada illustre, della quale sapeva a memoria tutte le ditte. Nel cielo scuro le stelle brillavano lontanamente, l'aria frizzante tratto tratto gli pizzicava il viso con una carezza, che gli scendeva fin dentro a destare qualche brivido nel caldo del pesante pastrano e fra i tenui odori femminili vaganti. Alcune teste di donne sorgevano come apparizioni tra la folla: capelli bruni dorati, guance bianche, illuminate da un sorriso; e bagliori uscivano dagli occhi, dietro le labbra dai denti candidi, mentre le teste si piegavano mollemente e un fremito pareva correre lungo le mantiglie, giù per le gonne, sino al selciato. La notte non era ancora di primavera, ma qualcuna delle sue inquietudini passava nell'aria come un soffio. Egli notò che nella luce di quell'ora i vecchi parevano più vecchi e i fanciulli camminavano dando la mano ai parenti con insolita gravità. Evidentemente quasi tutta la folla si trovava nella sua condizione, in quel tiepido benessere del dopo pranzo quando si obliano le cure e si sta per chiedere un qualche piacere alla notte. La gente girellava senza un motivo preciso: fra poco la maggior parte si sarebbe decisa per i clubs o per i caffè, per i teatri o altri ritrovi, a riprendere la solita vita notturna più breve, più vacua, ma più acuta forse che quella stessa del giorno. Soltanto le piccole famiglie, troppo povere per concedersi altri svaghi dopo quello della strada, rientrerebbero presto nelle case per andare a letto, portandovi inconsciamente l'acredine tentatrice di qualche visione balenata fra la moltitudine e dileguata quasi al disopra di essa, dentro l'ombra di una grande carrozza.

Egli girava a caso. Involontariamente la sua giovinezza lo faceva seguire per qualche tratto una figurina di donna, svelta ed elegante, che fendeva la folla senza vederla, al braccio di un signore; ed era come una pagina di romanzo, che gli si aprisse improvvisamente dinanzi agli occhi coll'irresistibile prestigio dell'amore. Altre donne non guardava. Come quasi tutti i giovani, che nati poveri dovettero subito lottare per il pane della vita, egli sentiva adesso con una acutezza più dolorosa l'invidia contro le classi superiori, alle quali il lavoro e la fortuna avevano potuto avvicinarlo senza ottenergli mai la più piccola dimestichezza con una signora, perchè davanti a qualunque di esse perdeva anche la poca disinvoltura imparata negli affari. E se ne rodeva intimamente.

Una malinconia lo vinceva a poco a poco.

Da via Calzaioli errò per altre strade, trovandosi finalmente in Lungarno. Il fiume non aveva un murmure, nella notte non passava un alito. Egli non era abbastanza colto per sognare dinanzi ai vecchi ponti, che cavalcavano il fiume, mentre dal fondo della tenebra i colli lontani si alzavano in un'ombra più densa, giacchè sapendo antica la vera bellezza della città non aveva mai avuta la tentazione di comprare una guida e preferiva le vie moderne, larghe e bianche nella lindura della nuova ricchezza.

Lungarno era deserto.

Addossato al parapetto per accendere meglio un sigaro, vide le stelle tremolare dentro l'acqua del fiume a una grande profondità: poi l'orologio di una chiesa battè le otto e mezzo.

—Che cosa faccio qui?—si chiese improvvisamente.

Rifece i conti della giornata e di tutto quel mese: gli affari erano andati bene, non si rimproverava che di aver perduto centocinquanta lire al macao nel club di Forlì, secondo lui nel modo più sciocco, quando la partita stava per finire. Ciò gli accadeva qualche volta, perchè sentiva di avere il vizio del gioco, pur lottando abbastanza sicuramente contro di esso: ma quando si lasciava prendere, era sempre quella stessa vanità a spingerlo.

—Vale meglio buttarli con una donna! Se ne buttano meno e se ne sa meglio il perchè.

Un gruppo di signori forestieri usciva a piedi da un grande albergo nella sera fresca. Egli s'incamminò dietro loro per rientrare nelle strade più affollate ad affogarvi in qualche modo quelle tre ore, che gli restavano. Adesso il sangue gli ferveva. Una di quelle signore al braccio di un vecchio alto, dai favoriti bianchi, era di un biondo lucente anche nella notte, ma invece di un mantello indossava una giacca chiara, sotto la quale si sentiva tutta la molle eleganza della sua figura slanciata e sottile. Non sapendo una parola d'inglese egli poteva più facilmente fantasticare sulle loro orme: quindi seguì il gruppo a breve distanza, ma un signore si voltò, ed egli credette allora di aver commesso una imprudenza nell'avvicinarsi; poi vide la dama bionda rivolgersi sotto un fanale: era bella, benchè la distanza non gli permettesse di cogliere davvero i suoi lineamenti.

—Chissà quanti milioni ha quella gente, che per stravaganza si diverte questa sera ad uscire come me a piedi per le strade! Eppure vi sono signori italiani, che diventano gli amanti di quelle signore inglesi, delle quali il lusso supera perfino quello delle parigine; ma ciò non accade mai a Forlì o in altra delle nostre città di Romagna. Bisogna nascere a Firenze, a Roma, essere educato davvero come lo sono essi, per giungere a tali fortune. Invece io sono uguale a tutti i signori del mio paese, io figlio di un oste. Nessuno di loro sa condursi meglio di me o gettare più indifferentemente cento lire.

—Signore,—lo riscosse una voce.

Era di donna, col volto mezzo nascosto da un fazzolettone nero, che le sporgeva dalla fronte: non si vedeva dentro che una pallidezza bianca, e la figura stava curva.

Egli si arrestò.

—Signore, vuole venire con me?

L'accento e la voce erano umili: subito egli credette di aver compreso.

—Sentiamo: dove?

—Non molto lontano.

—Ma chi avete?

—Una ragazza.

Le sillabe le tremavano leggermente senza che egli se n'accorgesse. La volgarità dell'avventura aveva ridestato in lui tutti gl'istinti e le abitudini diffidenti del mestiere, mentre un orgasmo gli cresceva dentro, e per la strada deserta, punteggiata sino lontano dai fanali, l'ombra silenziosa metteva come un mistero.

—Ma voi chi siete?

—Sono della casa. Venga.

La donna fece un passo avanti. Adesso osservò che la sua figura era alta, benchè le spalle le si curvassero troppo facendole tenere la testa bassa: non aveva potuto vederla in viso, ma gli era sembrato di notare un gran naso sottile in quella pallidezza, che il fazzoletto chiudeva come in una cupa cornice. E la sua voce aveva strane intonazioni: egli ne rimaneva perplesso.

