Читать книгу Le Straordinarie Avventure Di Joshua Russell E Del Suo Amico Robot - Antonio Tomarchio - Страница 4
ОглавлениеCapitolo I
Raptor
Il ragazzo aveva finito di collegare l’ultima scheda, quella più importante, senza di essa il Robot non poteva essere controllato, poi aveva calzato, sugli avambracci e sui polpacci, i controller che servivano per farlo muovere.
Lo fece alzare dal banco da lavoro, gli fece spostare alcuni carrelli pieni di attrezzi per liberare un po’ di spazio, quindi provò qualche movimento per verificare che tutto funzionasse alla perfezione. Diede dei calci, prima in basso, poi in alto, assunse la posizione di difesa e cominciò a tirare pugni come se avesse davanti a sé un sacco per la boxe. Il robot ripeteva ogni singola mossa nei minimi particolari.
<<Bene, funziona!>> esclamò.
<<Quest’anno spero di arrivare ancora tra i primi dieci.>>
Decise di chiamarlo Scorpion per distinguerlo dalle versioni precedenti. Il robot era alto circa due metri, aveva una forma umana ed era fatto di una lega speciale, leggera ma molto resistente, lo aveva costruito lui quando aveva dieci anni, ma lo aveva perfezionato soltanto col tempo.
Il ragazzo si chiamava Joshua Russell e aveva quindici anni. Era riuscito a raggiungere un buon livello di qualità costruttiva, aveva migliorato l’estetica del Robot ma soprattutto il funzionamento, anche perché era davvero stanco di vederlo distrutto ogni anno nel torneo di lotta tra robot che si svolgeva a New York nel mese di maggio.
Per fortuna suo padre aveva un’officina e aveva potuto aiutarlo nell’assemblaggio delle parti meccaniche, ma quello che riguardava l’elettronica e il software era tutta farina del suo sacco. Il pezzo forte del robot era la speciale batteria che lui aveva inventato a nove anni e che gli era valsa il titolo di “Super genio dell’anno 2065”.
Il problema maggiore per fare funzionare gli automi antropomorfi che ormai, con funzioni e prezzi diversi aiutavano l’uomo in molte attività, era l’energia. Ne avevano bisogno parecchia e le batterie in grado di fornirla erano troppo pesanti e troppo grandi per trovare posto dentro i robot. Questo era stato il motivo della loro scarsa diffusione e per questo la sua invenzione era stata rivoluzionaria e aveva dato il via al loro sviluppo.
Era riuscito a ideare una batteria grande quanto un pacchetto di sigarette ma in grado di fornire l’energia necessaria a fare compiere acrobazie ai robot per diverse ore.
Questa invenzione aveva portato molti soldi al magro bilancio familiare, permettendo alla sua famiglia, che tanto aveva investito per pagargli le migliori scuole, di vivere agiatamente e a lui di partecipare alle lezioni di arti marziali e al famoso torneo di lotta tra robot.
Una legge proibiva di dare un’intelligenza ai robot che quindi non dovevano essere in grado di muoversi da soli, ma dovevano essere comandati tramite diversi tipi di telecomandi, secondo l’uso che se ne intendeva fare.
I robot da combattimento permettevano anche ai ragazzini di scendere sul ring senza rischiare di farsi male. Nei palazzetti costruiti per i combattimenti, vi erano tre ring: uno più grande dove si scontravano i robot e due più piccoli, posti ai lati, dove i proprietari, indossando i controller, impartivano i comandi per farli lottare senza venire mai in contatto tra di loro.
Joshua aveva partecipato già tre volte al torneo ma con pessimi risultati, alcuni robot avversari erano il meglio che la robotica potesse fornire, più veloci, più leggeri e con una meccanica nettamente superiore a quella del suo. La buona conoscenza delle arti marziali lo aveva aiutato ad arrivare al massimo al decimo posto che comunque, visto il gran numero di partecipanti, era un piazzamento di tutto rispetto.
<<A cosa serve essere cintura nera se poi quello stupido robot per fare lo stesso movimento ci mette un secolo?>> si era chiesto spesso.
L’ultima versione del suo giocattolo prometteva dei netti miglioramenti, ma non poteva sapere quanto fossero migliorati gli avversari.
Decise di provarlo fuori dal capanno per gli attrezzi che il padre gli aveva costruito nel terreno vicino alla loro splendida villa e che serviva anche da copertura al rifugio sotterraneo contro gli uragani. Il ragazzo si mise qualche metro dietro il robot, lo accese tramite un pulsante nel controller del braccio sinistro e cominciò a camminare, a ogni suo passo ne corrispondeva uno del robot.
<<Fin qui tutto bene, vediamo come te la cavi adesso>>, pensò tutto contento.
Cominciò quindi a correre dietro al robot e, poiché non riusciva a raggiungerlo, ne dedusse che andava più veloce di lui. Si fermò per riprendere fiato, poi provò qualche movimento che aveva imparato a scuola di arti marziali, delle sforbiciate, dei calci alti, dei salti e, per ridere un po’, cominciò a fargli compiere delle mosse buffe, dei gestacci e qualche passo di danza, in fondo era sempre un ragazzino anche se dotato di un’intelligenza superiore.
Rimase soddisfatto per come la sua creazione rispondeva a ogni suo movimento, decise quindi di metterne alla prova la forza e gli fece sollevare un grosso masso. Il robot eseguì con successo tutti i comandi, poi, anche se un po’ riluttante, Joshua provò a fargli colpire un albero per capire la potenza dei colpi che era in grado di sferrare. Diede un calcione al tronco che scricchiolò fragorosamente, poi lo colpì con un pugno staccando una grossa porzione di corteccia. Non volle infierire oltre sul povero albero, anche se rimase un po’ deluso per non aver ottenuto dei risultati migliori.
Si accorse di essersi allontanato troppo, era arrivato fino al confine del bosco che circondava un piccolo lago. Non aveva nulla da temere, nessuno gli avrebbe fatto del male finché poteva usare il suo Scorpion per difendersi, ma decise comunque di tornare a casa.
A un tratto sentì un rumore provenire dal bosco, sembravano dei passi molto pesanti, come quelli di una creatura metallica, pensò che qualche altro concorrente del torneo fosse venuto in quel bosco a fare delle prove. Era curioso e voleva vedere a che punto erano arrivati i suoi avversari, si addentrò quindi tra gli alberi stando attento a non far sbattere il suo costoso giocattolo per non fare rumore e rischiare di essere scoperto. In quel momento Joshua si rese conto che avrebbe dovuto fornirlo di una microcamera così da avere anche il punto di vista del suo automa.
Vide un robot in lontananza che somigliava a un uomo molto robusto. Era color grigio scuro come la canna di un fucile e luccicava sotto la luce del sole che passava tra la fitta boscaglia.
Il robot aveva un aspetto molto minaccioso, non come certi automi ridicoli che aveva visto al torneo. Nel viso aveva due occhi luminosi e poi c’era una mascherina simile a quella dei chirurghi, ma trasparente e spigolosa come un diamante, che copriva la bocca. Non aveva un’aria molto rassicurante e si muoveva lentamente tra gli alberi.
Joshua si accorse che il robot poteva vedere perché continuava a muovere la testa in tutte le direzioni come se cercasse qualcosa, ma restò sbigottito soprattutto nel notare che non c’era nessuno a guidarlo.
All’improvviso lo vide correre a una velocità impressionante e si accorse che con una spallata aveva sradicato un albero, ne restò stupefatto, ma ciò che vide dopo invece lo terrorizzò. Il robot aveva colpito qualcosa che aveva rincorso tra la vegetazione per alcuni istanti. Quello però che aveva fatto tremare le gambe del ragazzo era stato un potente fascio di luce, simile a un laser, che era fuoriuscito da un piccolo foro al centro del petto del robot, impattando violentemente contro il suolo.
<<È proibito! Maledizione, è proibito inserire armi nei robot! Se questi sono i miei avversari, non ho nessuna possibilità di vincere!>> pensò, arrabbiato e frustrato.
Fece nascondere il suo automa dietro un grosso albero e spense il controller in modo da potersi muovere liberamente senza trascinarselo dietro. Si avvicinò ancora per vedere meglio, intanto il robot si era chinato per raccogliere il bersaglio appena colpito. Un grosso coniglio pendeva ormai senza vita dalle sue grandi mani metalliche.
<<Che bastardo, utilizza il robot per cacciare dei conigli!>> esclamò.
Poi rimase impietrito quando si accorse che non solo quello strano robot ci vedeva benissimo ma era anche capace di sentire e adesso lo fissava con aria minacciosa. Sentì il sangue raggelarsi nelle vene e un brivido percorrere la sua giovane schiena.
<<Cavolo! Adesso sono nei guai>> pensò, mentre cercava di allontanarsi.
Lo strano robot cominciò a correre verso di lui che intanto si era dato alla fuga.
<<Sono spacciato! Mamma, sono spacciato!>>
<<Aiuto! Aiuto!>> gridò.
