Читать книгу L'evoluzione di Giosuè Carducci - Alfredo Panzini - Страница 3
CAPITOLO I.
Il maestro e la scuola.
ОглавлениеTorna alla mente con gran tristezza di desiderio il tempo che io studiava a Bologna; e la rivedo ancora quella severa e lunga aula dell'università con i finestroni dai vetri verdognoli che prendono luce dal pian terreno del cortile interno: la rivedo tutta gremita di uditori; tutti col viso rivolto e teso ad un punto, in silenzio: seduti sui banchi, fitti in piedi e addossati agli angoli, presso la porta d'ingresso. E su quelle teste, le più giovanilmente vive, altre grige o canute, altre di donne diffondenti in quella austerità non so quale femminile lietezza mi pare ancora di udire la sua voce che si spandeva ora vibrata, staccata, nervosa; ora lenta, commossa e saliente come nembo d'incenso. Su l'alta cattedra, in fondo, appariva quel capo poderoso, curvo fra i cubiti, con la fronte ferma, come diga a reggere l'onda irrompente del pensiero; la breve mano bianca agitata a ricercare il libro o l'appunto, pur non ristando la voce.
Qualche volta, sopravvenendo le tenebre, accennava gli recassero una candela e se la poneva da presso; e allora quella fiammella rossa che or s'allungava in sottile piramide e stava immota, ora ballava come un folletto, faceva in quella penombra strani effetti di luce su quel volto animato dall'idea creatrice.
Era l'autunno o era l'inverno nevoso: eppure per quella tetra sala in alto passava la primavera al suono della sua voce, l'eterna primavera del pensiero che Egli ogni volta evocava, viva, luminosa, presente fuori dai secoli che furono.
* * *
Con ciò non intendo dire che il Carducci sia un oratore nel senso che comunemente si dà a questa voce: l'impeto, la profondità, la larghezza con cui Egli concepisce e sospinge i suoi pensieri non hanno pari riscontro nella fluidità delle parole, e perciò di quel torrente di idee e di imagini solo una parte trova l'uscita; l'altra percuote e rimbalza contro quell'impedimento, e perciò in chi l'ode per la prima volta si genera come un senso di pena; chi invece conosce l'uomo e in quelle parole uscenti a scatti e svincolantisi sente tutto il prodigioso lavoro interno, non può sottrarsi a un senso di ammirazione e di meraviglia.
Egli inoltre che ci era così austero maestro nell'insegnare ed imporre il puro metodo storico della ricerca paziente e analitica, aveva sovente degl'impeti luminosi di sintesi, con una così sicura ed anelante concezione del vero quale gli eredi del genio greco latino sanno, forse soli, afferrare ed esprimere. E allora si vedeva quel suo volto acceso impallidire come sotto lo spasimo di un'idea gigante, l'occhio nero sconfinare oltre il recinto dell'aula e le parole venir fuori ora a gruppi rapidissimamente battute e serrate, ora gravi, tarde; quasi ogni voce avesse con sè un misterioso seguito di ombre, di luce e di fantasmi che doveano uscire con lei. Ed in quello impallidire, in quel commosso esprimere di parole, pareva che la sua fronte si cingesse come d'un profetico nembo; e gli angoli delle labbra in giù volti gli davano un'attitudine cupa di vaticinante.
Non era però raro il caso che tutto il getto dei pensieri trovasse libera uscita; e allora era un allegro irrompere di idee germinanti, salienti, scoppianti per raggrupparsi ancora e salire fin dove per la soverchia altezza oscillavano, e il periodo precipitava e finiva non con armoniche voci, ma con un gesto rapido e con uno scatto quasi feroce di accenti che sembravano come un'invettiva alla parola tarda ed inefficace a investire e rendere i suoi concetti.