La raggiunse.

—Dove andate?

—A casa.

Una domanda bizzarra gli salì alle labbra, perchè sentiva confusamente che in quell'incontro era qualche cosa d'insolito, che lo rendeva diverso dagli altri di tutte le sere lungo certe strade, quando la gente comincia a diradarsi.

—Perchè avete fermato me? State lontano?

—Non molto: venga.

—La ragazza è bella?

—Sì.

Egli tornava a dubitare: questa volta si pose davanti alla donna:

—Mi condurrete invece da qualche brutta sgualdrina: per solito accade così. Se la ragazza fosse bella, come dite, non cerchereste per lei qualcuno nella strada, a quest'ora.

—È la prima volta.

—Via!

L'altra parve non badasse all'accento di quell'esclamazione.

—Lei è forestiero, ecco perchè.

—Come lo sapete?

—Me ne sono subito accorta al modo come ella andava guardando per la strada: poi alla pronunzia. Lei deve essere bolognese.

—Quasi,—ribattè sorridendo:

—Ebbene, andiamo.

Passarono il ponte Santa Trinità, ma appena nell'altro Lungarno egli si riaccostò vivamente alla donna. Non poteva capire perchè volesse precederlo invece di accompagnarsi con lui per vantare al solito le bellezze della ragazza. L'aria misteriosa della donna, le sue parole, il suo accento soprattutto, lo facevano dubitare di qualche cosa, che non sapeva indovinare.

—Perchè andate così in fretta? Io ho tempo, non parto che a mezzanotte.

Parliamo.

—Che cosa vuole?—chiese umilmente.

—È proprio la prima volta?—egli ridimandò colla stessa intonazione sardonica.

—Ella non lo crede: ho capito. Andavo innanzi io perchè potremmo incontrare qualcuno che mi conosca. Veda: nella nostra casa sono tutte persone per bene; bisognerebbe che nessuno si accorgesse della sua visita, anche per la povera Tina.

—Si chiama Tina?

—Sì: mi permetta di andare innanzi, mi fermerò in faccia all'uscio, lo lascerò aperto ed ella salirà. Solamente la prego di non fare rumore, siamo povera gente.

La strada era anche più deserta, non incontrarono che un gruppo di operai uscenti da una bettola: qualcuno di essi parve sospettare di quei due, che si pedinavano alla distanza appena di dieci passi, e allora egli si rattenne per riaccendere il sigaro. Le ultime spiegazioni della donna, quantunque così oscure, lo avevano mutato. La sua giovinezza non ancora abbastanza corrotta si ricordò confusamente di drammi visti o letti, nei quali una vera miseria travolgeva alla catastrofe altre donne ed altri uomini senza che ne avessero colpa; ed era un mistero antico, un modo continuo della vita, al quale si assiste sempre nella stessa impossibilità di esercitarvi una qualunque influenza. Ma se ne resta scontenti, anche quando si evitano i contraccolpi del danno; talora invece se ne profitta, e dapprima se ne ride, poi non molto tardi si finisce col provarne un vago rimorso.

Però questo non era in lui che un ondeggiamento oscuro, mentre sotto il pastrano il caldo gli cresceva con quel passo più sollecito e nel sangue giovane gli correvano nuovi fremiti. Fumava gittando in alto le boccate del fumo.

Svoltarono per un vicolo stretto e tortuoso: poco dopo ella si fermò ad una casetta.

—Vada piano, mi raccomando, non accenda fiammiferi,—gli disse dietro l'uscio appena fu entrato.

Le scale erano anguste e brevi: egli ne contò sei rami, poi all'ultimo pianerottolo la donna sospinse una porta, rinchiuse, ed accese un zolfanello. La stanzetta apparve nuda. Era la cucina, a giudicare dal camino largo e basso, ma non vi rimaneva che un tavolo nel mezzo, un canapè sgangherato in una parete, e un altro mobile indefinibile, una specie di canterano, dentro al quale stavano forse le ultime stoviglie.

Egli osservò subito che tutte le sedie erano spagliate.

—Si accomodi,—disse la donna a bassa voce, quasi tremando.

Ma egli restava nel mezzo, impacciato.

Quella miseria lo agghiacciava. La stanza non era sucida, anzi ai muri vi si vedeva ancora una carta chiara, a fiorellini oscuri, che le avrebbe data un'aria di lindura; ma le tende mancavano, e così vuota pareva anche più grande. Evidentemente si trattava di una di quelle miserie cittadine, pulite e guardinghe, che si nascondono lungamente, arrivando nel silenzio di tutti gli abbandoni alle più inverosimili estremità. Sulla tavola, dentro un candeliere di ottone dal piede slabbrato, bruciava una mezza candela sottile di stearica accanto ad un bicchiere d'acqua; il secchio in ferro bianco era rimasto sul focolare.

La donna si trasse di testa il fazzoletto.

Adesso appariva rossa, ma di un rossore fugace e violento. Aveva infatti quel gran naso, che a lui era parso di notare nella strada: era secca e scarna, colle guance infossate perchè le mancavano molti denti, gli occhi chiari e luminosi. Il suo aspetto non era senza una certa signorilità; aveva gettato con gesto nervoso il fazzoletto sulla spalliera del canapè, poi era tornata addietro per assicurarsi di avere ben chiusa la porta del pianerottolo.

Disse:

—Scusi, mi pare di averle già confessato che siamo povera gente: si accomodi,… ecco la sedia migliore,—aggiunse con un sorriso stentato:—se non fosse così, non si farebbero certe cose.

—Ebbene, dov'è la ragazza?—l'altro chiese impaziente per sottrarsi al senso penoso, che gli veniva da tutti quei particolari.

—Vado.

Ma non andava.

Egli si era sbottonato il pastrano sedendosi al tavolo, e guardava il bicchiere d'acqua; la donna se ne accorse e lo portò sul camino.

—Lei non parte che a mezzanotte per Bologna?—domandò ancora; ma pareva parlare solamente per guadagnare tempo.

—Sì: ma che fate qui? Perchè non avvisate la ragazza?

—Vado.

Una nube le oscurò la fronte, ed ella vi passò una mano tremante: l'altro invece aveva abbassato la testa per guardare l'orologio.

Poco dopo intese un lungo guaito infantile dal pianerottolo, sul quale dava senza dubbio un altro appartamento. Era un pianto di creaturina spaventata e disperata, che scoppiava in impeti violenti come se qualcuno tentasse di soffocarle tratto tratto i singhiozzi. Egli si alzò, malcontento di essere capitato in una simile casa, mentre aveva pranzato così bene e gli sarebbe stato facile procurarsi altrove qualche distrazione veramente piacevole.