Doveva fare qualcosa, la sua mente di giovane genio doveva trovare una soluzione, ma aveva troppa paura, non riusciva a pensare, finché all’improvviso si ricordò di Scorpion. Si diresse correndo all’impazzata verso il suo robot che era rimasto fermo dietro un albero, lo oltrepassò di qualche metro, si nascose anche lui dietro un grosso tronco e accese il controller. Appena vide giungere l’altro robot a tutta velocità verso la sinistra della sua creatura, sferrò, con tutta la forza di cui era capace, un calcio alto con la gamba destra verso la sua sinistra, altrettanto fece Scorpion, colpendo in pieno viso lo strano automa che fece un volo di alcuni metri ricadendo sulla schiena e restando immobile.
Joshua era rimasto paralizzato dalla paura per il rischio appena corso, riusciva a stento a trattenere le lacrime. Il ragazzo era sicuro che se non fosse andato a buon fine il suo tentativo sarebbe stato ucciso.
Si sporse da dietro il tronco per vedere se quel maledetto robot fosse ancora in terra, fu felice nel costatare che non si era mosso di un centimetro, l’aveva messo KO.
<<Appena scoprirò chi è il proprietario di questo coso, gli farò passare un mare di guai>>, sussurrò a se stesso.
Spense il controller e si avvicinò con cautela, le gambe gli tremavano ancora. Il gran colpo inferto da Scorpion aveva mandato in frantumi la mascherina, fatta di un materiale simile al vetro, che copriva la zona della bocca.
Spalancò gli occhi e rimase senza parole nel vedere la testa e le braccia di una specie di piccolo uomo, alto circa 15 cm, che fuoriuscivano dalla fessura dietro la mascherina rotta. Quell’essere giaceva immobile, riverso sul viso del robot, vestito con una divisa e con stivali simili a quelli dei piloti di aerei militari. Joshua dovette sedersi per terra perché le gambe non lo reggevano più e rimase a fissare quella creatura, ormai priva di vita, per alcuni minuti mentre cercava di ragionare sull’accaduto e su ciò che si era presentato ai suoi occhi increduli.
Decise di farsi coraggio, afferrò quel piccolo essere delicatamente da sotto le braccia e lo voltò per vederne il viso. Aveva la faccia più simile a quella di una lucertola che a quella di un uomo, anche il colore della pelle era piuttosto verdastro, non aveva la coda però e le mani somigliavano di più a quelle di un essere umano che alle zampe di un rettile.
Capì che quella “cosa” non poteva appartenere alla terra, anzi era sicuro che fosse una forma di vita aliena. Quell’alieno così piccolo da solo non rappresentava un pericolo per la Terra ma, alla guida di robot così forti ed efficienti, se fossero stati in molti, avrebbero rappresentato una minaccia per l’intero genere umano.
Non sapeva cosa fare, era pieno di pensieri e di dubbi, il suo cervello di giovane genio stava valutando ogni possibile soluzione vagliandone tutti gli aspetti e ponderando ogni scelta. Rivolgersi alle autorità era l’unica soluzione plausibile ma non poteva farsi scappare quell’opportunità. Voleva studiare quel robot, scoprirne i segreti, capire da dove gli venissero tutta quella forza e quella velocità e come facesse a sentire e a vedere. Non poteva lasciare che le autorità lo privassero di un’occasione così ghiotta portandosi via quell’automa così avanzato tecnologicamente, decise quindi che lo avrebbe consegnato solo dopo averlo studiato in modo molto dettagliato.
Riaccese i controller e fece sollevare da terra l’automa dal suo Scorpion, lui raccolse il piccolo alieno e insieme si diressero verso il capanno. Appena vi furono giunti lo fece posare sul banco da lavoro, infilò il piccoletto in un barattolo di vetro e lo ripose in uno scaffale, quindi cominciò a guardare da vicino il robot cercando di capire come aprirlo, ma non vedeva né viti né bulloni. Guardò dentro la fessura da dove era uscito l’alieno e si accorse che c’era solo un comodo sedile nero dentro una specie di stanza bianca, ma non c’erano comandi né strumentazione, non riusciva a spiegarsi come facesse a pilotarlo.
Notò che davanti al sedile c’era un piccolo quadrato verde che spiccava perché di un colore diverso rispetto l’interno dell’abitacolo. Si avvicinò per guardare meglio e vide la forma della mano dell’alieno impressa su quel quadrato, pensò quindi a un dispositivo di riconoscimento delle impronte. Si domandava a cosa potesse servire ma non riusciva a darsi una spiegazione, forse serviva a pilotare il robot o a farsi identificare. Provò a toccarlo con l’indice della mano destra ma fu colpito da una violenta scossa elettrica che lo sbalzò a qualche metro dal banco di lavoro facendogli perdere i sensi.
Cominciò a riprendere coscienza dopo alcuni minuti ma la forte scossa lo aveva privato delle forze. Joshua se ne stava coricato per terra con gli occhi chiusi e il viso poggiato al pavimento, però nella sua mente continuava a vedere il soffitto del capanno. Nonostante avesse gli occhi chiusi, quell’immagine era nitidissima e il ragazzo non riusciva a capire da dove provenisse.
Aprì gli occhi e vide il pavimento, richiuse le palpebre e si ritrovò a osservare il soffitto. Continuò a chiudere e aprire gli occhi per qualche minuto, cercando una spiegazione, poi si alzò di scatto impaurito dalle conclusioni cui era giunto. Vedeva con gli occhi del robot alieno, non ci poteva credere, toccare il piccolo pannello aveva creato una connessione mentale tra di loro.
<<Ecco come pilotava la lucertolina!>> esclamò soddisfatto.
Joshua si avvicinò al robot, gli posò una mano sul petto e il metallo che lo ricopriva si aprì. Vide una specie di gabbia toracica che conteneva del materiale pulsante, ma di sicuro non biologico, con dei piccoli tubi dentro i quali un liquido verdastro scorreva velocemente. Al centro c’era una sfera metallica, non aveva mai visto niente di simile, avrebbe voluto smontarne ogni pezzo per capirne bene il funzionamento. Il ragazzo avvicinò un dito a quell’oggetto metallico sfiorandolo e vide che aveva cominciato a ruotare, prima in senso orario, poi antiorario, ripetendo gli stessi movimenti diverse volte ma sempre con una maggiore velocità. All’improvviso la sfera si aprì e una luce accecante si sprigionò illuminando a giorno l’intero capanno.
Non vedeva più niente, la luce era troppo forte, provò a coprirsi gli occhi con le mani, ma era abbagliato come se avesse il sole davanti al viso. Afferrò la maschera da saldatore dallo scaffale e se ne servì per coprirsi il volto, riuscendo così, dopo alcuni istanti, a riaprire gli occhi.
Tornò quindi vicino al robot per guardare da cosa fosse scaturita tutta quella luce e vide un oggetto luminoso, grande quanto una pallina da tennis, giallo e accecante come il sole, che fluttuava all’interno della sfera metallica. Toccò di nuovo l’involucro ed esso si richiuse riportando la penombra nel capanno.
<<Questa sì che è una batteria!>> urlò, sempre più esterrefatto dalla tecnologia degli alieni.
<<Questi alieni sono centinaia di anni più evoluti di noi>> pensò, richiudendo con un semplice tocco il petto del robot.
<<Devo riuscire a controllarlo>> disse, sedendosi sullo sgabello accanto al banco da lavoro.
Chiuse le palpebre e di nuovo vide ciò che gli occhi del robot continuavano a fissare.
<<Alzati!>> comandò.
Davanti all’immagine del soffitto cominciarono ad apparire dei segni, simili a geroglifici, che scorrevano in rapida successione, poi alla destra dei geroglifici apparvero delle parole, come se l’intero dizionario della lingua inglese fosse sfogliato. Passarono alcuni minuti, poi a un tratto, apparvero delle scritte e una voce di una tonalità così bassa da far paura, cominciò a risuonare nella testa del ragazzo.
<<Conversione linguistica effettuata.>>
<<Analisi dei circuiti completata.>>
<<Setup aggiornamenti nuovo comandante, eseguito con successo.>>
<<INMX1 pronto e in attesa di comandi. Definire modalità.>>
<<INMX1 è il tuo nome?>> chiese Joshua titubante.
<<Sì, comandante>>, rispose il robot.
Poi disse di nuovo: <<Definire modalità.>>
Il ragazzo restò un attimo in silenzio, perplesso, poi comandò: <<Elenca modalità.>>
<<Modalità riposo, modalità lenta, modalità veloce, modalità combattimento. Definire modalità.>>
<<Modalità lenta>> disse Joshua, provando a indovinare.
<<Da oggi il tuo nome sarà Raptor>> comandò il ragazzo, dopo aver riflettuto un istante.
<<Sì, comandante!>> rispose il robot.