A spiegare questo suo modo di parlare s'aggiunge un'altra causa, ed è che il Carducci che fu per tanti anni chiamato il poeta della democrazia, è il più aristocratico oratore che si possa pensare. La frase fatta con lo stampino, il periodo d'effetto, i facili artifici del dire, che un autore fine evita di scrivere, ma però nel parlare largamente profonde, giacchè sfuggono all'analisi e dilettano l'uditorio, il Carducci sdegna anche nel parlare. La sua frase è originale e viva come il suo pensiero; e perciò si arresta finchè non ha trovato quella voce che gli pare propria, quell'architettura del periodo corrispondente al suo pensiero. Da ciò ne deriva che quel discorso che ad un uditore volgare riesce slegato e duro, ove lo si fermi con la stenografia appare perfetto.
Finita la lezione, che durava circa due ore, indossava a fatica il pastrano o la pelliccia di cui mostrava avere assai cura, e passava fra il riverente aprirsi della studentesca. Era la dolce ora che le tavole delle trattorie suburbane attendono le chiassose brigate degli studenti, e il numeroso uditorio uscendo dall'università già deserta, si spandeva sotto gli alti e tetri portici di via Zamboni. Le ombre della notte vi erano discese; ma sovente giunti al largo delle due torri, dal fondo di via Rizzoli, un ultimo raggio di sole, come solo ne ricordo in quell'ora a Bologna, si riverberava vermiglio sul vertice aereo e sui merli dell'Asinella. Carducci che a brevi gesti e a più parche parole rispondeva al premuroso stuolo che lo circuiva, non mancava mai, io lo ricordo, di volgere lo sguardo su quegli alti fastigi delle torri che anche Dante mirò e dove il sole s'indugiava ancora
guardando
con un sorriso languido di vïola,
. . . . . . . . . . . . . . .
e un desio mesto pe'l rigido aëre sveglia
di rosei maggi, di calde aulenti sere.
* * *
Il Carducci è inoltre di una sensibilità estetica meravigliosa; e questo fenomeno geniale un positivista di professione chiamerebbe, io penso, iperestesia artistica, o qualcosa di simile, non è vero? appunto per quella brutale superbia scientifica di classificare con una voce patologica i più nobili e meno concepibili movimenti dell'anima, e così confonderli con i più abbietti in un'uguale terminologia. Dunque io voglio dire che questa sensibilità del fantasma artistico è così prepotente in lui che lo vince e gli s'impone mal suo grado. E questa vittoria del genio sulla volontà era cosa nuova e commovente, giacchè la sua indole disdegnosa e il verecondo culto dell'arte lo rendevano restio a manifestarci tutte le visioni del suo pensiero; inoltre la scuola era per lui una palestra di severi esercizi, e il diletto dei commenti estetici Egli lo giudicava didatticamente pericoloso pei giovani cui l'ingegno e la coltura facevano difetto per assorgere a questa alta e geniale forma della critica. Ma ciò che sopra tutto lo rendeva aggressivo e violento era il sospetto che gli uditori, specie di altre facoltà che non mancavano mai, si fossero dato convegno con l'animo di chi va ad ascoltare una prima donna o un tenore di grido.
Eppure spessissimo avveniva che la visione suscitata da un verso o da uno di que' periodi armonicamente partiti come un edificio della rinascenza, tendenti al loro fine come getto di balestra, gli togliesse per così dire la mano: era una breve ed occulta lotta fra il voler dire o seguitare il commento linguistico; ma infine l'onda delle imagini crescenti come l'impeto della marea, vinceva ogni resistenza e si udivano allora le più alate e scintillanti digressioni che mai siano risonate in quelle scuole di filologia.
Chi, ad esempio, tra i frequentatori della facoltà di lettere a Bologna non ricorda, specie in certi giorni senza sole, grigi di nebbie e di piogge, il caratteristico entrare del Carducci nella scuola di filologia? Non era l'aula detta sopra, ove Egli faceva le sue lezioni di letteratura, ma un'altra molto più piccola e abbastanza chiara al primo piano.