Ma la porta si aperse.

—Che cosa è?—egli proruppe di malumore, vedendo ricomparire quella donna sola:—Vi sono anche dei bambini, che piangono, in questa casa? Non udite?

—Pur troppo, signore; è la bambinella della signora Veronica. Poverina! è ammalata di scrofola, e adesso il male le è entrato nell'orecchio; a certi momenti urla dallo spasimo.

—Non la curano dunque?

L'altra ripetè lo stesso sorriso.

—Anche quella madre è senza mezzi: dovrà forse vedersela morire innanzi così.

Ma la bambina si quietò.

Egli si era rimesso il cappello, quindi la donna temette che volesse andarsene.

—Vuole che l'aiuti a cavarsi il pastrano? A momenti Tina verrà: abbia un po' di pazienza.

Egli invece se lo trasse da solo con atto impaziente, e l'altra rientrò ancora da quella stessa porta in una camera buia. Probabilmente la ragazza era là.

Passarono altri cinque minuti. Egli non sapeva più che pensare nella stranezza di un tale caso, che gli aveva già turbato quel benessere dopo il pranzo, traendolo con una imprevedibile novità di sensazioni ad una confusa tristezza. Nato e vissuto troppo lungamente vicino alla miseria per non riconoscerla ovunque, al primo sguardo, non aveva più per essa che la ripugnanza di coloro riusciti finalmente a farsi strada più in alto. Anzi la recente agiatezza gli metteva nel legittimo orgoglio della vittoria un profondo disprezzo pei poveri incapaci di reagire contro la propria condizione sino a trionfarne in un modo o nell'altro. Perchè restare povero? Gli pareva che, volendo, si potesse sempre arrivare ad uno stato tollerabile.

—Adesso,—pensava,—preparano la scena. Eppure vi è qualche cosa di ben triste nel volto di quella donna non ancora vecchia! Chi è? chi sarà la ragazza? Quella donna non nacque così come si trova ora, ma nelle grandi città i casi e gl'inganni sono talmente complicati che bisogna aspettarsi a tutto. Se tenteranno una commedia me ne accorgerò.

La porta si riaperse: riapparve quella donna traendone per mano un'altra, che tenea la testa anche più bassa. Egli scattò dalla sedia.

La ragazza indossava una vecchia giacchetta a maniche larghe e rigonfie verso le spalle, con grandi risvolti, che avrebbero dovuto scoprirle il collo e la sommità del seno se non avesse tenuto il volto così basso; una gonna corta e miserabile le cadeva su due scarpe vecchie, ma i capelli castani, folti, scarduffati, le si alzavano come in nuvola sulla fronte bianca di un candore impressionante. S'indovinava la sua emozione dal tremito del braccio, che stringeva febbrilmente la mano dell'altra donna.

Questa si fermò, le diede una scossa liberandosi, e tornò indietro in quella camera buia senza parlare.

La porta si chiuse quasi violentemente.

La ragazza alzò la faccia.

Alla fiammella tremula della candela egli vide sotto quella fronte troppo bianca due occhi di un cilestro pallido, e una bocca piccola come stirata da uno spasimo nervoso; però il volto bello, di una delicatezza malaticcia, era fresco malgrado i cerchi bluastri, che rendevano più vivo lo splendore dello sguardo.

La giacchetta mal chiusa scopriva sotto il collo una bianchezza.

Egli non sapeva come incominciare.

—Accomodatevi qui, vicino a me.

L'altra ubbidì piegando nuovamente la testa.

Non poteva trattarsi di commedia: il volto della ragazza era così bello e così triste che altri meno giovani di lui se ne sarebbero egualmente commossi; e nulla in lei, dall'aspetto o dall'atteggiamento, tradiva una intenzione seduttrice, quel sottile, continuo inganno femminile, che non cessa mai, nemmeno nelle crisi più profonde della passione. Ma una dolcezza emanava dalla sua figura così ripiegata sulla seggiola, mentre dietro la nuca le si arruffava una quantità di ricciolini, che il soffio più insensibile avrebbe scomposto. Teneva le spalle un po' arcate e sotto le pieghe di quella giacchetta male abbottonata, dalle costure logore, il suo corpicino primaverile appariva in una forma indecisa.

Egli le guardò le mani sottili, distese sulle ginocchia con quella compostezza delle fanciulle quando seggono in chiesa.

—Ti chiami Tina?—incominciò prendendole una mano.

—Sì.

—Me lo ha detto quella donna: chi è?

—Mia madre.

E alzò la faccia: allora egli credette di capire che quegli occhi avevano pianto.

—Tua madre,—ripetè:—ma scusa, quanti anni hai?

Interrogava così a caso, tanto per parlare.

—Non ancora diciassette anni.

—Ti chiami Tina: hai fratelli?

—No.

—Il babbo?

—No.

—Solo la mamma?

—La mamma.

—E ti…

Ma non finì: adesso era lui, che sentiva un impeto quasi di collera salire dal sangue, però si trattenne guardandola fisamente. La faccia della fanciulla si era irrigidita in un pallore di marmo, e dietro i denti l'ombra della sua bocca socchiusa pareva palpitare.

Poi appoggiò un gomito sopra la tavola e la fronte sulla mano.

—Sei bella davvero!—esclamò improvvisamente.

Ma siccome l'altra taceva, proseguì:

—Hai detto la verità. Si vede subito che hai sedici anni, non puoi averne altri. Ti chiami Tina? È un bel nome, nel mio paese non conosco nessuna ragazza che si chiami così. È un nome fiorentino?

—Sì.

—Ma tu farai pure qualche cosa? Come vivete in questa casa?

—La mamma è stata ammalata tutto l'inverno, io andavo da una bustaia, ma ho dovuto smettere per curare la mamma.

—Il babbo?

—Non l'ho mai conosciuto.

—Ma la mamma che cosa faceva prima di ammalarsi?

—Andava in due o tre case a prestare mezzo servizio per non lasciare me.

—E prima?

—È stata quasi ricca, poi vennero le disgrazie: adesso non può fare più nulla, è troppo debole.

—Dovresti fare tu quei mezzi servizi, insomma la mezza serva invece di lei.

—Me non prenderebbero, sono troppo giovane.

—Come serva forse, ma per bambini.

Parlava duro, da uomo d'affari, colla precisione e la rapidità del colpo d'occhio nel mestiere.

—Dovrei abbandonare la mamma.