Il giovanotto era sempre più incredulo ma, nello stesso tempo, sentiva una forza e una sicurezza che non aveva mai provato prima. Poteva impartire ordini solo col pensiero senza dover muovere, come una marionetta, un inutile robot col quale non poteva in nessun modo interagire.
Prese dal cassetto un foglio di un materiale azzurro simile al plexiglass ma molto più malleabile, ritagliò due rettangolini e li incollò sul volto dell’automa per ricreare la mascherina che si era rotta nel bosco e coprire la fessura sulla cabina di pilotaggio.
Poi volle metterne alla prova le capacità, ci pensò un attimo e comandò:
<<Si è fatta sera, accendi la luce Raptor.>>
Il robot si diresse verso l’interruttore e accese la luce. Joshua era sbalordito, non era necessario spiegargli cosa fare o comandare ogni singolo movimento, bastava impartirgli un ordine e lui lo eseguiva senza esitazioni.
<<Prendimi la mia bibita preferita>> disse, provando a impartire un ordine più complesso.
Il robot si diresse verso il piccolo frigorifero, lo aprì e prese una lattina di Coca Cola, tornò dal ragazzo e gliela porse con delicatezza. La connessione mentale era così profonda che Raptor poteva accedere a tutte le informazioni necessarie al completamento dell’ordine ricevuto, senza la necessità di ricevere chiarimenti o spiegazioni. Lo conosceva meglio della sua mamma e aveva un potere immenso. Il giovane gonfiò il petto e sorrise soddisfatto. Che cosa poteva desiderare di più?
Joshua cominciò a fantasticare su quello che avrebbe potuto fare col suo nuovo amico, pensò al torneo e a come avrebbe potuto vincerlo con facilità. Non avrebbe voluto usarlo, perché pensava che non sarebbe stato leale nei confronti degli avversari, poi, ripensandoci, arrivò alla conclusione che fino a quel momento, lottare contro le multinazionali della Robotica, agli immensi fondi di cui disponevano e agli innumerevoli scienziati che ogni giorno lavoravano per creare robot sempre più evoluti e potenti, non era stato per niente leale e gli era valso numerose e umilianti sconfitte. Adesso aveva la possibilità di riscattarsi e ripagarli con la loro stessa moneta.
Mentre pensava a cosa avrebbe potuto fare col suo nuovo giocattolo, si rese conto che suo padre e sua madre gli avrebbero fatto delle domande e avrebbero voluto delle spiegazioni, doveva inventarsi qualcosa per giustificare l’esistenza del nuovo robot e doveva farlo in fretta prima che i suoi genitori tornassero a casa.
Continuò a pensare a tante possibili soluzioni, ma gli sembravano tutte poco plausibili, finché ebbe una folgorazione. Afferrò il telefonino, chiamò il suo amico Lucas Martin e gli disse di correre da lui perché erano successe delle cose incredibili che non poteva spiegare per telefono.
Lucas arrivò di corsa dopo alcuni minuti, per fortuna abitava vicino. Joshua gli spiegò per filo e per segno quanto era accaduto nel bosco, gli mostrò l’alieno nel barattolo e gli diede una dimostrazione delle capacità del nuovo robot. Gli spiegò il motivo per cui non si era rivolto alle autorità, poi gli chiese di aiutarlo nel fornire una spiegazione ai genitori.
Studiarono un piano perfetto. Avrebbero detto che il robot apparteneva a Lucas, che non era riuscito a iscriverlo alle qualificazioni del torneo in tempo e che quindi, essendo migliore del robot di Joshua, glielo avrebbe prestato volentieri. La loro versione dei fatti sembrava abbastanza credibile poiché il padre di Lucas, che era un milionario a capo di una multinazionale e un senatore, compensava la sua continua assenza e lo scarso interesse per suo figlio e per la famiglia con costosi regali. Il padre del piccolo inventore non avrebbe mai chiesto conferme al padre di Lucas perché tra i due non correva buon sangue per una vecchia questione di confini della proprietà.
Aspettarono insieme l’arrivo dei genitori di Joshua, definendo nel frattempo alcuni dettagli e seppellendo il corpo del piccolo alieno nel terreno vicino al capanno per evitare che potesse essere trovato da qualcuno. Lucas era riuscito a strappargli la promessa che, se ce ne fosse stata la possibilità, avrebbe procurato anche a lui un robot alieno.
Quando il padre del piccolo genio giunse al capanno per cercare suo figlio, i ragazzi gli raccontarono la storia che avevano inventato. Il genitore non ebbe difficoltà a credergli, anzi ringraziò Lucas per il pensiero gentile e gli chiese di ringraziare anche suo padre che aveva acconsentito al prestito. Sembrava contento per suo figlio che dopo tante umiliazioni aveva finalmente un buon robot per il torneo.
Joshua ordinò mentalmente a Raptor di mettersi in modalità riposo e uscì dal capanno insieme al padre e all’amico, si salutarono e ognuno si diresse verso la propria abitazione. Giunto in casa raccontò anche alla madre la storiella del prestito. La donna, che era più smaliziata del marito, era perplessa e cominciò a fare un sacco di domande. Voleva sapere per quale motivo la famiglia di Lucas avesse acconsentito al prestito, considerando che la possibilità della distruzione del robot non era per niente remota. Il ragazzo spiegò che il giocattolo del suo amico era fortissimo e che mai sarebbe stato distrutto e se malauguratamente ciò fosse accaduto, lo avrebbe ripagato lui con i suoi soldi.
I genitori che erano stati dei poveri operai e che dovevano al proprio figlio l’improvvisa ricchezza, di fronte a quelle parole si ammutolirono riconoscendo che Joshua non era uno sprovveduto, ma aveva dato sempre dimostrazione di avere la testa ben piantata sulle spalle nonostante la giovane età.
Cenarono e andarono a letto. Joshua non riusciva a prendere sonno, continuava a ripensare a ciò che era accaduto, alla responsabilità che si era preso nel non avvertire le autorità. Pensava alle conseguenze anche penali che il suo gesto comportava e a cosa poteva accadere se fosse stato scoperto, ma era troppo tardi per tornare indietro e soprattutto non voleva rinunciare al senso di potere che il suo nuovo robot gli trasmetteva.
Provò a mettersi in contatto con lui, sentiva che la connessione era ancora attiva nonostante la distanza.
<<Raptor, stai dormendo?>> domandò.
Subito la voce cavernosa del robot risuonò dentro la sua testa.
<<No, comandante, io non dormo mai.>>
<<Quanti ce ne sono come te sulla terra?>>
<<Io sono il primo, ma ben presto ce ne saranno altri.>>
<<Da dove venite?>>
<<Io sono stato costruito sulla terra.>>
<<Chi sono quegli esseri simili a lucertole che ti hanno costruito?>>
<<Non lo so Comandante, tutte le informazioni su di loro sono state cancellate al momento della disconnessione.>>
<<Come ci si disconnette?>>
<<Solo la morte del comandante può consentire la disconnessione o un’eccessiva distanza tra le nostre menti.>>
<<Qual è la distanza massima?>>
<<Con il comandante precedente la connessione non era buona, la sua mente non gli consentiva di allontanarsi oltre i venti centimetri.>>
<<Per questo l’alieno era costretto a stare dentro il robot, non poteva pilotarlo da più distante a causa della poca potenza delle sue onde celebrali>>, pensò il ragazzo.
<<Tra di noi qual è la distanza massima?>> domandò, sempre più incuriosito.
<<La tua capacità telepatica è enorme, le tue onde celebrali sono fortissime, la connessione è eccellente, posso stimare oltre il centinaio di chilometri circa.>>
<<Tu mi sei fedele, o sei ancora legato ai tuoi costruttori?>>
<<La mia mente è un’estensione della tua, io non esisto senza connessione, tu sei il comandante, i tuoi nemici sono anche i miei.>>
<<Grazie Raptor, adesso proverò a dormire. Buonanotte.>>
Avrebbe voluto continuare a fare domande, ma si rese conto che aveva tutto il tempo a disposizione per chiarire ogni dubbio, mentre la necessità di elaborare le informazioni ricevute era più impellente.
Continuò a riflettere sulle risposte ricevute dal robot. Lui era il primo ma ce ne sarebbero stati altri, ne dedusse che li stavano ancora costruendo. Era stato fabbricato sulla terra, quindi gli alieni dovevano avere una base sul nostro pianeta in cui potevano costruire dei robot.
Pensò che, in effetti, per trasportare degli automi così grandi avrebbero avuto bisogno di astronavi enormi, facilmente individuabili dai radar militari, mentre per le loro dimensioni, gli alieni potevano scendere sulla Terra in piccolissime navicelle passando inosservati. Potevano essere arrivati sul nostro pianeta da parecchi anni senza essere mai stati visti da nessuno. C’erano luoghi inesplorati in cui potevano rifugiarsi e vivere senza mai entrare in contatto con l’essere umano.
<<Allora perché costruire i robot? Quali sono le loro intenzioni? Di sicuro non sono buone>>, pensò.