Benchè i banchi fossero quasi per intero occupati dagli studenti della facoltà e si sapesse che quel giorno il Carducci non teneva che le solite lezioni di magistero, ciò è a dire di critica e d'interpretazione, tuttavia l'affluenza del pubblico era sempre tale da riempire tutti i vani possibili: studenti di altre facoltà, signore e signori venuti o per amore d'arte o per curiosità di vedere ed udire il grande Poeta.
Rammento fra gli uditori illustri la biblica, pensosa e dolorosa figura del conte Aurelio Saffi; la faccia animata della nobile donna Vitthe Jessie Mario. Egli li scorgeva appena che rendeva loro ossequio prima di salire su la cattedra.
Ma qui una parentesi cade giusta: voglio dire che l'universale degl'italiani press'a poco sa chi è il Carducci: il primo poeta della nazione, che ha scritto l'inno a Satana, le poesie barbare con l'ode alla Regina, che prima era repubblicano e adesso è senatore e monarchico.
Questo lo sanno tutti e nessuno lo contrasta. Alcuni, è vero, discutono se più Egli valga come poeta o come prosatore; ma per compenso quasi tutti spingono la loro erudizione sino a recitare a memoria un certo sonetto del Rapisardi, e tutto ciò va bene: però se questo allegro popolo per sue speciali ragioni non può intendere nè il poeta, nè il prosatore, nè l'uomo, sarebbe però giusto che sapesse come il Carducci che prima accusavano di godersi lo stipendio governativo, lui repubblicano; ed oggi accusano di avvantaggiarsi del suo mutamento politico (di diversa fede gli uni dagli altri, uguali gli uni agli altri nella cosciente calunnia), non abbia fra tutti gli ufficiali dello Stato alcuno che lo sorpassi nell'adempimento continuo, austero, pieno del proprio dovere.
Egli è il primo maestro del regno; ed anche oggi prosegue ed insegna con l'animo e con la fede d'allora. Una sola volta, in quattro anni che fui suo scolaro, venne alla scuola e disse, come confessando un suo errore da cui voleva che noi giovani dati all'insegnamento molto ci guardassimo, di essere costretto per quella volta a improvvisare la lezione a braccia e fu, ricordo, un poderoso raffronto fra i classici ed i romantici, denso di sintesi e di riattacchi storici quali Egli sa fare.
Del resto ogni lezione era una primizia de' suoi studi, che Egli recava alla scuola ancora viva e palpitante delle ultime ricerche: e da quel vigoroso e sicuro percuotere del pensiero entro le viscere del passato balzavano fuori scintille di verità e di luce: e in alto, senza alcun preconcetto di scuola o di politica, ma naturalmente, in alto, come faro luminoso, splendeva o s'intravvedeva risplendere l'ideale di questa gran patria italiana.
Tale il Carducci come maestro, tale la sua opera rigeneratrice in quella scuola piccola, dalle finestre luminose donde il giorno fuggiva e dove la sua parola richiamava la luce.
Lo ricordate voi, compagni buoni, dispersi per le scuole d'Italia, lo ricordate voi? Si chiosavano i canti dell'Inferno, si leggevano le stanze della canzone di Rolando, i sonetti del Guinizelli e del Petrarca, lo ricordate? L'ora era trascorsa; era venuta la notte e il silenzio: le sei lampade a gaz mandavano il loro ronzio e la loro viva fiamma. Egli saliva su per i banchi, si sedeva talvolta presso di noi, accennava ora all'uno ora all'altro con la sua nervosa, breve e bianca mano di continuare; e spesso, vedendoci stanchi per l'ora tarda e per il prolungato lavoro, Egli stesso leggeva e spiegava, e ci trascinava oltre, fuori del presente, per quelle grandi ondate degli antichi canti. Taluno, ricordo, che era in maggiore dimestichezza, levava fuori l'orologio come a dire: «Maestro, l'ora è trascorsa, anche quella del desinare.» Egli vedeva, sorrideva bonariamente e interrompeva dicendo: «Fra poco, sino a questo punto e poi basta.»