—E allora?…

Le teneva sempre quella mano fra le proprie, senza trarne una vibrazione. La fanciulla aveva risposto esattamente a quella specie d'interrogatorio, ma il suo viso rimaneva sempre immobile, nella stessa rigidezza lapidea, dentro la quale gli occhi brillavano come in una lontananza di notte azzurra.

—Non mi hai ancora guardato,—egli ricominciò dopo una pausa, accarezzandole la mano:—capisco che io non ti posso interessare, perchè non mi conosci. Hai l'amante?

La fanciulla titubò.

—No.

—Davvero, Tina? Mi pare difficile: che cosa fai dunque tutto il giorno?

—In due mesi sarò uscita di casa due volte, per un momento.

—Ma bisogna pur vivere.

—Abbiamo venduto a poco a poco tutto quello che avevamo.

—Nessuno vi ha aiutate?

—In principio sì, adesso più.

—Pare impossibile che si possa arrivare a questo: però qualche idea l'avrai.

Questa volta ella si strinse nelle spalle, e un sorriso dolente le ricomparve sulla bocca arida, parve cercare qualche cosa sulla tavola. L'altro indovinò.

—Vuoi il bicchiere dell'acqua? La mamma l'ha messo sul camino quando sono entrato io.

Si alzò per porgerglielo, la fanciulla lo respinse.

—Mi farebbe male.

—L'acqua! Perchè?

—Anche oggi ho voluto berne e dopo l'ho rigettata.

—Che cosa ti senti?

—Nulla.

—Avrai mangiato qualche cosa d'indigesto: che cosa hai mangiato?

—Nulla.

—Nulla, che cosa? Si mangia pure: da quando hai mangiato?

—Ieri mattina.

—E dopo?

Non rispose. L'altro si alzò nervosamente dinanzi a questa fanciulla, che lo dominava colla propria indifferenza, parlando a monosillabi come dentro a un sogno. Non pareva accorgersi di essere sola con lui in quella camera, sebbene fossero bastati pochi minuti per farle confessare tutta la vita.

—Chiama tua madre perchè vada fuori a comprare quello che vuoi, pago io. Che cosa ti piace? A quest'ora le botteghe sono ancora aperte.

—Adesso no, non potrei mangiare.

—Ma nemmeno lei, tua madre, ha mangiato?

—Più tardi, più tardi,—ella concluse stringendo le palpebre per frenare le lagrime, che le ricominciavano, e rialzò la testa con atto quasi violento. Erano gli ultimi guizzi, forse le ultime resistenze della sua volontà, mentre un'improvvisa paura le gelava il sangue, spegnendole quella luce lontana negli occhi.

Avevano già parlato troppo: a che scopo? Se ne accorgevano entrambi. Sullo stoppino della candela una larga bracia lasciava salire un tremulo filo di fumo turchiniccio: nella stanza l'aria pareva diventata fredda.

Il loro silenzio si allungava sotto la pressione di uno sforzo sempre più greve. Egli la guardò fisso facendola trasalire come ad una puntura: il seno le ansava, e sul pallore marmoreo della faccia parve ondeggiarle un brivido luminoso. Si sentiva sempre la mano stretta fra le sue con una violenza quasi dolorosa, mentre egli si agitava sulla scranna col volto mutato da una nuova fisonomia. Improvvisamente, colla testa pesante per quel digiuno di quasi due giorni, la fanciulla non seppe più pensare, come sotto una di quelle sensazioni di sonno così soverchianti nei bambini; un freddo le stringeva lo stomaco e un torpore le saliva simile ad un'ombra sino agli occhi. Poi le sembrò di vedere la luce della candela avvampare in un incendio, che subito si spegnesse.

Egli le aveva messo una mano sul collo scendendo ad accarezzarlo sotto il bavero della giacca, e col volto quasi sul volto glielo bruciava coll'alito.

—Dammi un bacio.

Ella glielo diede.

—Vieni,—proruppe con voce sorda, traendosela sulle ginocchia e perdendosele nel viso, nel collo.—La mamma te lo avrà detto; sei contenta, non è vero? Lo sai che sei bella? Dammi un altro bacio: sì, sei bella, il tuo aspetto è un incanto!—esclamò finendo colla mano convulsa di sbottonarle la giacca: ma si arrestò.

—Ah! non hai nemmeno la camicia, hai solo un corsetto.

Ella si rannicchiò dolorosamente ascoltando come una chiamata i guaiti della bambina, che ricominciava a piangere. Forse la creaturina si torceva fra le braccia della madre secondo il solito, finchè vinta questa pure da tale inutile tortura l'abbandonava o veniva dalle vicine a cercare aiuto. Adesso il pianto continuo, lento, pareva non dovesse cessare più.

La fanciulla ne tremava.

Poi un dolore acuto alla mammella sinistra, troppo stretta da una mano troppo pesante, le fece gettare un urlo, mentre l'altro abbracciandola subitamente alle reni la sollevava dalla sedia e col leggiero, grazioso corpo sul petto cadeva attraverso il canapè.

Ella si divincolò cogli occhi sbarrati, i denti stretti, così violentemente che dalle sue ginocchia scivolò quasi per terra: la pelle le bruciava.

—Eh! via,—gridò l'altro riafferrandola ai fianchi.

Ma essa lo guardava col petto nudo, il volto teso verso il suo nello sforzo di una parola suprema, che ne uscì come una fiamma.

—Sono vergine!

Poi le caddero le braccia, e rimase davanti a lui colla testa bassa, come un gran fiore falciato a mezzo. Egli stava sul canapè senza capire, colle ginocchia aperte e il volto smorto di un pallore, che gli si faceva più bianco intorno agli occhi.

E quel pianto della bambina seguitava sempre.

Con gesto freddoloso la fanciulla si restrinse i risvolti della giacca sul petto nudo senza osare di scostarsi. Perchè aveva fatto così? La mamma aveva udito? Ma una crispazione dello stomaco la fece ancora traballare piegandole il busto; l'altro la sostenne con una mano.

Quindi le prese fra le palme il volto per guardarlo un'ultima volta:

—Ti credo, ma tua madre è infame. Prendi.

Trasse dal portafogli quattro scudi.

—Fammi lume, che me ne vada subito: potrei pentirmi.

Ella prese la candela dal tavolo, l'altro era già all'uscio.

—Salvati se puoi,—le disse voltandosi nell'uscire.

Quando Tina tornò nella cucina fu sorpresa di non trovarvi la mamma; i quattro scudi erano ancora sulla tavola, ma la porta della camera si riaperse tosto.

Nessuna dello due trovò una parola: la mamma si accostò alla tavola, prese le quattro carte, esaminandole, senza che dal volto le trasparisse alcuna emozione.