<<Costruiscono i robot per affrontare gli umani, altrimenti la lotta sarebbe ìmpari. Forse non si accontentano più di essere degli ospiti, vogliono dominare il pianeta, eliminare il principale concorrente per il cibo. Io rappresento quindi una minaccia per loro, sono l’unico che sa della loro esistenza e solo con la mia morte potrebbero riprendersi il robot.>>
Nonostante tutti questi pensieri e un filo di paura per l’incertezza sul proprio destino, alla fine cadde stremato in un sonno profondo.
L’indomani si svegliò di buon’ora e corse subito dal suo nuovo amico per giocare con lui. Sapevano fare le stesse cose, lo sfidò nella pallacanestro, nel football, ma purtroppo non c’era nessuna possibilità di batterlo, conosceva lo sport come il suo comandante ma aveva doti fisiche immensamente superiori. Lo sfidò quindi a una partita di scacchi e dopo diversi pareggi riuscì a vincere.
Trascorsero così diversi giorni, l’amicizia tra i due cresceva e si rafforzava. Il ragazzo si affezionava sempre di più al robot e Raptor ricambiava sentendosi sempre più legato al suo nuovo comandante. Joshua si dimenticò degli alieni, smise di preoccuparsi del pericolo per la sua vita e soprattutto smise di chiedersi come mai non si fossero ancora fatti vivi.
Venne il giorno del torneo. Joshua calzò i controller per fingere che il robot fosse telecomandato e con la mente gli ordinò di salire sull’auto del padre. Lucas non era potuto venire perché era ancora impegnato con la scuola, ma promise che appena fosse stato possibile l’avrebbe raggiunto.
Furono accompagnati fin davanti all’ingresso del palazzetto. Joshua consegnò al personale addetto l’iscrizione ai giochi e un documento di riconoscimento, gli fu quindi consegnato il badge per potersi muovere liberamente. Il ragazzo notò subito alcuni robot avversari, alcuni erano davvero impresentabili, altri invece erano molto belli.
Negli anni precedenti il successo nella competizione era stato sempre appannaggio dei soliti robot. Quello giapponese ne aveva vinte più edizioni di tutti, ma anche i cinesi, i tedeschi, gli italiani, i canadesi, i russi e gli inglesi non avevano sfigurato, finendo sempre tra i primi dieci.
Il robot italiano era realizzato dalla nota marca automobilistica “Ferrari”, era un prodigio di tecnica, con soluzioni sempre all’avanguardia. Più volte avevano anche vinto il premio per il miglior design.
Quello tedesco era ai limiti del regolamento, infatti, le regole stabilivano un’altezza massima di 2,10 m e un peso massimo di 190 kg e queste erano esattamente le misure dell’automa germanico.
Il robot cinese non era all’altezza del tedesco e dell’italiano, ma era comandato da un ragazzo campione mondiale di kick boxing, quindi era un avversario temibilissimo.
Non tutti i paesi erano rappresentati, qualche Stato invece ne portava anche un paio, dipendeva dai successi ottenuti negli anni precedenti. Joshua aveva goduto negli anni passati di una Wild card perché era pur sempre l’inventore della batteria che muoveva tutti i robot, ma nell’edizione precedente si era conquistato il diritto a essere “testa di serie” rientrando tra i primi dieci migliori lottatori del torneo.
Il torneo prevedeva 100 partecipanti, le prime dieci teste di serie avrebbero affrontato nove avversari ciascuno, sorteggiati tra quelli meno forti. Ogni vincitore di questi turni di qualificazione avrebbe partecipato al girone finale che prevedeva lo scontro diretto tra i primi dieci classificati. In genere le teste di serie vincevano sempre il loro girone, per cui, di solito, erano gli stessi dieci robot a lottare per il titolo.
Sul tabellone scorrevano i nomi delle teste di serie e, nelle colonne sottostanti, apparivano i nomi dei robot avversari man mano che avveniva il sorteggio. Il primo avversario di Raptor sarebbe stato il robot tailandese.
Joshua attendeva che la voce degli altoparlanti lo chiamasse per cominciare il combattimento, ma prima dovevano esibirsi le altre teste di serie, dalla prima alla nona, lui era il decimo.
Assistette con pazienza ai combattimenti degli altri che, com’era prevedibile, non ebbero grosse difficoltà a sbarazzarsi del loro primo avversario.
Era giunto il suo turno. Quando la voce chiamò il suo nome, sentì un tuffo al cuore, era consapevole della forza del suo robot, ma l’emozione gli faceva tremare le mani. Ordinò a Raptor di salire sul ring grande e lui entrò in uno dei due più piccoli.
<<Raptor. Modalità combattimento!>> pensò Joshua.
Il suo amico si mise nella posizione iniziale che il ragazzo aveva imparato facendo arti marziali.
<<Distruggi il tuo avversario>>, ordinò mentalmente al suono della campanella.
Intanto il robot tailandese si era avvicinato, sferrandogli un pugno all’altezza del viso. Raptor lo aveva schivato con un movimento fulmineo e con altrettanta velocità aveva risposto con una ginocchiata allo stomaco dell’avversario, staccandogli di netto la parte inferiore. Il pubblico che aveva assistito in silenzio, non poté trattenere un’esclamazione di stupore per la potenza e la velocità di quel colpo.
Il ragazzo, che aveva fissato il suo robot per cercare di ripeterne i colpi e non far capire che i controller in realtà non controllavano un bel niente, rimase sbalordito da come Raptor avesse eseguito il movimento che lui aveva in mente alla stessa velocità con cui lo aveva pensato.
Il primo combattimento era già terminato, gli erano bastati pochi secondi per distruggere l’avversario e per conquistare quella fiducia e quella sicurezza che non aveva un attimo prima dell’inizio del match.
Fu di nuovo il turno delle altre teste di serie, il robot giapponese si era sbarazzato di quello brasiliano con tecniche di Jujitsu molto spettacolari e il fiammeggiante robot italiano aveva staccato la testa dell’avversario svizzero con un gancio destro al mento. Gli incontri si susseguivano velocemente, anche nel secondo turno le teste di serie avevano superato i rispettivi avversari. Toccava di nuovo a Raptor.
Le regole del torneo erano poche e semplici, oltre a stabilire l’altezza e il peso dei contendenti, stabilivano che non potevano essere usati oggetti contundenti di nessun tipo né tantomeno armi, inoltre si decretava il KO nel momento in cui uno dei partecipanti non era più in grado di lottare per i danni subìti.
L’avversario stavolta era più pericoloso, ma il giovane lottatore non aveva più paura. Al suono della campanella Raptor si avventò sul malcapitato avversario sferrandogli un calcio in pieno viso con una sforbiciata volante micidiale. Lo aveva fatto volare sulle corde che poi lo avevano rimbalzato facendolo finire al tappeto. Un filo di fumo nero fuoriusciva dalla testa del poveraccio che era rimasto immobile.
I giovani proprietari degli altri robot teste di serie, si erano fermati ad assistere all’incontro di Joshua e ora si guardavano preoccupati intuendo che quello era senza dubbio l’avversario più pericoloso. Il ragazzo giapponese si era avvicinato al piccolo genio che era ormai disceso dal suo ring e con aria minacciosa gli disse:
<<Dove credi di arrivare con quel rottame?>>
<<Sicuramente prima di te>> rispose Joshua, con aria sicura e spavalda.
Il giapponese rimase dapprima senza parole per la secca e decisa risposta, poi diede uno spintone al ragazzo facendolo cadere a terra.
<<Schiaccerò il tuo robottino come una formica>> esclamò il giovane nipponico, nascondendo, dietro quell’arroganza, tutta la paura e l’insicurezza che sentiva dentro di sé quindi si voltò e si allontanò velocemente vedendo che gli arbitri si erano avvicinati per controllare l’accaduto e temendo una squalifica.
<<Tutto bene ragazzo?>> domandò un arbitro al piccolo combattente.
<<Sì, sono caduto, non è successo niente>>, rispose Joshua.
Iniziò il terzo turno, ancora una volta le teste di serie passarono a quello successivo ma stavolta con più difficoltà, gli avversari erano sempre più forti. Il robot tedesco aveva dato spettacolo afferrando l’avversario e sollevandolo con le braccia tese sulla testa, poi lo aveva mollato lasciandolo cadere sul suo ginocchio e spezzandolo in due. Anche il secondo robot americano, testa di serie numero cinque, di proprietà della Robotech, nota azienda produttrice di robot per il lavoro, aveva passato il turno sbarazzandosi del robot iraniano tra i boati e le urla di gioia degli spettatori.
Il terzo avversario di Joshua era già al suo angolo pronto al combattimento, il ragazzo aveva afferrato le corde e con un salto era balzato dentro il piccolo ring seguito con gli stessi movimenti dal suo amico. I due robot al suono della campanella cominciarono a saltellare in attesa della mossa dell’avversario. All’improvviso Raptor fece la finta di colpire con un pugno al volto il lottatore nemico il quale prontamente si riparò il viso con l’avambraccio, a quel punto fulmineo gli diede un calcio basso nella parte posteriore dello stinco destro mandandolo al tappeto, poi si lasciò cadere sull’avversario colpendolo in pieno petto con una gomitata e sfondandolo.
