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CENNO STORICO

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FINO AL 1848

Grave compito è quello di stendere spassionata storia, giacchè più spesso o per malignità della natura umana, o per simpatie che uno scrittore nutra per dati uomini o per date forme di governo o di indirizzi morali, o perchè il tempo non abbia permesso che i fatti venissero dal freddo soffio della storia presentati nella loro nudità e nella concatenazione che hanno nel movimento cosmico, ne avviene che le storie sieno o svisate o esagerate o mentite; ragione che suggerì a Montesquieu quelle dure parole che: Les histoires sont des faits faux composés sur des faits vrais, ou bien à l'occasion des vrais[1].

Noi ci siam preposti di attenerci scrupolosamente al vero, nè di scostarvici nemmeno per amor di patria o di libertà.

Noi riteniamo che importante sia la storia che presentiamo, perchè è storia di eroiche gesta di un popolo che, perchè volle,—e fortemente volle,—seppe riacquistarsi la propria libertà; seppe rivendicare diritti che la prepotenza del più forte gli aveva rapiti; di un popolo che dalla disperazione di un grave servaggio seppe inspirarsi a forti sensi, e vincere,—perchè

Una salus victis nullam sperare salutem[2].

Imparino da essa i nepoti le forti virtù del cittadino che ha la coscienza della propria dignità, dei proprii dritti! Conosca come il perseverar ne' forti propositi conduca a raccogliere larga messe anche da arido terreno! Comprenda che non è vivere il trascinare i giorni nel servaggio, e come non si possa sperare miglioramento nella tirannide fuorchè da' disperati propositi di un animo ardito, di volontà perseverante e di un braccio vigoroso; giacchè il tiranno non muta sensi per ragion qualsiasi:—può simular pentimento nella sventura, ravvedersi non mai! Il sangue de' tiranni, cantò Byron, non è sangue umano: essi, come demonii incarnati, si abbeverano del nostro sino a che non venga il tempo di renderlo alle tombe:—a quelle ch'essi hanno tanto popolate[3].—Veda infine il popolo che santo è il morir pella patria; giacchè in tal caso si muor nel mondo, ma si rivive ne' cuori, e s'acquista onor di pianti

Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato, e finchè il sole Risplenderà su le sciagure umane[4].

La storia delle cinque giornate vivrà eterna in Italia finchè il sentimento dell'onor nazionale, dell'amor patrio e della gratitudine a'caduti non sian soffocati colla libertà e colla morte politica della patria.

Prima però d'intraprendere la storia di quelle giornate riteniamo utile dare uno sguardo fuggevole agli anni che precedettero quell'epoca: e lo facciamo.

Sin dal 1815 noi vediamo l'esistenza della setta dei Carbonari e dei Calderari. Nel luglio 1820 i Carbonari del regno di Napoli principiaron la rivoluzione che si estese anche alla Sicilia, e che, trionfante, obbligò quel re a giurare una costituzione che spergiurava ben tosto e soffocava nel sangue. In Lombardia pure cospirarono i Carbonari, ma furon repressi con eccessivo rigore; fra questi s'annoverò Silvio Pellico da Saluzzo, che venne condannato al carcere duro nella fortezza dello Spielperg in Moravia.

Nel 1821 regnava in Piemonte Vittorio Emanuele I, principe buono, di mediocre ingegno, di carattere irresoluto: da Napoli penetrata in Piemonte la rivoluzione per mezzo delle società segrete, essa trovò appoggio in Carlo Alberto, e vi scoppiò nel marzo di quell'anno. Vittorio Emanuele, legato colle potenze estere nella promessa di non concedere costituzione, anzichè darla spergiurando, abdicò nulla concedendo. Ma la concesse Carlo Alberto, nominato reggente; annullandola poi tosto Carlo Felice, successo nel regno a Vittorio Emanuele. Carlo Alberto fu allontanato allora e spedito in Spagna a combattervi la trionfante insurrezione.

Pel Lombardo-Veneto nel 1821 siedette una commissione terribile in Venezia, incaricata di redigere i processi de' Carbonari che avevano agitate le provincie lombarde e venete. La commissione era presieduta dal conte Guglielmo Gardani, ed aveva per membri Salvotti e Tosetti; segretario n'era De Rosmini. A Milano arrestavasi, a Venezia si procedeva. Fra i primi arrestati vi furono Castilia, Palavicini e Confalonieri: a Venezia fra i prigionieri vi furon da principio condotti anche Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Canova, il professor Rossi. Con sentenza 29 agosto 1821 di quella Commissione si condannava a morte Antonio Solera, D. Felice Foresti, Costantino Munari, Antonio Villa, Giovanni Bachiega, Marco Fortini (sacerdote), conte Antonio Oroboni della Fratta, marchese G. B. Canonici, Giuseppe Delfini, Pietro Rinaldi, Francesco Cechetti, Giovanni Monti e Vincenzo Caravieri, quali rei di delitto d'alto tradimento.

