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Capìtolo VI.
KARA-KIRI.

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Mi scosse una tènue ombra nera che intercettò la luce; mi scosse una tènue voce che mi chiamò per nome gioiosamente, con un: — Voi qui?

Guardai con immenso stupore.

Era la signora X***. Ma io dirò semplicemente Mimì: un nome che mi gravò per molto tempo sul cuore e lo fece sobbalzare.

Risposi infine anch'io:

— Voi qui? — Il cuore mi aveva dato un sobbalzo.

— È il nostro mese di riposo — ella disse. — Ma voi cosa fate qui a Bologna?

— Cosa faccio io qui? È ben quello che non so. Aspetto il giorno che verrà per partire.

Mi guardò stranamente, quasi con una spècie di compassione. Poi disse:

— Sentite — e mi chiamò ancora con dolcezza per nome —; ho bisogno di voi. Non me lo negate questo favore....

— Io rimango, signora, qui a Bologna, sino a mezzodì di domani, anzi di oggi — risposi guardando il quadrante dell'orològio. — Se in questo tempo vi posso èssere ùtile, ben volentieri.

— Caro (e ripetè il mio nome), io so che adesso voi siete letterato....

— Chi vi ha detto queste cose?

— Non avete voi scritto dei libri?

— Ma sì, qualcosa del gènere, ma per combinazione. Voi dicevate, Mimì, che avete bisogno di me?

— Ah, sì! Allora venite domattina, verso le dieci, a casa mia....

— Verso le dieci? A casa vostra? Bene. Voi dove state di casa?

— Come, non ricordate più? Via Avesella.

— Sempre lì?

— Sempre lì.

— Allora alle dieci....

Ella disse:

— Io vi trovo abbastanza bene.

Ed anch'io di rimando le dissi: — Io vi trovo bene: — ma automaticamente, come si dice di lùglio: «quest'oggi è caldo», o di gennaio: «quest'oggi è freddo».

Ella mi voleva presentare alla sua compagnia, ma la pregai di dispensarmi.

— Cosa credete di farmi un onore presentàndomi come letterato, un letterato vostro amico? Voi vi sbagliate.

Dopo di che lei tornò al suo tàvolo, fra la sua compagnia. Io assaggiai di nuovo il gelato ed anche il mio cuore. Qualche pulsazione irregolare e nulla più. Ma probabilmente esse provenìvano dallo stupore di sentirmi ancora chiamare col sèmplice mio nome di battèsimo, e così dolcemente. Ohimè, è da due anni che il mio nome di battèsimo io non lo sento più ripètere; e, forse, non sarà più ripetuto.

E sollevando ogni tanto gli occhi, vedevo, presso il tàvolo di fronte, il visetto di Mimì: esso sorgeva da una collarina bianca, sopra una sèmplice veste nera; ed una cuffietta moderna lo incorniciava con molta gràzia. Quel visetto era, o mi pareva, press'a poco uguale come l'ùltima volta che lo aveva veduto, molti anni fa. È colei Mimì, o è l'ombra di Mimì? E se è lei, che cosa vorrà da me? Pensare che per molti anni il ricordo di Mimì mi diede palpitazioni violente. Ora tutto era quieto.

*

Non c'è dùbbio, pensavo al mattino seguente vestèndomi, che l'indivìduo che è riflesso in questo spècchio, è la continuazione di me stesso, cioè di un ùnico indivìduo, vivente ora e vissuto anche molti anni addietro. Eppure io sono un pìccolo cimitero.... in attività di servìzio. La pìccola Mimì giaceva in una delle arche del mio cuore: io la credevo ben morta. Essa è risuscitata, perchè è un fatto che la donna la quale ieri sera mi salutò così dolcemente per nome, è proprio Mimì.

Pensare tanti anni fa, quando io avevo vent'anni! Io ero òrfano di babbo, e vivevo così poveramente che spesso era necessàrio saltare la colazione; la mia pòvera mamma, i miei fratelli piccini.... Ebbene, io volevo sposarla, Mimì, sposarla col sìndaco, col prete, col còdice, con tutti i più lùgubri utensili del matrimònio.

Questa cosa, a pensarci bene, depone in favore della mia precoce imbecillità, ma può èssere istruttiva, e perciò parlo di me. Io esprimevo tutto il mio amore decretando di fare kara-kiri. Non potendo farle omàggio di una collana di brillanti, le facevo omàggio di me stesso, mi immergevo nel ventre il jatagan del matrimònio; mi sposavo, in una parola, e tutto ciò con la impassibilità con cui i Samurai fanno kara-kiri in onore del loro Mikado. Certo non dissi allora: «Mimì, io fàccio kara-kiri per te!» perchè queste cose avvenìvano molti anni prima della guerra russo-giapponese, e il Giappone non era molto conosciuto. Ma dissi a Mimì: «Ti sposo!» cioè ti faccio omàggio di me stesso. È un modo di manifestare l'amore sui venti anni, e ciò è accaduto anche a persone meno imbecillite di me.