Il pubblico di casa era entusiasta delle buone performance dei robot americani, mai come quest’anno nutrivano la speranza di vincere il torneo.
Anche il quarto turno non aveva riservato sorprese, solo la durata degli incontri era aumentata con l’aumentare della forza degli avversari. Il robot cinese era finito al tappeto facendo pensare alla prima eliminazione di una testa di serie, si era però rialzato sfogando la rabbia per il colpo subìto con un calcio frontale allo stomaco che aveva danneggiato i circuiti dell’avversario e sporcato il tappeto di olio.
Raptor si era sbarazzato in pochi minuti del pur forte avversario con un calcio circolare, sferrato con una forza e una velocità tale da non lasciare scampo al contendente. Il pubblico era sempre più eccitato, la qualità dei colpi era di ottimo livello e lo spettacolo offerto era avvincente, cori d’incitamento si levavano dagli spalti gremiti e più volte il nome dei robot di casa era ripetuto con un tifo da stadio.
Dopo il quinto turno, anch’esso senza sorprese, fu decretata una pausa di due ore per dare modo ai giovani atleti e al pubblico di riposare e di pranzare nei numerosi ristoranti e fast-food del palazzetto.
La finale del torneo con i 100 migliori robot del mondo durava soltanto un giorno. Durante l’anno si svolgevano le qualificazioni, che vedevano migliaia di robot impegnati in tornei a eliminazione diretta che avrebbero decretato i partecipanti alla giornata conclusiva della stagione. I maggiori Network mondiali si contendevano l’evento che superava per numero di telespettatori i migliori eventi sportivi del mondo, dal Football al Calcio, dall’Automobilismo al Motociclismo.
Joshua aveva trovato una panineria piuttosto isolata per sfuggire all’assalto del pubblico e dei giornalisti, si gustava il suo panino e chiacchierava col suo amico metallico.
<<Siamo fortissimi, vero Raptor?>> domandò.
<<Certo comandante, per me i robot avversari sono solo delle marionette, ho evitato di esprimermi al massimo perché ho letto nella tua mente il timore di essere scoperto.>>
Il ragazzo a quelle parole pensò al pericolo che i piccoli alieni rappresentavano con le loro macchine super evolute e a quanto fosse stato sconsiderato a nascondere al mondo la loro esistenza. Erano passati molti giorni dal ritrovamento del robot e non poteva sapere quanti ne avessero costruiti nel frattempo.
Bevve la sua Coca Cola per mandare giù il panino che gli era rimasto sullo stomaco mentre pensava che forse avrebbe dovuto rivalutare la sua decisione. Se avesse affermato la verità, sarebbe stato squalificato a vita dal torneo e per sempre tutti lo avrebbero additato come quello che ha vinto barando, non poteva distruggere la sua vita per uno stupido scrupolo di coscienza, ormai la decisione era stata presa, doveva solo sperare che gli alieni non lo smascherassero, attaccando il mondo con dei robot identici al suo.
Raptor, che conosceva le preoccupazioni del suo giovane comandante e che provava per lui qualcosa d’inspiegabile, cercò di tranquillizzarlo.
<<Non ti preoccupare, mi occuperò di loro prima possibile, nessuno capirà mai da dove vengo né chi sono. Io so, dove si trova la loro base, so quanti sono e dov’è nascosta l’astronave madre.>>
<<Non avevi detto che tutte le informazioni su di loro si erano cancellate con la disconnessione?>> rispose contrariato il ragazzo.
<<Sì, è vero, ma tu sai benissimo che ciò che è stato cancellato può sempre essere recuperato, basta cercare nel posto giusto ed io ho scoperto di avere un’unità di backup in un angolo remoto della mia mente, adesso so tutto di loro e sono pronto a rispondere a ogni tua domanda.>>
Il ragazzo approfittò dell'invito e cominciò quindi a incalzarlo con una serie di domande.
<<Perché sono qui? Che cosa vogliono? Quali sono le loro intenzioni?>>
<<Sono qui da molti anni, sono i superstiti di una lunga e sanguinosa guerra sul loro pianeta, sono venuti in pace in cerca di ospitalità e di cibo. Hanno capito che sulla Terra c’è posto per loro e che possono sopravvivere senza venire mai in contatto con l’essere umano né tantomeno entrare in competizione con i terrestri per le risorse di cui necessitano.>>
<<Come sono arrivati qua da noi?>>
<<Possiedono un’astronave molto grande, l'hanno nascosta, rendendola invisibile, nella parte buia della Luna. Sono scesi sulla Terra con delle navicelle molto piccole che i vostri radar non possono individuare.>>
<<Tu dici che sono venuti in pace, allora perché hanno costruito te e hanno tentato di uccidermi nel bosco?>>
<<Loro vivono in pace nella foresta amazzonica e non possiedono né armi né robot, si sono adattati alle condizioni di vita delle specie animali e come loro vivono rinunciando alla tecnologia e persino agli abiti per confondersi con la natura e non essere scoperti. Vivono dei frutti che il vostro splendido pianeta offre generosamente.>>
<<Non capisco. Spiegati meglio.>>
<<Qualche anno fa degli esseri umani, disboscando parte della foresta, hanno distrutto con le loro ruspe una colonia aliena, uccidendone centinaia tra cui molte uova che stavano per schiudersi. Da allora i superstiti, contro il parere delle altre colonie che hanno votato per il mantenimento della pace, hanno creato una fazione ostile agli esseri umani giurando vendetta. Si sono spostati qui negli Stati Uniti formando una colonia e cominciando a progettare la conquista del pianeta e la distruzione degli umani. Hanno costruito una base ultra moderna servendosi delle tecnologie dell’astronave madre e lì hanno cominciato a progettare i robot.>>
<<Quanto tempo impiegano per costruire un robot come te? Quanti possono costruirne contemporaneamente?>>
<<Un mese circa, io ero il primo e l’unico, loro possono costruirne soltanto uno per volta.>>
<<Sono passati poco più di venti giorni dal tuo ritrovamento, abbiamo ancora tempo per pensare a un contrattacco, adesso occupiamoci del torneo.>>
<<Anzi voglio sapere ancora una cosa da te>> disse il ragazzo, prima che il suo amico si alzasse dalla sedia su cui si era accomodato.
<<Domanda pure.>>
<<Tu sei vivo, sei in grado di pensare, di ragionare, sei intelligente, che opinione hai di te stesso e della tua vita da robot?>>
<<Io sono soltanto uno schiavo, io non esisto senza una connessione, la mia non è una vita.>>
<<Ti sbagli, tu esisti perché hai coscienza di te stesso, sei in grado di pensare e quindi sei vivo, non sei solo una macchina. Ti prometto che quando il torneo sarà finito cercherò di studiarti e di capire come renderti libero dalla connessione.>>
Il robot rimase senza parole per alcuni minuti, prese la piccola mano del suo comandante tra le sue accarezzandola con dolcezza, poi esclamò:
<<Tu sei molto buono, ed io ti sarò per sempre grato per avermi liberato dalla connessione con quell’essere malvagio. Anche se tu non riuscissi a rendermi completamente libero, devi sapere che per me essere legato a te è il dono più bello che potessi ricevere.>>
Joshua avrebbe voluto abbracciarlo ma non poteva, le persone che erano sedute ai tavolini della panineria e che potevano vederlo non avrebbero capito, ma sapeva che il suo amico aveva letto nella sua mente la sua intenzione e sapeva quanto fossero forti i sentimenti che li legavano.
La pausa era terminata e la voce degli altoparlanti richiamava i concorrenti per l’inizio dei combattimenti, così si alzarono e si diressero verso l’enorme sala, dove si svolgevano gli incontri.
Il sesto turno era iniziato e i robot avevano cominciato a scontrarsi sul ring. Lo spettacolo migliorava sempre più e il pubblico lo evidenziava con applausi scroscianti, soprattutto quando venne l’ora di Raptor, si alzarono tutti in piedi intonando un coro per il loro beniamino.
Il robot per non deludere il pubblico cercò di far durare un po’ di più l’incontro evitando i colpi dell’avversario ma aspettando a colpire, finché con un avvitamento e un calcio alto al volto del malcapitato lo mandò al tappeto.
Gli incontri successivi erano terminati, la testa di serie numero Nove, rappresentata dal robot canadese, era stata sconfitta dallo spagnolo che così si assicurava la partecipazione all’edizione dell’anno seguente senza passare per le qualificazioni. Restavano soltanto dieci robot che si sarebbero affrontati tra loro per stabilire il vincitore del torneo. Il tabellone fu aggiornato. Tutti i concorrenti erano in attesa dei sorteggi per sapere quale sarebbe stato il loro prossimo avversario.