—Oh! mamma, non potevo!—esclamò finalmente la fanciulla, gettandole le braccia al collo in uno scoppio di pianto senza lagrime.

L'altra l'accarezzava sulla testa.

—Calmati, Tina, hai fame? Adesso possiamo mangiare.

—No, no.

Ma quelle carezze la calmavano. Finì di abbottonarsi la giacca, si strinse la gonna sui fianchi perchè sentiva freddo e un gran bruciore di sete.

—Che cosa vuoi? dimmelo e vado fuori a prenderlo.

—Non ho fame, piglia tu quello che vuoi.

E le porse il fazzoletto nero.

—Non sei in collera?

—No, figlia mia. Lo so, è triste, per adesso non ci pensiamo. Dimmi piuttosto: vuoi che ti porti una costoletta cogli spinacci? Al Pavone è ancora aperto certamente: dammi la boccia del vino; ti occorre qualche cosa di caldo?

—Ma tu dunque?

—Di me non ti preoccupare.

La mamma aprì quel mobile strano, ne cavò un tovagliolo, una boccia di vetro bianco dal ventre grosso.

—Ti porterò degli aranci: quelli ti piacciono.

—Sì, piacciono anche a Bettina: comprale due o tre soldi di cioccolatini, andrò io a portarglieli. Non odi come dura a piangere? La signora Veronica sarà ancora alzata.

—Avrà udito quel signore andarsene.

—Era ben brutto, sai,—le sfuggì con un gesto di ripugnanza.

—No, t'inganni; era una persona per bene. Non è facile trattare come lui.

La fanciulla ridivenne pensierosa: aveva temuto un rabbuffo e quella condiscendenza le dava adesso una nuova emozione.

—Vado, sì.

—Porta teco il lume, lo lascerai in fondo alle scale.

—No, quel signore non ha chiusa la porta perchè non ne ho udito il tonfo. Giù al primo piano gli Arrighi, che sono sempre desti, se ne saranno accorti.

Questa preoccupazione cresceva in loro di minuto in minuto: per vincerla Tina spinse l'altra verso l'uscio, ma qualcuno batteva leggermente la porta del pianerottolo. Era la signora Veronica.

—Siete alzate ancora? Non mi sano ingannata,—disse colla sua voce chioccia ed insinuante:—Uscite, signora Adelaide? Terrò io compagnia alla Tina finchè torniate, o verrà lei da me. La bambina non vuol quietarsi.

—Ho detto alla mamma di comprarle dei cioccolatini; vedrete che si calmerà.

—Allora andate, aspetteremo,—l'altra si affrettò a rispondere, tirandosi da parte per lasciarla passare; e l'ascoltarono discendere le scale con un passo così lieve che appena lo si udiva.

* * *

Appena furono nella cucina, la fanciulla andò al camino e bevve d'un fiato tutto quel bicchier d'acqua.

L'altra guardava sempre coi grandi occhi grigi di gatto nel viso tondo e grasso dalle labbra sporgenti. Era vestita di un vecchio abito di flanella a righe scure, dentro il quale il suo corpo pareva insaccato; e infatti la carne le si ammassava ai fianchi sopra la guaina lenta della sottana, mentre le mammelle non sorrette dal busto cadevano mollemente sul ventre, confondendovisi.

Con un gesto abituale si grattò sopra la fronte fra la discriminatura dei capelli.

Ma Tina aveva paura di parlare dinanzi a lei che forse aveva già giudicato. Nella sua testa pesante pel digiuno quella disgrazia interrotta da un mirabile caso diventava quasi più dolorosa nella immutata certezza dell'indomani, e la fanciulla tornava a tremarne, come se ancora sentisse sul collo il soffio caldo di quell'uomo, che le frugava violentemente nel seno. Poi si ricordò la sua esclamazione: oh non hai nemmeno la camicia! provandone nuovamente la stessa vergogna, più acuta forse che di essere stata così fra le sue braccia, quantunque egli dovesse avere già prima indovinato tutta la loro miseria.

Ma anche la miseria ha limiti, oltre i quali il suo dolore raddoppia.

Le sfuggì un sospiro.

La signora Veronica disse:

—Dove è andata la signora Adelaide? Al Pavone?

—Sì.

—Ditemi che cosa le avete ordinato.

—Io! nulla.

—Avete torto di trattarvi così; al mondo bisogna stare meno peggio che si può, adesso mangerete, appena torni la signora Adelaide. Vedrete che sa scegliere.

Dall'altro appartamento si udiva sempre il pianto sommesso della bambina. La piccola voce non cresceva, non diminuiva, simile a quella di un rivolo, che s'ingorghi in una chiavica; ma forse per questo la fanciulla ne provava una impressione sempre più penosa.

—Che cosa ha stasera Bettina?

—Il solito.

—Povera piccina!

—Che cosa volete farci? Io non ci posso nulla, ma finirà coll'addormentarsi per qualche ora lasciandomi dormire. Oggi le avevo fatto una zuppa col latte, che le piace; non l'ha voluta.

—Non si può mangiare certe volte.

—Eppure non serve a nulla star digiuni, perchè dopo vi sentite peggio. Vedete, io soffro di vedere così la mia bambina, ma mi faccio forza a mangiare quando ne ho, altrimenti se non mangiassi che cosa accadrebbe? Mi ammalerei anch'io e non potrei più aiutarla. Bisogna essere ragionevoli.

Parlava adagio scandendo le sillabe, e la sua fisonomia pareva buona malgrado l'egoismo delle parole.

Tina la conosceva sin dal primo giorno, nel quale era diventata la loro vicina, e non l'aveva mai veduta esaltarsi davanti al lungo atroce martirio di quella creaturina, che espiava così i vizi del padre. Anzi la signora Veronica lo aveva subito spiegato col suo accento tranquillo: ella era senza colpa di quel male di quella miseria, nella quale avevano dovuto cascare; perchè dunque se ne sarebbe arrovellata soffrendone maggiormente? Poi la bambina non poteva vivere, i medici stessi lo avevano assicurato. I rimedi, se avesse potuto comprarli, non le sarebbero stati di alcun giovamento; valeva dunque meglio spendere altrimenti quei danari, qualora capitassero.

Tina si alzò.

—Dove andate?

—A vederla.

L'altra tacque.