Senonchè Mimì rimase così turbata di trovarsi coinvolta in un fatto di tanta gravità, che rifiutò. Un'onesta fanciulla, in fondo: una onesta, una non comune fanciulla.

Ella era, allora, una pìccola pàllida sartina, precoce, venuta al mondo con due enormi tondi occhi colmi di curiosità, un nasetto impertinente, belle labbra sane a cuore, e gusti eccezionali. Le compagne la chiamàvano marchesa Stracciolini. Ah, se io, a quegli anni, avessi fatto qualche scàndalo, Mimì mi cadeva bell'e cotta sul piatto. Ma io ero un sàggio giovanetto e le offrivo il matrimònio.

Però che màggio allora in Bologna! Tutte le sue torri èrano rosse, tutte sventolàvano orifiammi e gonfaloni; ed i versi di Guido bolognese (si spiegàvano allora in iscuola) dove dice di madonna Lucia che portava così bene in testa un cappellino di vajo:

Chi vedesse Lucia un var cappuzzo

In co' portare, e come le sta gente,

mi dàvano la nostalgia dell'amore in tutti i sècoli. Mimì portava un berrettino di lapin bianco! Come le stava gentilmente tuttavia! Mimì a me pareva come la regina di Bologna, e il visetto suo bianco mi pareva dealbato col misterioso issopo. Era forse un po' di volgare paciulì. Quella Mimì bolognese che sapeva di paciulì! Ella non era nè più nè meno di tante altre; eppure io non la potei più scompagnare da quella cosa innebriante che è la giovinezza.

Poi ella si diede all'arte drammàtica; reginetta di palcoscènico; giacchè era pur destino che ella finisse regina di qualche cosa: io diventai travet, e poi andai a far kara-kiri altrove.

Ma confessiàmoci senza vergogna: quante volte di poi, fra la gente, cercai quel pìccolo volto stellante ed il cuore balzò ogni volta che scoprii un nasetto all'insù fra due occhi tondi, che rassomigliàssero a lei. Quante volte mi aggirai per le tue vie più vècchie, o Bologna; e nel lamento dei tuoi organetti, nella fisonomia dei tuoi pòrtici, nel suono del tuo dialetto, cercai l'ombra di un sogno. Ohimè, le tue torri èrano diventate tutte grige, non c'èrano più gonfaloni; il tuo dialetto già così soave al mio cuore, mi suonava come uno sguaiato dialetto; i tuoi orbini che suonàno gli organetti, èrano lùridi; le tue pastine dolci (una cosa che Mimì accettava) sapèvano al mio palato di melassa e di stucchèvole vanìglia, come quel gelato della sera prima.

«Tuttavia converrà andare — pensavo —, giacchè ho promesso. Ma quale che sia la cagione perchè tu hai bisogno di me, non mi offrirai mica un bàcio, Mimì! nè io lo offrirò a te. Due mezzi sècoli, quasi, che si bàciano. Oibò.»

E così andando verso la casa di lei, e passando per la vècchia via delle Belle Arti, mi sorprese quella rovina superba che è il palazzo cinquecentesco dei Bentivòglio. Uno sgretolato sedile marmòreo corre in basso. Sostai come ad un misterioso richiamo; guardai in su le due file delle finestre, fatte per una dimora di re, adesso senza più imposte, vuote come occhiàie di un morto; poi ancora mi fissai a guardare il sedile giù in basso. Mi si disegnò nella mente il ricordo di una gèlida notte di febbraio. Avevo ottenuto il favore di accompagnare Mimì al veglione del Comunale. Le carni di lei tremàvano pel freddo e per l'ira della lunga lite che era avvenuta fra noi, mentre ella si abbigliava. Ci fermammo — ben ricordo — lì: cioè io, dopo lungo silènzio, arrestai il passo di lei saltellante, lì, a quell'àngolo deserto e buio del palazzo Bentivòglio.

— Tu non ballerai con....

— Io ballerò con chi mi pare.

— Io ti strozzerò.

— Va ben là! chè non hai il coràggio. Allacciàtemi piuttosto la scarpetta.

Tutta eròica (ah, è il vero!), era Mimì; e le sue scarpette, anche. Allora non usàvano le American shoes da trenta lire il paio,[2] che ogni modesta ragazza possiede ai dì nostri. Eròiche, vagabonde scarpette! Ma a fùria d'ago, di copale, e di due gran nastri, reggèvano alteramente alle profonde ferite.

Ora, in quel luminoso mattino di lùglio io ero fermo ancora lì, davanti al palazzo Bentivòglio; ed ho riveduto me stesso, tanti anni fa, in quella notte, che, invece di strozzare Mimì, le allacciava fremendo i lunghi nastri delle eròiche scarpette.

Viaggio di un povero letterato

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