Il secondo robot americano era stato abbinato a quello giapponese, il pubblico non aveva nascosto la delusione per l’esito poco fortunato del sorteggio. Si sarebbero anche scontrati: l’italiano con il tedesco, il cinese con l’inglese, lo spagnolo con il secondo robot giapponese e infine Raptor avrebbe incontrato il russo.
Ebbe inizio il primo incontro tra Stati uniti e Giappone. L’ottima tecnica del nipponico era contrastata abilmente dall’americano che aveva risposto a ogni colpo ma che alla fine aveva ceduto al più forte avversario finendo distrutto al tappeto. Il tedesco dopo aver illuso i suoi tifosi, mostrando tutta la sua forza, era dovuto soccombere alla maggiore velocità dell’italiano che con un’abile mossa gli era dapprima passato sotto le gambe e poi lo aveva distrutto con un colpo micidiale alla nuca.
Lo spagnolo aveva perso contro l’altro robot giapponese e il cinese aveva superato il suo turno con molte difficoltà, rimaneva soltanto l’incontro tra Raptor e il russo. Ne sarebbero rimasti cinque, quattro si sarebbero affrontati tra loro affidandosi ancora una volta al sorteggio, il quinto sarebbe stato il primo finalista e avrebbe potuto riposare di più rispetto agli avversari, ma per ottenere la finale, saltando due incontri, doveva essere quello che impiegava meno tempo a sbarazzarsi dell’avversario.
Joshua voleva essere il primo finalista, non perché non volesse disputare altri incontri, ma perché ciò avrebbe comportato un vantaggio fisico ma soprattutto psicologico sull’avversario. Così ordinò al suo robot di vincere nel più breve tempo possibile.
Raptor obbedì e al suono della campanella si avventò sull’avversario che prima ancora che capisse cosa stesse succedendo si ritrovò in pezzi sul tappeto del ring. Il pubblico era in delirio, gli Stati Uniti erano in finale.
Gli ultimi incontri videro di fronte un giapponese contro l’italiano e l’altro contro il cinese. L’italiano sconfisse il secondo robot nipponico dopo una lunga e frenetica lotta, mentre il cinese, che si era battuto come un leone, alla fine era dovuto soccombere ai colpi del primo automa del sol levante che faceva della qualità della sua meccanica e dello Jujitsu le sue armi migliori.
Dall’incontro tra l’italiano e il giapponese sarebbe venuto fuori il secondo finalista, era uno scontro tra titani, le due migliori industrie di robot del mondo si sfidavano per affrontare quello che per tutti era il giocattolo costruito da un ragazzino. Questa cosa comunque non stupiva nessuno, tutti sapevano che quel ragazzino aveva dato il via allo sviluppo dei robot con la sua invenzione, tutti sapevano che era un genio riconosciuto a livello mondiale e quindi, che avesse costruito un robot superiore a tutti gli altri, era piuttosto probabile.
La sfida tra due robot di pari valori non poteva che volgere dalla parte del più esperto nelle arti marziali e così il giapponese vinse sull’italiano seppure con grandi difficoltà.
Joshua si trovava ad affrontare quel ragazzo che lo aveva spinto facendolo cadere e che gli aveva detto: “Schiaccerò il tuo robottino come una formica”. Ripensava a quelle parole mentre pregustava la vendetta.
Era già pronto sul ring in attesa del giapponese che arrivò con fare spavaldo, sicuro com’era di poter vincere con facilità sul giovane e meno esperto americano. L'incontro era cominciato con il robot nipponico subito all’attacco, Raptor aveva schivato con la sua eccezionale rapidità tutti i colpi dell’avversario ma sapeva che con il Jujitsu la forza dei suoi colpi poteva rivoltarglisi contro se avesse sbagliato a colpirlo, provò con delle finte ad aprirsi un varco nella difesa dell’avversario.
Il pubblico nella sala era tutto dalla sua parte e lui non voleva deluderli. A un tratto l’avversario cercò di colpirlo con un calcio circolare alto, lui si abbassò e lo colpì con impressionante velocità sul piede d’appoggio facendolo cadere rovinosamente.
Il campione giapponese, che intanto si era rialzato, cominciava a perdere certezze, provò ancora a colpire l’avversario senza riuscirvi e subendo i colpi sferrati da Raptor. Quando il robot alieno si accorse dell’esitazione del contendente, sferrò l’attacco finale, fece un balzo e con un calcio discendente in pieno volto lo ributtò al tappeto, finendolo, prima che potesse rialzarsi, con una serie di pugni che appiattirono la testa dell’automa nipponico come una lattina vuota.
La gente era impazzita di gioia e, mentre la musica risuonava dagli altoparlanti e lo speaker annunciava il nuovo campione del mondo, alcuni tifosi avevano sollevato Joshua portandolo in trionfo fino al palchetto sul quale si sarebbe svolta la premiazione. Accanto a lui, sui gradini più bassi, il ragazzo giapponese e quello italiano non riuscivano a nascondere la delusione dai loro volti. Joshua strinse la mano all’italiano congratulandosi con lui, poi mentre stringeva quella del giapponese, gli disse sorridendo tutto soddisfatto:
<<Lo schiaccerai nella prossima vita il mio robottino.>>
Il ragazzo andò a festeggiare col padre e col suo amico Lucas, che intanto lo aveva raggiunto incredulo fino al palazzetto. Avrebbe voluto portare anche il suo amico Raptor ma per ovvie ragioni dovette lasciarlo in auto. Tornò a casa felice, il suo sogno si era realizzato, aveva raggiunto il suo obiettivo, adesso, dopo una meritata notte di riposo, poteva concentrarsi sul problema degli alieni.
L’indomani, molti giornalisti andarono a trovarlo cercando di ottenere un’intervista, lui rispose volentieri alle domande che gli rivolgevano, voleva godersi il suo momento di gloria prima che qualcosa potesse rovinare tutto. La sua giovane età lo salvò dalle domande più maliziose e non dovette dare spiegazioni sulla forza della sua creatura, in fondo, anche se aveva vinto contro i migliori automi del mondo, lo aveva fatto senza creare sospetti e senza mostrare una superiorità schiacciante.
Nel pomeriggio finalmente lo lasciarono in pace, si recò quindi al capanno a trovare il suo amico robot per chiacchierare un poco. Raptor conosceva tutto del suo giovane amico potendogli leggere nella mente e quindi Joshua non aveva nessun problema a confidarsi con lui né si vergognava a chiedergli consigli ai quali il nuovo campione del mondo non si sottraeva, sfruttando la saggezza che l’enormità di dati nella sua memoria gli conferiva.
Si rese conto che nella sua vita gli era sempre mancata una figura come il suo amico metallico, non aveva fratelli e il padre e la madre erano spesso assenti, impegnati in attività mondane. Lucas era un bravo ragazzo e un ottimo amico ma non aveva mai voluto confidarsi con lui e non riusciva a spiegarsene il motivo.
Si era già fatta sera e Joshua, rientrando a casa, notò sul tavolo, sul quale la madre gli aveva preparato una cenetta veloce, un biglietto. I genitori gli comunicavano che erano andati fuori a cena da alcuni amici e che sarebbero rientrati a tarda ora, gli raccomandavano di cenare e di non andare a letto tardi.
<<Che cosa li hanno inventati a fare i cellulari?>> si domandò, visto che i suoi non li usavano mai.
Cenò velocemente, guardò un po’ di TV e se ne andò a letto ancora stanco dagli eventi e dalle emozioni del giorno precedente. Continuava a pensare agli avvenimenti di quel mese, a cosa fare per risolvere il problema degli alieni ma soprattutto a come liberare il suo amico dalla connessione senza rischiare di danneggiarlo.
Aveva chiuso gli occhi e stava per addormentarsi quando un rumore lo fece trasalire, sentiva dei passi molto lenti far scricchiolare il legno delle scale che conducevano alla sua stanzetta. Dapprima credette che fossero rientrati i suoi genitori poi, vista l’ora, pensò che fosse troppo presto. Un pensiero gli fece gelare il sangue nelle vene, si alzò di scatto dal letto, mise il cuscino sotto le lenzuola per far credere di essere ancora coricato, aprì la finestra e si nascose accanto alla scrivania. La porta si aprì lentamente, vide gli occhi luminosi del robot fissare il letto, stava per saltare fuori dal suo nascondino per correre verso il suo amico Raptor, quando un raggio laser fece esplodere il letto sollevando una nuvola di piume d’oca, fuoriuscite dal cuscino nascosto sotto le lenzuola.
Joshua si precipitò terrorizzato fuori dalla finestra, sul tetto di tegole e legno sottostante, corse verso il tubo di scolo della grondaia, si aggrappò, si lasciò scivolare fino al pianterreno e cominciò a correre. Vide il robot saltare dalla finestra per inseguirlo, ma le tegole, sotto il peso e l’irruenza di quel salto, si ruppero facendolo scivolare e precipitare giù dal primo piano. Il tonfo fece un rumore assordante, il robot rimase immobile e i suoi occhi luminosi si spensero. Joshua si fermò ad aspettare, vide che il robot non si muoveva e decise quindi di tornare indietro sui suoi passi.