Si usciva: fuori frizzava la nebbia e sotto i lunghi portici batteva largo il vento; pure noi scolari non si cessava del conversare animato. Lo ricordate, buoni amici, se pure vi rimane animo e tempo di ricordare?
E chiudo la parentesi perchè l'indugiarmi con memorie subbiettive ripugna a me e alla natura di questo scritto.
* * *
Dunque Egli entrava regolarmente alle tre e come un fremito di rispettoso silenzio lo precedeva su per l'ampio scalone sino agli angoli più remoti della scuola: era un ultimo bisbiglio, un adattarsi alla meglio degli uditori su le poche seggiole fornite dalla premurosa solerzia del bidello Monti, dalla voce fessa e dal cuore mite.
Il Carducci volgeva attorno uno sguardo aggrondato, tediato alla vista di quel troppo numeroso uditorio: un altro sguardo lungo fuori dei vetri al cielo grigio, ai tetti umidi; poi un altro ancora agli uditori attenti, aspettanti e maraviglianti in silenzio.
Noi che si conosceva l'uomo, ci scambiavamo sguardi d'intelligenza, chè di parlare anche sottovoce non era quella la buona occasione e si rischiava di pigliarci un rabbuffo secco e terribile.
Ah, voi vi aspettate oggi la conferenza letteraria, forbita e oratoria che si convenga all'aspettazione e vi faccia passare piacevolmente queste ore incresciose! Ve la darò io la lezione! Ma questo non è un ridotto per conferenze, nè io son qui per divertirvi col sentimento e con l'estetica, e nè meno per avere applausi: questa è semplicemente una scuola dove io devo e voglio attendere a fare de' buoni maestri per i ginnasi ed i licei d'Italia: null'altro.
Questo pensiero si leggeva in certe sue mosse brusche, nello sguardo, nell'aggrottare della fronte e in certo suo tormentarsi la barba; poi si esplicava di solito in poche, burbere e rotte parole che sonavano presso a poco così:
«Avverto lor signori che questa è lezione di magistero: farò della pura filologia, molta filologia...» come a dire: ciò non può interessarvi e fareste meglio per voi e per me ad andarvene.
La minaccia riusciva, come è a credere, vana: nessuno si moveva.
Alcuni scolari, ad un suo cenno, andavano a prendere i soliti testi di consultazione: Egli passava dall'uno all'altro scolaro; rivedeva i quaderni, i libri, gli appunti. Erano per noi momenti terribili!
«A lei!» questa era la parola sacramentale.
L'interpellato cominciava e leggeva. A poco a poco la scuola si animava e ripigliava il solito aspetto; la voce e la fisonomia del maestro scendevano al livello normale, e lezione cominciava.
Il suo metodo didattico è ammirevole e perfetto. L'interrogato legge e chiosa; ne' passi controversi od oscuri ognuno è libero d'esporre la sua interpretazione. Egli ascolta, accetta, disapprova, corregge, talvolta loda, in fine amplifica e fornisce tutti gli elementi per cui il giudizio si possa accostare al vero; e se alcuna cosa ignora in quella sua molteplice ricerca, lo confessa liberamente; ne prende appunto per sè ed invita altri ad approfondire la questione. La più scrupolosa esattezza critica e linguistica si congiunge senza sforzo, senza stacco, alla più alta e spirituale concezione del testo: piano, insensibilmente, forse senza volerlo, ma con la forza intuitiva del genio, spesso movendo dal più semplice esame filologico, solleva la mente dello scolaro fino a far sì che questi fissi diritto, quasi allo stesso livello, il pensiero de' sommi autori di cui si ragiona.
Pure Egli così rimesso e semplice, avea degli scatti invincibili di sdegno se s'imbatteva in qualche scolaro che si fosse presentato a rispondere impreparato di tutto quel corredo di nozioni filologiche e storiche che si richiedevano.
