Читать книгу Lo Senti Il Mio Cuore? - Andrea Calo' - Страница 6
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ОглавлениеQuando lasciai il mio lavoro di infermiera dopo otto anni di attività, i miei colleghi mi organizzarono una festa a sorpresa. Parteciparono anche i medici, a turno per non lasciare scoperto il servizio di assistenza ai malati ricoverati in ospedale. Durò all’incirca un’ora, sessanta minuti di frastuono e allegria che altri vivevano al posto mio. Mi avevano risvegliata da un letargo, mettendomi per la prima volta al centro di un cerchio, rendendo ancora più complicata la mia partenza. Negli anni avevo capito che quando gli altri ti organizzano una festa è perché tutto sommato provano un certo affetto per te. Loro la chiamano amicizia. Avevo quindi capito che l’amicizia è quel sentimento primitivo che si prova verso un’altra persona con la quale si condivide qualche cosa, una sorta di rapporto umano. Quindi forse avevo avuto qualche amicizia nella mia gioventù ma io ero troppo cruda per rendermene conto. O forse no, si trattava solo di un rapporto di convivenza, di reciproca accettazione e sopportazione che non andava oltre il semplice saluto o la condivisione di un’oretta di gioco. Se l’amico è colui che ti ascolta e che si prende cura di te, che condivide con te le gioie e le paure, allora questo mio amico era il mio pelouche, regalatomi dall’orco e che da quello stesso orco mi aveva difeso finché poté farlo. Mio padre, l’orco, mi aveva regalato la mia unica arma di difesa, perché io potessi difendermi da lui. Mi aveva donato un’amicizia fatta di stoffa e pelo sintetico, perché lui non sarebbe mai stato all’altezza di darmi qualcosa di più. E mio amico fu anche Ryan, il ragazzo dolce che era riuscito a farmi provare un brivido, anche se dal significato totalmente sconosciuto.
Tagliarono una torta decorata che riportava il mio nome e un augurio per il mio futuro scritto sopra con una filatura di cioccolato nero. Ma quale futuro? E soprattutto, il futuro di chi? Versarono bevande analcoliche in bicchieri di plastica, rumoreggiavano come pazzi ubriachi e scatenati alla sagra del pesce del paese. Per qualche istante la mia mente tornò alle notti del pianto, quando mio padre rientrava a casa e sfogava la sua ira sul corpo di mia madre, rassegnato e già pronto nel suo letto ad accettare ancora per una volta, non l’ultima, il suo destino. “Beato chi soffre, perché vedrà il regno dei cieli” sentiva dire nel sermone recitato in chiesa. E lei sorrideva nel sentire quelle parole, accettava la sua vita così come le era stata donata, rassicurata dal fatto che ogni pugno, schiaffo o calcio, ogni violenza ricevuta l’avrebbe avvicinata sempre di più alla porta di quel paradiso tanto bello descritto dagli uomini per loro stessi. In quel paradiso gli orchi non sarebbero mai entrati. Qualcuno si accorse di me, in quel frastuono notarono una lacrima furtiva scivolare via dalle mie palpebre incontinenti per scendere seguendo il profilo del mio volto. Mi dissero “E’ bello vederti commossa per la festa, sei sempre stata così dolce, ci mancherai tanto lo sai?”. Ancora una volta non ero stata capita, non mi conoscevano affatto, non condividevamo nulla. Quindi non potevamo considerarci “amici”. Quel sentimento così importante non aveva per noi alcuna valenza. L’ospedale era stato trasformato in un bordello, schiamazzi e grida mi fecero pensare che forse quella gente fosse piuttosto contenta per la mia partenza, della mia scelta di togliermi dai piedi di mia spontanea volontà. Ero un essere scomodo per tutti loro, troppo diverso e quindi anormale. C’era gente che formava il trenino intonando motivi per me privi di senso e di musicalità, ognuno con le braccia tese e le mani posate sulle spalle dell’altro che lo precedeva, il “capotreno” con un cono capovolto piazzato sopra la testa. Sembrava un gelato caduto a terra. Sorrisi senza un apparente motivo. Sul cono una mano sapiente aveva scritto in bella calligrafia le parole “Non ti dimenticheremo mai Melanie!”, io per un attimo vi credetti. Alla fine della festa, quando i pazzi tornarono a rinchiudersi nelle loro celle per scontare la convalescenza delle loro malattie, notai quel cono di cartone accartocciato e gettato nel cesto dell’immondizia. Riuscii a vedere solo il mio nome tra le pieghe, imbrattato da una macchia lasciata dal burro di arachidi. Sorrisi, piansi, non ricordo bene. Vi gettai sopra gli altri scarti della festa fino a coprire completamente anche il mio nome, eliminandone ogni traccia. Ammirai l’opera, sospirai soddisfatta, accartocciai il foglio con i nomi e i numeri di telefono che alcuni mi avevano lasciato dicendomi “mi raccomando, restiamo in contatto!”. Nella mia testa tutto ciò risuonava più come una minaccia che come un amichevole invito dettato da un reale interesse nei miei confronti. Lo gettai insieme al resto della carta straccia perché quello era il suo posto, con quello si completava. Richiuso il cesto, cominciai a dimenticare. Dimenticare, come tutti loro avrebbero fatto con me di lì a qualche ora. Ci saremmo rincontrati in paradiso se fosse realmente esistito, ammesso che l’inferno non mi avesse risucchiato prima del tempo. Così, giusto per il gusto di divertirsi ancora un po’ con me. Non incontrai mai più nessuno di loro in tutta la mia vita, non seppi mai chi fosse sopravvissuto a quella giornata, a quella fugace ora di euforia da catalogo. A parte una persona, Melanie. Anche l’inferno mi aveva rifiutata, nemmeno il diavolo si divertiva più a prendersi gioco di me.
Tornai a casa stanca quella sera. Avrei voluto fare i bagagli e partire quella notte stessa per un posto nuovo, così senza decidere, senza una meta precisa. Lo facevano tanti giovani, ormai era una cosa alla moda, quasi un obbligo per chi era riuscito a mettere qualche soldo da parte. Quindi avrei potuto farlo anche io. Ma rimandai la preparazione dei bagagli, rimandai quella partenza a momenti migliori. Posai il regalo che gli altri mi avevano dato prima di salutarci e augurarci “buona fortuna per il futuro”, frase che sapeva un po’ di rassegnazione e portava nascosta in sé una nota amara che diceva “tu da oggi non sei più affare nostro”. Mi regalarono un orologio. Regalarono un orologio anche a quelli che erano andati via prima di me, a quelli che si erano sposati, a quelli che avevano avuto dei figli. Perché si regala sempre un orologio? E’ davvero così importante ricordare ad una persona che il suo tempo è destinato a passare e alla fine lei scadrà come un cartoccio di latte abbandonato da tutti sul fondo di uno scaffale in un piccolo supermercato di provincia? Solo ai funerali non si regala un orologio al defunto, forse perché per lui il tempo non esiste più. Il tempo non è nulla paragonato all’eternità stessa che lo contiene. Aprii il pacchetto, guardai l’orologio, segnava già l’ora giusta. Qualcuno si era preoccupato di sistemarla perché fosse già pronto all’uso e io non fossi costretta a perdere tempo, appunto. Perdere del tempo per sistemare il tempo, che curioso paradosso! Posai la scatola richiusa sulla mensola del camino, da dove lo avrei ripreso prima di partire. Forse.