Allora, davanti a quella indifferenza, l'orgasmo le cadde: tornò a sedersi. Ma Tina si avvide che l'altra la scrutava con quegli occhi grigi, pieni di una luce fredda. Infatti il viso della fanciulla era così alterato che sarebbe stato impossibile non accorgersene: tratto tratto dal fondo delle sue pupille azzurre una fiamma dardeggiava come sotto un soffio; aveva le labbra livide e il seno le ansava. Adesso l'ombra di quei due cerchi sotto gli occhi le si allargava per le guance, confondendosi colla oscurità della bocca.

Nessuna delle due parlava più.

La ragazza sentiva che l'altra non avrebbe potuto accettare il racconto di quella inverosimile fortuna: d'altronde la cosa avverrebbe egualmente; domani, posdomani? Come spiegare la cena, che la mamma avrebbe portato fra poco? Anzi tale elemosina troppo grossa diventava un nuovo motivo d'incredulità, mentre domani un altro, il secondo, non farebbe certamente così: e allora? La sua testa si confondeva, il sangue tornava a batterle sul cuore con lunghe onde spaventate.

Tina distinse lo scalpiccìo della mamma.

Appena nella cucina la signora Adelaide respirò rumorosamente, ma ansimava: dal tovagliolo chiuso nel suo pugno colle quattro cocche riunite un odore vaporava sottilmente.

—Buono!—esclamò la signora Veronica, levando il naso all'aria.

—Vedrai, Tina,—rispose la mamma con una certa volubilità nella voce,—vedrai che bella costoletta sono riuscita a portarti. Era l'ultima, a quest'ora, che restasse nella cucina, poi vi ho fatto io stessa un contorno di patate arrostite nella leccarda col ramerino. Guarda: ho anche una doppia porzione di maccheroni e del lesso di manzo.

—Non vi sarete già dimenticata i cioccolatini?

—Ti pare?

E trasse da una tasca profonda della sottana una bottiglietta bianca, piena di un liquido rosso.

—È alchermes, ne berrai un sorso dopo cena, perchè il vino non è gran cosa: però ho dovuto pagarlo in ragione di quarantadue soldi al fiasco. I ladri! scommetto che non ne costa loro più di venti.

Ma Tina si era già alzata, prendendo dal tavolo il piccolo cartoccio dei cioccolatini.

—Dove andate?—la fermò la signora Veronica:—Bettina si è quetata.

Infatti era vero. Allora le due donne apparecchiarono la cena, distesero una mezza tovaglia abbastanza bianca, trovarono dei piatti, dei bicchieri, delle posate; nel mezzo della tavola il tovagliolo copriva ancora colle punte riunite tutta la cena, solo il pane ne rimaneva fuori, una grossa pagnotta dorata, che la signora Adelaide aveva portato sotto il braccio.

—Andiamo, signora Veronica,—disse la mamma,—favorite con noi: c'è poco da assaggiare, ma qualche cosa c'è.

La signora Veronica fece un gesto dignitoso di riserbo, ma l'altra, che la conosceva, le spinse innanzi un piatto colla posata migliore, poi accarezzò la testa di Tina. Evidentemente la testa scottava, perchè alzò subito la mano e una incertezza le passò sulla faccia pallida: la sua fronte si curvò un'altra volta umilmente.

Tina, col capo appoggiato sulla palma sinistra, guardava nel vuoto.

—Adesso bisogna cercare dentro il tovagliolo,—proruppe allegramente la signora Veronica;—non basta aver capito dall'odore. Volete che faccia io? Una volta ci avevo un certo garbo.

E senza attendere il permesso sciolse le punte del tovagliolo.

—Tò! anche degli aranci, me n'ero accorta al profumo. Vedete, Tina: il lesso grasso e magro, questo è davvero una cosa eccellente, perchè è proprio un pezzo di lombata: così freddo è anche migliore. Invece i maccheroni bisogna mangiarli subito, altrimenti nell'agghiacciarsi perdono il sapore, e poi si aggrumano. Ne convenite, signora Adelaide? Avete però scelto bene. Oh! Oh!—seguitò levandosi in piedi dalla meraviglia nello scoprire il piatto della costoletta:—le belle patate spruzzate di ramerino, belle, color d'oro!

Anche Tina guardava.

—Osservate,—proseguiva l'altra con più seduttrice intenzione, volendo farla ridere ad ogni costo,—non vi sono molte donne a Firenze di un biondo dorato come questa costoletta e queste patate, ma nelle donne a me il biondo non piace. Meglio i vostri capelli castani così graziosamente arruffati,—e glieli accarezzò colla mano corta e pesante.

—Via, bisogna spicciarsi coi maccheroni!

—Tina, Tina, mangiate, e anche voi, signora Adelaide; io proprio non ho fame, piuttosto, se permettete, assaggerò il vino.

Ma a Tina i bocconi non andavano giù: quindi finì per immergere qualche crosta di pane nel vino, mentre le altre due divoravano. Anche la mamma pareva affamata, e la sua faccia melanconica si veniva rischiarando, sebbene dalla tristezza della figlia salisse sempre verso di lei una certa inquietudine.

—Che volete?—diceva la signora Veronica, la quale aveva già finito la propria parte di maccheroni e guardava con lunghe occhiate la costoletta:—io, da giovane, ho avuto sempre un debole per le cene a notte tarda, magari fuori di casa. Mi pare che così si chiuda meglio la giornata: poi si cena sempre con qualche giovanotto allegro, si ride, si dimentica. Se al mondo non ci scordassimo le disgrazie, si dovrebbe morire presto. Quando si cena in compagnia,—e spiava di sottecchi Tina,—è un caso che qualcuno non ci piaccia più degli altri, ma bisogna essere giovane come voi, ragazza mia, per potersi divertire. Ecco, taglierò la costoletta in tre parti, ne mangerete una anche voi, Tina.

Questa fece un gesto di rifiuto, e l'altra chinandosele con una finta carezza all'orecchio sussurrò:

—Avete male?

La fanciulla trasalì e rispose quasi violentemente:

—No.

Successe un silenzio.