Nel 27 aprile 1831 salì al trono di Piemonte re Carlo Alberto, ridestando le speranze di coloro che aspiravano al riscatto delle italiane provincie dal servaggio. Ma la memoria de' passati disinganni, l'esagerato sentimento religioso e un carattere irresoluto lo trattennero dall'aderire a' fini de' rivoluzionarii.

Mazzini, ch'era già stato arrestato a Genova e imprigionato a Savona, ove concepì il disegno di una nuova forma di società segreta col nome di Giovine Italia, ritornato in libertà, esulò; continuando a cospirare da terra francese, dove nel 1833 pubblicò gli statuti e i programmi della Giovine Italia, tentò guadagnare Carlo Alberto alla rivoluzione, e, non riuscendovi, continuò a cospirare: e per cospirazione fu condannato a morte, lui assente. Rifugiatosi allora a Ginevra, organizzò la spedizione di Savoja, che fallì per colpa di Ramorino suo condottiero.

Molte furon le condanne capitali, ma nella maggior parte in contumacia; moltissime e gravissime le altre condanne dal 1833 al 1846 in Italia.

Ma nel giugno del 1846 veniva eletto a pontefice Giovanni Maria Mastai Feretti, il quale assunse il nome di Pio IX; e questi, venti giorni dopo la sua assunzione al trono, accordò larga amnistia ai condannati per titolo politico; quindi nuove riforme accordò. Ciò rivelò sentimenti liberali, e il popolo simpatizzò per lui. Lo stesso Mazzini fu pure lusingato a sperare nel pontefice, e scrisse a tal uopo per lui apposita lettera, nella quale leggevansi le seguenti espressiomi: Unificate l'Italia e la patria vostra ... Non mendicate alleanza di principi. Seguitate a conguistare l'alleanza dei popoli.

Chi era questo Giovanni Maria Mastai elevato al seggio ponteficale col nome di Pio IX?

Questi nacque in Sinigaglia nel 13 maggio del 1792 da nobile e agiata famiglia: educato da padri Scolopi nel collegio di Volterra, vi si distinse. Cercò nel 1815 d'entrare nelle guardie nobili del pontefice, ma non l'ottenne perchè infermiccio e affetto da epilessia. Studiò allora teologia e si fece prete: la sua salute migliorò e l'epilessia andò svanendo: andò in missione al Chili nel 3 luglio 1823: arrestato a Palma dalle autorità rivoluzionarie di Spagna per sospetto di missione politica, rimase prigioniero alcuni giorni: liberato e rimessosi in mare, fu la nave assalita dai filibustieri, ma potette salvar la vita: colto da burrasca, pericolò naufragio: finalmente giunse nel 1824 a Rio della Plata e l'anno dopo arrivò a Santiago del Chili. Nel 1825 ritornato a Roma, Leone XII lo nominò arcivescovo di Spoleto: Gregorio XVI lo elesse vescovo d'Imola nel 1832, e cardinale nel 1840. Salito al pontificato, diede riforme liberali e spiegò ostilità contro l'Austria che gli aveva occupata Ferrara: ciò destò indicibile entusiasmo in Italia, e il suo esempio fu seguito dalla Toscana che ebbe pur essa riforme, e il nome di Pio IX divenne parola d'ordine di risorgimento nazionale. Era giunto così l'anno 1847, e le dimostrazioni contro i governi dispotici si moltiplicavano nella penisola.

La Lombardia non rimase ultima in que' moti che rivelavano l'aspirazione a libero reggimento. Nel settembre 1847, essendo morto l'arcivescovo Gaisruck, di nazionalità tedesca, l'imperator d'Austria lo aveva rimpiazzato con Bartolameo Carlo Romilli da Bergamo, già professore di religione nel patrio liceo, indi parroco di Trescorre, poscia vescovo di Cremona. Il popolo volle cogliere occasione del suo ingresso per fare qualche dimostrazione contro il governo.

E l'ingresso del nuovo arcivescovo avveniva nella domenica del 5 di settembre 1847; il popolo e il municipio avean fatti grandi preparativi per celebrare l'ingresso con inaudita pompa: alla sera fuvvi generale illuminazione per le vie. Nel dì 8 seguente, in cui ricorreva la Natività di Maria Vergine, alla quale è dedicato il Duomo, si rinnovarono manifesti segni di convulsione popolare; questa volta collo scriver con carbone sui muri: Wia Pio IX e W. l'Italia, e col cantare l'inno appositamente fatto da altri in onor del pontefice, e dalla polizia vietato: una grande luminaria venne fatta in piazza del Duomo e in piazza Fontana, ove s'innalza il palazzo arcivescovile.

