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Al tenente Giorgio Tognoni,

cieco di guerra.

Giorgio,

Vi ricordate come ebbe origine questo dramma?

Uscivamo dal Teatro alla Scala una sera piovosa del novembre scorso. Voi avevate parlato, esaltando la guerra, ad una folla delirante d'entusiasmo per l'Italia e per voi.

Con la mano sul mio braccio, sotto al grigio porticato, vi fermaste. Ancora intorno a noi crepitavano gli applausi.

«Annie Vivanti, volete scrivere un dramma per me?»

Io alzai gli occhi a guardarvi, a guardare il bel volto mobile ed espressivo, e le chiome ricciute, e il fiero portamento dell'alta ed agile persona — tutta la pittoresca bellezza dei vostri ventiquattr'anni, alla quale i grandi occhiali neri aggiungono un fascino speciale e indefinito.

«Sì», dissi subito.

E così nacque nella mia mente la figura di «Giorgio» in questo dramma di guerra.

«Giorgio» siete voi. Le sue parole sono parole che da voi ho udito; l'anima di Giorgio è la sublime anima che è in voi.

* * *

Era inteso che voi stesso avreste interpretato la parte del giovane ufficiale che ritorna dalle trincee con gli occhi per sempre chiusi. [1]

1. Nella prima versione del lavoro, scritta con questo intendimento, Giorgio non entrava in scena che al terzo atto.

Dalle vostre labbra dovevano giungere — con la forza suprema di una sacra e tragica verità — le parole di fede al cuore degli ascoltatori.

Quando la madre dice al figlio: «Fammi vedere i tuoi occhi!...» erano i vostri occhi, con la loro divina cicatrice, che dovevano essere svelati. Quand'egli, tentando di calmare la materna angoscia, dice: «Mamma! Chiudi anche tu gli occhi! Scendi nel buio con me...» e il teatro si oscura completamente — quel crepuscolo che calava sui nostri spiriti doveva essere un lembo della grande ombra che per sempre vi ravvolge...

Ma al momento della rappresentazione sorsero, come voi sapete, degli inattesi ostacoli. Gli amici discussero... sconsigliarono... dissuasero... E per timore che qualcuno potesse dire che si era voluto «sfruttare la sventura» il dramma — da voi ispirato e per voi scritto — fu dato senza di voi.

A me parve che ne fosse tolto così l'elemento più alto di commozione, l'essenza stessa della poesia da me sognata.

················

Ma ancora non mi so spiegare l'indescrivibile tumulto che il dramma suscitò alla sua prima rappresentazione. Certo, nella mente di una parte del pubblico vi fu un equivoco causato dal titolo. Ad alcuni — che ignoravano il significato militare dell'espressione «le bocche inutili» — il titolo parve gaio; e il teatro si affollò di gente che, per distrarsi dalle tristezze della guerra, voleva vedere una commedia allegra.

Credevano nelle «bocche inutili» di trovare le bocche che ridono, le bocche che baciano, le bocche che pronunciano delle soavi arguzie o delle parole d'amore... E rimasero stupiti e disorientati quando si trovarono davanti alle tragiche bocche di vegliardi, di donne e di bambini che la guerra apre agli urli e alla fame.

La fame — primitivo e mostruoso supplizio! — doveva avere anch'essa una parte di protagonista in questo dramma.

Ma da poi che l'ebbi veduta da vicino in tutta la sua ferocia e terribilità, ho compreso ch'essa mal si prestava ad infingimenti teatrali.

Sì; l'ho veduta da vicino, Giorgio. L'ho veduta qui, negli ospedali della Riviera, al capezzale dei prigionieri che l'Austria, quasi un atroce scherno, ci rinvia moribondi dai suoi campi di concentramento.

Sui corpi di quei martiri la fame è passata come una belva viva scannando e sbranando; pare che i lupi abbiano strappato da quei volti la carne, non lasciando al posto delle guance che due incavi nerastri; pare che dei vampiri si siano acquattati su quei petti concavi, a suggere fin l'ultima goccia di sangue di tra le anelanti costole; pare che qualche visione demoniaca sia passata davanti a quegli occhi che si aprono spauriti e smisurati... occhi in cui di vivo non vi è più che la morte.

Quando uscii da quel luogo di sventura, mi sono detta che la fame non si doveva nè si poteva rappresentare sulle scene. E col cuore rovente d'odio e d'amore — d'amore per quei martiri, umili e sublimi; d'odio per coloro che freddamente, deliberatamente, tale tortura avevano potuto infliggere — mi parve che non avevo mai amato abbastanza; e che non avevo mai abbastanza odiato!

... Era una chiara notte invernale. Sopra al mio capo brillavano le stelle, calme, gelide, eterne.

E pareva che dicessero:

«Noi non conosciamo l'odio; non conosciamo l'amore. Perciò siamo immortali».

················

Il nostro primo incontro — lo ricordate, Giorgio? — fu ad un ricevimento dato a Roma per me, dove voi eravate invitato a recitare alcuni celebri versi carducciani.