La mamma, non osando parlare, accettò dalla signora Veronica la propria parte di costoletta; nel piatto ne rimaneva ancora un pezzo con alcune patate per Tina, ma questa ascoltava nuovamente il pianto della bimba, che il dolore all'orecchio aveva destato. Pareva un cagnino che uggiolasse, e il suo lamento era così monotono che non vi si intendeva alcun appello. Soffriva indarno, abbandonata. Tina ci pensava con un senso quasi di rancore crudele, mentre poco prima il suo cuore se n'era commosso sino a piangere dentro di tenerezza. A che pro? Nella vita v'è sempre qualcuno che nasce non si sa perchè, solamente per soffrire i capricci degli altri, che lo allevano anch'essi senza motivo, perchè questo è l'istinto. Bettina aveva pianto sino dal primo giorno; quindi la madre vi si era abituata e, senza essere peggiore delle altre, non aveva per lei che i riguardi, coi quali si trattano i cani ammalati: una certa condiscendenza soccorrevole, che fa piacere a chi l'esercita come una prova della propria bontà. Null'altro: se il cane guarisce, il trattamento ridiviene quello di prima. Tina non si ricordava di essere mai stata ammalata, sebbene non avesse mai avuto troppa vivacità, e adesso le pareva di non sentire da moltissimo tempo il bisogno di mangiare. A che cosa serviva dunque comprare una simile cena, quando non si riusciva a mandarla giù? Invece le altre due avevano fame: ella le guardava senza dispetto e senza invidia, quasi con una pietà, che non avrebbe saputo spiegarsi, nel vederle così incapaci di comprendere la sua angoscia di quel momento. Anch'ella era sola come Bettina, quantunque non guaisse, non piangesse; ma invece aveva un gran freddo sotto la sottana, mentre quel piccolo dolore alla mammella si faceva sempre più sottile come se un ago ne forasse tratto tratto il tenero bocciolo.

—Mangia dunque quest'ultimo pezzo di costoletta, altrimenti ti riprenderà il male di stomaco,—disse la mamma.

—La mamma ha ragione, cara mia: bisogna mangiare, altrimenti le cose si veggono anche più in nero. Vedete, quando io ho mangiato, e adesso non avevo fame, considero le mie circostanze sotto un altro punto di vista: mi pare che qualche cosa verrà ad aiutarmi.

—Che cosa vi aspettate?—chiese la ragazza.

—Non lo so, non sono come voi, che potete ancora sperare tutto. Voi siete bella.

—Ah! questo poi sì,—esclamò la mamma.

—Alla vostra età non si ha che a volere. Io e la signora Adelaide non siamo più donne… mi scusate eh! signora Adelaide, mi è sfuggita. Quando si è giovane invece, e per giunta si è bella, gli uomini diventano matti per noi, si può fare qualunque fortuna. Un po' di testa, ecco il necessario, e si arriva dove si vuole. Allegri, Tina!

Questa non potè difendersi da un sorriso.

—Così voglio vedervi.

La madre ne profittò per spingerle davanti il piatto, ma la ragazza lo passò alla signora Veronica e prese un arancio.

—Badate,—osservò questa,—forse non sapete il proverbio siciliano: gli aranci al mattino sono di oro, a mezzogiorno di argento, la notte di piombo. Siccome avete lo stomaco quasi vuoto, potrebbe riuscirvi indigesto.

—Lo sbuccio soltanto.

—Siete anche voi di quelle che si divertono a masticare la buccia?

Fuori un orologio suonò le undici.

—È tardi, ma ci siamo fatte buona compagnia.

—Restate, restate,—ribattè Tina:—non ho sonno. Tu, mamma, se vuoi, va a dormire.

—Figurati: aspetterò quanto vorrai.

—Che cosa ci diremo dunque?—interrogò con un risolino la signora

Veronica, finendo di vuotare il bicchiere.

Anche la boccia era oramai vuota.

Questa domanda parve cadere pesantemente sulla tavola: allora Tina si alzò dirigendosi al buio verso la camera della piccina, nella quale sapeva che un lucignolo bruciava sempre.

Le due donne rimaste sole si guardarono: la signora Veronica aspettava una confidenza, e siccome l'altra taceva, disse:

—Tina non soffre affatto, l'ho notato subito, ma bisogna farla mangiare.

L'altra esitava:

—Domani mangerà, quando le sarà passata la prima impressione, perchè non le è accaduto nulla. Quel signore non le ha dato che un bacio e se n'è andato subito.

—Oh! davvero? Era giovane?

—Sì, forse nemmeno venticinque anni.

—Ecco perchè è impossibile: i vecchi invece…

Si vedeva che avrebbe voluto chiedere altri particolari, ma sapendo che o prima o poi non le sarebbero mancati, aspettava.

—Bene, bene, adesso se avessimo del fuoco, io ho in casa un poco di zucchero, bisognerebbe farle un punch caldo con l'arancio per rimetterla in sesto: il punch dolce di alchermes è eccellente.

—Non c'è fuoco.

—Un vero peccato.

Non si udiva più la piccina piangere.

—Ella l'ha calmata, sono due bimbe che s'intendono,—disse con un sorriso la signora Veronica:—non avete più sete, signora Adelaide? bevete: a che pro lasciare l'ultimo gocciolo nella bottiglia? Tanto domani ne comprerete ancora, non è vero?

—Domani certamente, ma e dopo?—aggiunse smozzando la voce.

—La fortuna va presa donde viene e come viene: ecco Tina che ritorna.

La signora Veronica guardandola camminare credette di riconoscere la verità di quanto la signora Adelaide le aveva detto, e se ne sentì dentro tutta commossa. Possibile che esistessero, ancora uomini simili! Sono fortune incredibili, proprio da festeggiare con una cena: dopo bisogna rassegnarsi a passare sulla strada comune, dove passano tutte, lasciandovi quello che si ha di meglio, la bellezza, e finalmente la pelle.

—Assaggiate l'alchermes, Tina, vi spremeremo dentro un po' di arancio e vi farà bene.

—Come volete.

—Bettina?

—Si è subito calmata: le ho messo un cioccolatino in bocca per ricompensa. Vedrete che si addormenta.

—Così dormirò anch'io.

* * *

Sul pagliericcio accanto alla mamma Tina invece non dormiva.

Siccome la griglia era rimasta aperta, la luce della notte diventava più serena, entrava pei vetri a rischiarare la camera. Sul letto non avevano che una vecchia coperta imbottita, dalla quale nel giorno si vedevano uscire per gli strappi i ciuffi biancastri della lana, ma in quella stagione, già mite, era più che sufficiente. Anzi Tina, cacciandovisi sotto, ne aveva provato sulle prime una inconsueta oppressione.

Poi la madre aveva insistito per sapere che cosa desiderasse l'indomani, perchè di quei quattro scudi le rimanevano ancora diciassette lire, una somma relativamente enorme nella loro abituale miseria; ma la ragazza non aveva più voglie.

Il suo spirito era rimasto come sconnesso dalla violenza di quella scena senza che dal cuore le si alzasse alcuna voce di rimprovero contro la mamma, giacchè tutte e due si amavano ancora con la tenacità così frequente nelle vite povere, che condensano in uno solo tutti gli affetti. La fanciulla infatti non si ricordava quasi più i giorni lontani, dai quali lo stormo delle speranze aveva potuto involarsi gaiamente pel cielo, ma dopo era sempre stato presso a poco così, una caccia ostinata ed infelice ai pochi soldi della loro esistenza quotidiana, discendendo nella miseria come dentro ad un pozzo oscuro, nel fondo del quale un'acqua morta rifletteva le loro due figure.