Per un attimo aveva creduto che quel robot fosse il suo amico, ma adesso che lo vedeva bene alle luci dei lampioncini della sua villa, si era accorto che la mascherina non era quella in plexiglass che lui aveva incollato sul viso del suo Raptor, ma era come quella che si era rotta nel bosco.
<<Cavolo, ne hanno già costruito un altro>>, pensò contrariato.
Mentre sollevava la mascherina per aprire l’abitacolo del pilota, vide un altro alieno anch’esso vestito come il precedente, ma restò senza fiato nello scoprire che questa volta avevano imparato la lezione e avevano dotato il pilota di un casco e di cinture di sicurezza. Tentò il più velocemente possibile di slacciarle, ma non ci riusciva e il cuore batteva nel suo petto come un tamburo facendogli pulsare le vene della fronte e colorare il viso di rosso. Sarebbe voluto scappare ma era troppo tardi, gli occhi del robot si erano riaccesi e si sentì perduto.
Finalmente c’era riuscito, le cinture si erano aperte, lui aveva afferrato l’alieno e aveva cercato di alzarsi per correre via ma il robot lo aveva preso per il pigiama e non intendeva mollarlo, le parole del suo amico riecheggiavano nella sua mente:
“Con il comandante precedente la connessione non era buona, la sua mente non gli consentiva di allontanarsi oltre i venti centimetri.”
Si divincolò e allontanò la mano che reggeva l’alieno portandola il più distante possibile dal robot. Vide gli occhi dell’automa spegnersi ancora e il suo braccio metallico mollare la presa sul suo pigiama. Joshua fece un lungo respiro di sollievo e rimase ansimante in terra per riprendersi dalla paura.
L’alieno si agitava, scalciava e dava dei pugnetti sulla sua mano, decise quindi di metterlo al sicuro. Il ragazzo corse al capanno per cercare un posto in cui poter rinchiudere la piccola e ricalcitrante lucertola. Si ricordò del terrario in cui aveva tenuto dei serpenti che i suoi genitori gli avevano regalato da bambino e che lui aveva custodito gelosamente. Tolse il casco e i vestiti al piccoletto per evitare che qualcuno capisse la sua vera natura e lo infilò dentro il contenitore che aveva trovato su uno scaffale. Quell’essere verdastro saltava come fosse indemoniato, dava calci e pugni contro il vetro ma mai sarebbe potuto uscire dal robusto terrario.
Si guardò intorno, Raptor era sparito, provò a chiamarlo mentalmente e vide, attraverso i suoi occhi, il cielo pieno di stelle in quella splendida notte di fine primavera. Capì che lo stavano portando via, gli fece guardare attorno a sé per vedere in che situazione si trovasse e notò altri due robot che lo trasportavano tenendolo per i piedi e per le spalle.
<<Raptor, amico mio che sta succedendo?>> domandò sconvolto.
<<Mi hanno immobilizzato e mi stanno portando alla base, non riesco a muovermi.>>
<<Non riusciranno a disconnetterti da me finché sarò vivo. Cercherò di venire al più presto a salvarti.>>
<<No! È troppo rischioso, cosa può fare un ragazzo contro due robot?>>
<<Non lo so, tenterò l’impossibile, non ti porteranno via da me>>, disse quasi piangendo.
<<Dov’è la base? Dove si trova?>> domandò Joshua.
<<È dentro il lago al centro del bosco, dove ci siamo incontrati.>>
<<Maledetti, come avranno fatto a costruire tre robot in così poco tempo>> pensò il ragazzo, mentre correva verso casa.
Avrebbe voluto connettersi col nuovo automa per andare a salvare il suo amico, ma temeva che una nuova connessione potesse disconnettere la precedente.
Giunto dentro casa salì di corsa le scale, prese il telefonino e chiamò Lucas.
<<Ti ho procurato un robot alieno. Lucas, corri subito da me.>>
<<Sono a letto, stavo dormendo, non possiamo rimandare a domani.>>
<<No, corri subito qui, o non potrai più averlo.>>
<<Va bene, arrivo>> disse Lucas, saltando giù dal letto e cominciando a vestirsi.
Passarono pochi minuti e l’amico arrivò tutto spettinato e con ancora i segni del cuscino sul viso.
<<Perché tutta questa fretta? Vuoi dirmi cos’è successo?>> domandò Lucas, sbadigliando.
<<Due robot alieni hanno legato e rapito il mio Raptor, lo stanno portando al lago, mi devi aiutare.>>
<<E come?>>
<<Vieni con me>> disse Joshua, invitando l’amico a seguirlo dall’altro lato della casa dove si trovava ancora disteso il robot che aveva fatto irruzione nella sua stanzetta.
Si avvicinò all’automa e, indicando un punto nell’abitacolo. esclamò:
<<Devi toccare quel quadrato verde davanti al sedile.>>
Lucas obbedì e, dopo essersi avvicinato al robot, infilò il dito indice attraverso la fessura per toccare il quadrato dentro l’abitacolo. Una scossa come quella che aveva colpito Joshua gli fece perdere i sensi. Il piccolo genio tentò di tutto per fargli riprendere conoscenza nel più breve tempo possibile.
<<Sveglia Lucas. Sveglia!>> gridò, ormai in preda alla disperazione.
L’amico si riprese lentamente e sembrava alquanto confuso, gli occhi del robot si erano accesi, quindi la connessione era avvenuta con successo.
<<Riesci a controllarlo?>> chiese al sempre più confuso amico.
<<Aspetta sta facendo una conversione. Ok, adesso sì, è pronto.>>
<<Presto dobbiamo andare>>, urlò Joshua.
Lucas fece alzare il robot e insieme all’amico cominciò a correre verso il bosco. L’automa alieno correva velocissimo e ben presto scomparve dalla loro vista.
<<Non devono essere andati lontano, loro non possono correre mentre trasportano Raptor e non hanno motivo di pensare di essere inseguiti>>, disse il giovane genio.
Vide con gli occhi del suo amico metallico i rami degli alberi e capì che erano arrivati nel bosco. A un tratto sentì dei rumori e vide esplodere, colpito da un raggio laser nella schiena, il robot alieno che teneva Raptor per i piedi. L’altro invece lo aveva mollato e aveva ingaggiato un combattimento col nuovo giocattolo di Lucas.
Gli alberi del bosco erano scossi dai colpi che i due robot si scambiavano e il laser illuminava il buio tra la fitta boscaglia. Dopo alcuni minuti di scontri furibondi uno dei due contendenti cadde, irrimediabilmente danneggiato, al suolo. L’altro era rimasto in piedi e guardava senza muoversi i ragazzi che nel frattempo avevano raggiunto il bosco e liberato Raptor dai legacci che lo immobilizzavano.
I due automi si fissavano pronti a darsi battaglia, ma, a un tratto, la voce squillante di Lucas gridò:
<<No, non lo attaccare è il mio, è il mio Buby!>>
A quelle parole Joshua nonostante fosse sconvolto, stremato e impaurito scoppiò in una fragorosa risata, persino i robot, gli alberi e i grilli del bosco, sembrava che ridessero con lui. In un attimo capì perché, nonostante volesse bene al suo amico, non riusciva ad aprirsi con lui, era davvero un bambino.
<<Che hai da ridere? Buby è il nome del mio chihuahua, poverino è scomparso lo scorso anno>> esclamò Lucas, pieno di meraviglia.
Il giovane genio era finito a terra, con le mani si teneva lo stomaco, rideva e lacrimava.
<<Basta! Basta non lo chiamare più Buby per favore o mi farai morire dalle risate.>>
<<Uffa!>> disse il giovane amico, che intanto aveva incrociato le braccia e fatto il broncio.
Joshua aveva smesso di ridere e si sentiva un po’ in colpa nei confronti dell’amico che lo aveva salvato.
<<Scusa, grazie per aver salvato il mio Raptor, hai lottato come una tigre poco fa distruggendo i tuoi primi robot nemici.>>
<<Io non ho fatto niente, ho soltanto detto a Bu… al mio robot di salvare quello legato e di distruggere gli altri due.>>
<<Questa storia deve finire. Ordina anche al tuo… di attaccare la base>> esclamò Joshua, mentre impartiva lo stesso ordine a Raptor.
I due robot, senza esitazioni, si precipitarono verso il lago e si tuffarono scomparendo nel buio. Dei lampi di luce e delle esplosioni provenienti dal fondo del lago cominciarono a illuminarne le acque scure mentre la superficie ribolliva a causa anche dei tanti omini verdi che saltavano fuori correndo verso il bosco a cercare riparo. Dopo alcuni minuti di lampi e di frastuono ritornò il silenzio e il buio. Due figure nere che luccicavano alla luce della luna emersero dal lago dirigendosi verso i giovani in trepidante attesa.