Tale mancanza, spesso scusabile in un giovane, si presentava al Carducci sotto l'aspetto assoluto di un'affievolita coscienza del dovere e dello studio, e allora scoppiavano di que' rimproveri che dove toccavano levavano la pelle.
E anche di ciò bisogna ricercare la causa nel concetto che Egli aveva della scuola. Il Carducci, io penso, non si è mai illuso di avere sotto di sè dei geni in erba, ovvero che a lui spettasse il bizzarro incarico di coltivarne la rara pianta: se qualcuno mostrava più larghezza e genialità di mente che gli altri, se ne compiaceva e lo dava a conoscere con una ritenuta e pure affettuosa gentilezza; ma non faceva nè elogi, nè predilezioni. La cosa che Egli sopra tutto pregiava e richiedeva era la severità della vita, la costanza e l'assiduità del lavoro, il sentimento della dignità, degli studi e dell'arte; e tutto ciò per quell'elevato sentimento patrio che mai non si scompagnava da ogni sua azione e da ogni sua parola: l'Italia avea bisogno di rifarsi moralmente ed intellettualmente; perciò occorrevano pochi ma buoni maestri.
A questo Egli attendeva per parte sua e voleva che i giovani vi attendessero; al governo assicurarne la vita, la dignità, gli studi. Nè mai voce più nobile e più elevata suonò in loro difesa.
Ma anche qui quell'ottimismo che non sa distinguere le eccezioni e che in fondo è proprio, perchè necessario, di tutti gli uomini di genio, e quel giudizio quasi sempre assoluto ed unilaterale che è speciale del Carducci, inducevano spesso in errore un così alto e degno modo di giudicare; chè non solo molti di mente meno che mediocre, ma pazienti ed assidui, lodava e incitava; ma, quel che è peggio, non s'avvedeva come non pochi fra quelli che più lo circuivano, sotto un simulato amore di ricerche e di studi null'altro celassero che una gran vanità, un'ambizione dannosa ai buoni, senza avere alcun senso dell'arte, alcun animoso o doloroso ideale.
Egli psicologo acuto e mirabile dei fenomeni morali più complessi, non riusciva a scendere e a leggere nettamente nell'animo di coloro che con certa simulata modestia sembravano intendere e seguire le sue idee. Forse prestava loro un po' della sua grande anima e nel suo giudizio li faceva degni di sè.
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Ma tornando al proposito, è certo che tali lezioni, per quanto perfette, non erano quelle che l'uditorio estraneo alla scuola si aspettava; se non che a poco a poco un verso del Petrarca o di Dante, uno di que' portentosi aggruppamenti di parole melodiche dove o l'anima o la natura o l'una e l'altra insieme vibrano nella misteriosa concezione dell'arte, investiva il suo pensiero e tutta la sua fantasia s'accendeva come un sole.
Non v'era più l'espositore paziente, il critico minuzioso; ma il sapiente ed il vate si congiungevano in una non so quale concezione grandiosa e quasi profetica, e sotto quell'impeto di idee s'indovinava una sacra tristezza.
Parea che si rivolgesse a noi come se fossimo i colpevoli di non so quale mancato bene, noi poveri giovani venuti alla sua scuola per acquistarci un diploma e guadagnarci questo misero pane. Egli ci trascinava dietro di sè e ci costringeva a salire in alto! O Maestro grande e buono, quante cose vedemmo, o piuttosto intravvedemmo di lassù dove Tu ci guidavi! Ma chi se ne ricorda più, chi ritiene più la forza di combattere per le battaglie di cui Tu segnavi così nettamente il campo, o Maestro?
No, da quella sua cattedra Giosuè Carducci non parlava al mondo, come diceva con infelice retorica il manifesto degli studenti monarchici invitante ad una pubblica dimostrazione dopo il fatto dell'11 marzo: Egli da quella sua cattedra si era proposto un compito molto più modesto eppure molto più arduo: rinnovare nel pensiero e negli studi la gioventù d'Italia, come nelle battaglie e nelle congiure fu rifatta materialmente la patria.