Improvvisamente la mamma si volse: con ambo le mani le prese il collo e la baciò silenziosamente.

—La tua mamma! Le vuoi bene, Tina, non è vero?

L'altra rispose con un bacio.

—Non era per me, non era per me: seguitava con voce piagnucolosa, ma non posso più vederti così. Poi vedi che ho ragione; ci sono degli uomini generosi, che s'innamorano davvero e diventano capaci di qualunque sacrificio per una donna. L'essenziale è di uscire da questa miseria, che toglie ad una donna qualunque valore, perchè, te l'ho detto cento volte, gli uomini vogliono potersi vantare della loro amante. Sono tutti vanitosi, anche quando amano: sciaguratamente quel signore non è ricco.

—Come lo sai?

—Me ne sono accorta subito alle maniere, a quel certo non so che dei veri signori. Ma egli è giovane, dev'essere buono, tornerà.

—Tornerà!

—Ti piace? È brutto, me lo hai già detto.

—Sì, sì, brutto.

L'altra tacque, poi stringendosele ancora più addosso ripigliò:

—Hai ragione. Però, Tina mia, un uomo non è mai come ci pare la prima volta: bisogna conoscerlo, e poi mutiamo anche noi a suo riguardo. Egli è brutto, ne convengo. Lo hai guardato nella faccia quando ti ha dato i quattro scudi e ti ha detto: vado via, fammi lume subito perchè potrei pentirmi?

—No.

—Io ho sentito che la sua voce tremava: ero coll'orecchio incollato all'uscio.

Tina fu scossa da un brivido.

—Ho paura, ho paura.

—Sì, figliuola mia, come sarebbe diversamente? Ma tornerà, a quest'ora è già innamorato di te, altrimenti non avrebbe potuto agire così. Pochi, sai, Tina mia, ben pochi avrebbero saputo resistere alla tentazione con te: ci vuole un po' di cuore per questo.

—Ma se mi vedeva la prima volta!

—Non importa, è così. Peccato che egli non sia ricco.

Dopo una pausa la ragazza disse improvvisamente:

—La signora Veronica ti ha mangiato tutto.

—Sì, è il suo solito: lo sai che è golosa.

—Ma essa mangia tutti i giorni: ne sa cavare dei danari, non è come noi.

—Hai ragione,—l'altra rispose tristamente:—e tu hai fame? Come ti senti?

—Sto meglio.

—Cerca di dormire.

—Sì, anche tu.

Si baciarono: poi la mamma le chiese ancora, prima di voltarsi sull'altro fianco:

—Mi vuoi bene?

—Oh mamma!

* * *

Ma un'ora dopo Tina piangeva silenziosamente col volto dietro la schiena della mamma addormentata.

Senza intendere bene il perchè, la fanciulla si sentiva vinta da una profonda pietà di se stessa. Le sembrava quasi che la vita si distaccasse dalla sua anima come qualche cosa, che non le apparteneva più e che un altro poteva prendere fra le mani con la indifferente crudeltà dei fanciulli, quando nella effervescenza di un capriccio smembrano un piccolo animale.

E anch'essa era così, perduta in un pericolo mortale, con un freddo di febbre nelle carni, che la faceva tremare di paura, pur sapendo di essere amata dalla mamma con una tenerezza, della quale non aveva mai dubitato. Ma le condizioni della vita non avevano mai permesso loro di potere come tante altre donne abbandonarsi alla negligente sicurezza che l'indomani sarebbe come l'oggi; invece ogni mattina ricominciava il medesimo problema con la necessità di mangiare, di vestirsi, di avere le scarpe, e il terrore di ammalarsi sprovviste di tutto come in quell'ultimo inverno, quando la mamma era rimasta a letto quasi due mesi. Era stata un'agonia lenta, muta: le notti diventavano più lunghe, i giorni non finivano più. Avevano dovuto a poco a poco vendere quasi tutto, rimanendo senza materassi, senza lenzuoli, quasi senza camicia: ella non ne aveva che due così rappezzate che si vergognava d'indossarle: ecco perchè quella sera non aveva indosso che un corsetto della mamma; ma le scarpe non le permettevano quasi più di uscire.

Mentre piangeva così raggomitolata sotto le coperte, non si ricordava più distintamente di nulla: era soltanto una tristezza simile a quella che debbono provare i prigionieri a certe ore, quando ripensano che non usciranno mai di carcere o che uscendone non troverebbero più alcuno ad aspettarli. La scena stessa, violenta e fortunata, nella quale la sua giovinezza era quasi perita, le si confondeva nella memoria sotto uno sgomento di sogno. Poi rivedeva ancora quell'uomo giovane, che l'aveva accarezzata sino all'ultimo momento, gittandosi su lei con le mani febbrili; ma anche allora i suoi occhi accesi sorridevano e le sue mani nel farle male non erano come quelle della mamma, le poche volte che da piccina l'aveva percossa. Improvvisamente, come se una fiamma l'investisse, si era sentita ardere sino dentro la carne, colla testa assordata da un tumulto, mentre dal fondo dell'anima una ripulsa acuta, spasmodica, le saliva impetuosamente alle labbra facendola urlare, E aveva gridato nella difesa della propria vita, disperatamente.

Eppure sapeva già tutto.

Anzi si era preparata al sacrifizio ascoltando molti giorni prima le esortazioni della mamma e i consigli indiretti della signora Veronica. Ma la sua giovinezza, troppo diversa da quella delle fanciulle cresciute nelle famiglie oneste o nei conventi, se conosceva già le miserie e le vergogne della vita, non ne aveva ancora perduta l'ingenua delicatezza, poichè la primavera sonnecchiava nel suo bel corpo pallido come in uno di quei fiori cresciuti nascostamente senza sole.

Così una ripugnanza di spavento e di orrore le faceva quasi credere di dover subire una mutilazione, qualche cosa di avvilente e di straziante come sotto il ferro di un chirurgo, che vi taglia la carne, e dopo si resta per tutta la vita deformi davanti al sorriso della gente. Perchè dunque le si voleva imporre questo? La mamma aveva parlato tristamente, mentre la signora Veronica ne sorrideva come di una cosa inevitabile, alla quale si volesse dare troppa importanza: secondo lei si trattava soltanto di cavarne tutto il vantaggio possibile.

Olocausto

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