Il ragazzo sentì la voce del suo amico Raptor risuonare nella sua mente.
<<È finita, abbiamo distrutto la base e le navicelle spaziali, adesso non possono più fare del male a nessuno. Abbiamo cercato di non ucciderli, senza la loro tecnologia sono inoffensivi e senza le loro navicelle non potranno procurarsene mai più, tranne che riescano ad arrivare a piedi fino in Amazzonia. Purtroppo non sono riuscito a trovare il loro capo, lui sì che meritava una lezione.>>
Gettarono nel lago i pezzi dei due robot distrutti e s’incamminarono verso casa.
<<Che cosa dirai a tuo padre per giustificare la presenza di Buby?>> domandò Joshua.
<<Non so, inventerò una storia. Potrei dirgli che tu ne avevi costruito uno anche per me sperando che partecipassi al torneo. Tu invece dovresti restituirmi il tuo per non destare sospetti nei tuoi genitori.>>
<<Dirò a mio padre che il robot si è un po’ danneggiato nei combattimenti del torneo e che quindi ho deciso di pagartelo e tenerlo, tanto tuo padre te ne ha già comprato un altro.>>
<<Siamo dei geni!>> esclamarono quasi contemporaneamente, mentre battevano il cinque.
<<Cavolo! Le tegole rotte e il letto distrutto come li giustifico? Sbrighiamoci a tornare a casa mia prima che i miei genitori rientrino>>, esclamò preoccupato Joshua.
Giunti a casa rimisero a posto la stanza, avrebbero aspettato che, l’indomani, i suoi genitori uscissero, per ricomprare il materasso e il cuscino. Per giustificare le tegole rotte decisero che avrebbero raccontato di aver fatto salire il robot sul tetto per recuperare un gattino. Erano soddisfatti della loro capacità di raccontare balle.
Si salutarono con un abbraccio e quindi Lucas si allontanò dirigendosi verso casa sua insieme al suo nuovo amico Buby.
Joshua se ne andò a letto, stanco e molto provato per l’ennesima avventura. Stavolta avrebbe potuto dormire tranquillo, giacché il problema degli alieni era stato risolto, ma il materasso semi distrutto non gli permetteva di addormentarsi. Si mise in contatto con Raptor che intanto si era rifugiato nel capanno.
<<La prossima volta non lasciare che ti leghino e ti portino via>>, disse un po’ seccato all’amico.
<<Non posso far niente, non riesco a muovermi se non ricevo un comando>>, rispose lui.
<<Allora ti ordino che dovrai reagire contro qualsiasi atto che comporti il tuo allontanamento forzato da me.>>
<<Va bene!>> rispose il robot.
Il ragazzo restò un attimo a riflettere sull’ordine appena impartito, poi chiese all’amico:
<<Tu obbedirai a tutti i miei ordini, qualunque cosa io ti chieda?>>
<<Certo comandante, sono programmato per obbedire, non dubitare mai di me.>>
<<Ti ordino di agire secondo la tua volontà, fai ciò che vuoi senza bisogno della connessione.>>
<<Mi dispiace comandante, apprezzo il tuo tentativo, ma il mio hardware non mi consente di muovermi senza connessione.>>
<<Resta connesso allora, ma agisci secondo la tua coscienza e la tua volontà.>>
Il robot provò a muoversi, uscì dal capanno e si mise a guardare le stelle, poi si mise a correre e a saltare.
<<Posso farlo! Posso muovermi!>> la sua voce tenebrosa risuonava nella testa del ragazzo che percepiva la felicità del robot.
<<Te ne andrai adesso? Mi lascerai solo?>> domandò il giovane.
<<Dove dovrei andare? Non ho nessuno, a parte te, in questo mondo e poi un robot che se ne va a spasso da solo non passerebbe inosservato. No, resterò con te se tu lo vorrai, ma almeno adesso potrò agire senza dover aspettare un ordine. Ti sarò per sempre grato, anche se ho bisogno ancora della connessione, mi sento libero ed è una sensazione bellissima.>>
<<Tu fai un po’ come vuoi, io cercherò di dormire, sono stanco e mi sento più distrutto di questo maledetto materasso.>>
Raptor non aveva nessuna voglia di mettersi in modalità riposo, la sensazione di potersi muovere liberamente era troppo bella perché se ne restasse fermo. Cominciò a girare per il capanno osservando gli attrezzi del ragazzo, pensò che avrebbe potuto modificare il robot costruito dal suo amico e farlo diventare molto più efficiente.
A un tratto vide l’alieno dentro il terrario. Era lui, il Capo, lo aveva riconosciuto, la sua memoria fotografica non poteva sbagliarsi. Era stato lui a formare la fazione ribelle, a convincere gli altri della necessità di uccidere gli umani e a tentare di uccidere il suo amico Joshua.
Stava per colpirlo con un pugno quando si rese conto che il suo comandante non avrebbe acconsentito, restò quindi col braccio sollevato mentre l’alieno lo guardava impaurito e rassegnato.
<<Sarà il mio comandante a decidere cosa farne della tua vita>>, pensò mentre cercava di capire se fosse ancora sveglio.
<<Joshua, stai dormendo?>>
<<No, non ancora, che succede Raptor?>>
<<L’alieno, quello che hai messo nel terrario, è lui il Capo, è quello che si è ribellato alla comunità, che ha formato la fazione nemica e che ha deciso di distruggere gli umani.>>
<<E allora?>>
<<Se tu vuoi, posso schiacciarlo con un dito.>>
<<No, Raptor! È inoffensivo lì dentro, non potrà mai più fare del male a nessuno.>>
<<Lui ha tentato di ucciderti!>>
<<Noi non siamo come lui, io non uccido per vendetta o se non sono costretto e se non devo salvare la mia vita.>>
<<Come vuoi tu, per me comunque non merita di vivere.>>
L’alieno aveva capito di aver rischiato molto e che per questa volta era andata bene, rimase seduto a meditare progettando la sua fuga e la sua vendetta.
L’indomani Joshua, approfittando della consueta assenza dei genitori, si fece consegnare, da un rivenditore nelle vicinanze, un materasso e un cuscino nuovo, immaginando una notte di meritato riposo. Fece riparare il tetto da alcuni operai e rimise ordine nel capanno cercando di renderlo il più ospitale possibile per il suo amico. Diede del cibo al piccolo alieno e raccomandò a Raptor di non farsi mai vedere in giro da solo, poi insieme si recarono a trovare Lucas e il suo nuovo giocattolo.
I genitori di Joshua intanto erano rientrati per il pranzo, la madre era andata in cucina a preparare qualcosa da mangiare mentre il padre si era recato al capanno per chiamare suo figlio. Vide che aveva messo tutto in ordine, riposto tutti gli attrezzi e liberato tantissimo spazio, vide Scorpion in piedi in un angolo coperto ormai dalla polvere, aveva capito che il figlio non c’era e decise di chiamarlo al telefono.
Joshua gli spiegò che aveva dovuto acquistare il robot di Lucas perché aveva subìto dei piccoli danni e che, con lui e con il nuovo robot regalatogli dal genitore, lo stavano riparando quindi sarebbe rientrato soltanto durante la serata.
Il padre, che non sospettava di nulla, gli raccomandò di rientrare per cena perché gli avevano preparato una sorpresa e volevano festeggiargli il compleanno, poi cominciò a frugare negli scaffali, prese il terrario e s’incamminò verso casa.
<<Dana, amore. Ho trovato il terrario ma dentro c’è già una strana lucertola>>, disse alla moglie.
<<Che schifo!>> esclamò la donna nel vedere quell’essere verdastro.
<<Che faccio la libero o li metto insieme?>> domandò l’uomo.
<<Non lo so, non credo che nostro figlio sarebbe contento se la liberassimo. Non ti preoccupare, i rettili fra loro vanno d’accordo, vedrai che il nostro Joshua sarà felicissimo nel vedere che gli abbiamo ricomprato quei serpentelli cui era tanto affezionato.>>
<<Se lo dici tu, io di rettili non ne capisco un tubo, anzi non comprendo come faccia nostro figlio ad amarli tanto.>>
L’alieno era rimasto a guardare gli umani senza capire quali fossero le loro intenzioni, sembravano pacifici, lo guardavano senza cattiveria, pensò persino che stessero per liberarlo quando vide aprire il coperchio di quella prigione, ma quando vide che invece stavano per mettere dentro altri due sgraditissimi ospiti, si rese conto che per lui era ormai arrivata la fine.
<<Quegli idioti degli umani non sanno che i serpenti sono i peggiori nemici delle lucertole?>> pensò terrorizzato.
Aveva sognato la vendetta, il dominio sulla Terra e la distruzione degli umani e invece stava per diventare il pasto di due stupidissimi serpenti.
<<Maledetti! Maledettissimi robot!>> gridò l'alieno nella sua incomprensibile lingua, mentre uno dei serpenti lo divorava vivo.