Io non vi conoscevo ancora; ma d'un tratto vi vidi, alto e snello nella vostra uniforme, avviarvi al braccio d'un altro ufficiale verso il centro della sala. Vi chinaste verso l'amico, e vi udii dirgli sommesso:

«Mettimi dove io possa, recitando, guardare Annie!»

«Guardare Annie!» Quelle parole sulle vostre labbra mi fecero trasecolare. E mentre voi ritto, col viso pallido rivolto a me, dicevate i cari versi del grande Poeta ed Amico, dal fondo del mio cuore saliva come un controcanto la poesia che tale visione m'ispirava.

E quella sera scrissi per voi i brevi versi che qui trascrivo.

LUCE

Cotanta luce io non la vidi mai

Come all'istante in cui tu mi guardasti!

Ai miei occhi abbagliati tu sembrasti

Circonfuso di rai.

La luce che perdesti ti circonda,

Luce di gioventù — luce di gloria!

Cotanta luce io non la vidi mai.

I tuoi due occhi sono torcie accese.

Dove li volgi è un subito e potente

Avvampare di fuoco e di virtù.

Nessuno sguardo mai fu sì profondo

Nessuno sguardo mai fu sì possente,

Come lo sguardo tuo che non è più.

I tuoi due occhi sono torcie accese.

O tu, che hai dato la tua luce a noi,

Volgi, volgi sui tristi e sui codardi

La sacra ténebra degli occhi tuoi,

E tutti i vili diverranno eroi

Se tu li guardi!...

O tu che hai dato la tua luce a noi.

* * *

Da quel giorno in poi ci siamo sempre ritrovati. Dalla Villa Aldobrandini, voi, con due vostri gloriosi compagni, vi facevate accompagnare a notte tarda sotto le mie finestre, e nella quiete delle chiare notti romane, udivo risonare d'un tratto le vostre giovani voci chiamandomi per nome.

Talvolta l'ora era tardissima — a voi che importava dell'ora? — ed io mi destavo di soprassalto e m'affacciavo:

«Ma come mai siete qui? Sono le due del mattino!»

«Scendete! Vogliamo andare a passeggio», comandavate voi. — «Alla Trinità dei Monti», diceva il tenente Cotta Ramosino, alzando nella bianca luce lunare il classico viso.

«Od anche a Monte Mario», soggiungeva il capitano Fogliero, con la sua bella risata di fanciullo.

Io mi vestivo alla meglio, scendevo rapida — e via, a braccetto, tutti in fila, per le notturne vie della meravigliosa città.

Oh belle notti in cui a me era concesso guidare i vostri passi, dirvi gli splendori di Roma dormente nella diffusa chiarità lunare, essere per un'ora, con umiltà orgogliosa, la luce degli occhi vostri!

* * *

Fin d'allora però ho avuto la strana sensazione che quando uno di voi mi prendeva il braccio era piuttosto per guidarmi che per essere da me guidato.

Ogni qualvolta voi, Giorgio, posate sul mio braccio la vostra mano tranquilla e leggera, mi sembra che la rumorosa vita quotidiana dilegui e svanisca d'intorno a me, e ch'io scenda con voi in un mondo nuovo e profondo, dove una immensa pace, un'oscura calma mi sommerge. Sull'anima ferita, sugli occhi abbagliati dalle villane luci giornaliere, cala la morbida frescura delle tenebre, passa il silenzio come il vento di un'ala nera.

La vita diviene un'armonia in tono minore.

················

E in quel mondo di sogno in cui m'aggiro con voi, non s'incontra più nessuno che sia affrettato, o scortese, o indifferente.

Ogni sguardo rivolto a noi è luminosamente annebbiato di dolcezza: ogni voce si fa piana e commossa, ogni passo si arresta o si ritrae per darci il passaggio, ogni sguardo oscilla in una lagrima o brilla in un sorriso.

Certo io non ho mai veduto effulgere così la bellezza e la bontà umana come quando voi siete accanto a me, con la mano lieve e ferma sul mio braccio, col bel volto sereno un poco alzato verso il cielo.

* * *

Così, nella vita, come in questo mio breve dramma siete voi, voi e i vostri compagni, gli apportatori di luce.

Da voi giunge alle nostre anime — brancolanti nel buio alla ricerca della verità, smarrite nel labirinto dei nuovi oscuri dilemmi creati dalla guerra — il monito e l'esempio, il verdetto sereno e inappellabile su ciò che oggi è il nostro supremo dovere.

«Ah, figlio mio!» grida la madre dal profondo del suo strazio, «tu che con quei chiusi occhi vedi forse più chiaro di noi — dillo, dillo, se il primo dovere d'un uomo non è verso le sue creature, verso le sue donne, verso i suoi figli, sangue del suo sangue?...»

E il figlio risponde — fiero, forte, sicuro; risponde come rispondeste voi al nemico, in quell'alba sul Monte Sabotino, quando i vostri grandi occhi italiani erano ancora aperti:

«No!»

Annie Vivanti

Nervi, 1918.

Le bocche inutili

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