La polizia non volle starsene cheta spettatrice di quella festa popolare: molte guardie, in apparenza inermi, mandate per quei luoghi dal conte Bolza, tutto a un tratto sguainarono le sciabole che sotto i cappotti ascondevano, si avventarono in mezzo alla moltitudine festosa e, rotando i ferri, si misero a ferire a dritta e a manca. La folla spaventata fece per fuggire, l'un l'altro premeva, urtava, spingeva: molti agli urti cadevano, e la folla fuggente li calpestava. Le guardie di polizia potettero così comodamente soddisfare alla sete di sangue, ferendo a lor bell'agio gl'inermi: i popolani che più lungi stavano dai poliziotti, inviperiti di lor prepotenze, si posero a gridar morte ai Tedeschi: ciò inviperiva di più i poliziotti: ma d'un tratto essendo comparso sulla porta del suo palazzo l'arcivescovo, riuscì a far cessare le prepotenze tedesche e a far isciogliere la folla. Pattuglie però di dragoni imperiali continuarono a correr la città in quella sera e nel dimani; pur essi divertendosi nel maltrattare e ferir le persone. Più di sessanta vennero in quell'occasione ferite più o meno gravemente: diversi furono anche i morti.

Questi fatti diedero argomento all'autorità militare ed alla polizia per domandare a Vienna lo stato d'assedio, il giudizio statario e tutti gli altri rigori:—volevasi soffocar la voce della giustizia, far tacere la legge, limitare l'autorità dello stesso governo, onde suprema vi regnasse l'autorità militare e della polizia.

Ma nel sangue non si spense il principio di libertà: il sangue ne lo rafforzò anzi in ogni cuore; e il sangue anzichè gettar spavento nelle popolazioni, le inasprì invece nell'odio contro la tedesca dominazione, e le rese tenaci nei propositi di combatterla.

Nel settembre, essendosi aperto in Venezia il congresso degli scienziati italiani, le discussioni scientifiche snaturaronsi in politiche, e il Bonaparte che entusiasmò il congresso con calde parole, fu fatto partire pei confini dalla locale polizia: il fatto diede argomento alla stampa periodica nostrale e straniera di elevar la voce contro l'arbitrario procedere della polizia austriaca.

Giunte e diffusesi per Milano le nuove delle riforme piemontesi del 30 di ottobre, esse produssero un po' d'agitazione non troppo ben celata. Nazari, deputato presso la Congregazione centrale, espose allora al governo con particolareggiato rapporto il malcontento che le gravose tasse e la licenza militare e gli arbitrii polizieschi avevano sparso nel popolo. Il governatore gli rispose che si rimanesse la Congregazione centrale nei limiti di sue attribuzioni, e non le trascendesse in cose riferentsi alla politica. Il fatto del Nazari bastò per cattivare a lui la popolare simpatia, e si aperse una sottoscrizione onde erigergli un busto. E per rispondere al governator di Milano, che voleva persino niegare il diritto alla Centrale Congregazione di provocare riforme dal governo, il popolo usò il linguaggio e i mezzi del cospiratore: la stampa clandestina eccitò le passioni politiche: si inventò un linguaggio misterioso di segni, che venne rapidamente appreso ed usato dal popolo, e servì per comunicare le disposizioni dei segreti dirigenti del moto liberale. Non essendo possibile rifiutare il pagamento delle tasse dirette, giacchè colla forza si sarebbero con maggiori danni dei contribuenti percette, si ideò di ricusarsi alle tasse indirette, astenendosi dal fumare e dal giuocare al lotto: con ciò si sarebbe danneggiato l'erario imperiale, e sarebbe stato questo un mezzo per mantener vivo il sentimento d'opposizione liberale e per abituare il popolo all'unione de' propositi.

Sopravvenne intanto il 1848, e al 2 di gennajo di quell'anno più nessuno si incontrava fumando per le vie, eccettuati gli agenti di polizia e il militare. Ciò diede luogo a parziali collisioni, poichè intorno ai fumatori si aggruppavano i popolani gridando: Abbasso il sigaro, e li fischiavano. Durante quel giorno la polizia lasciò fare, comprendendo che le opposizioni alle dimostrazioni non facevano che dar loro maggior importanza e rendere più tenaci gli oppositori. Sul far della notte però le cose non si soffermarono a pacifica opposizione, giacchè i soldati cominciarono a reagire ed a maltrattare la folla. Vuolsi anzi che dall'autorità militare si dessero zigari alla bassa forza onde fumasse in pubblico e provocasse in tal modo disordini, nello scopo di prender partito da quei fatti per levare i poteri all'autorità civile e concentrarla tutti in quella militare.

Il podestà Casati, che si trovava in strada cercò di intromettersi in quella reazione militare, riprovando gli atti violenti dei soldati e dei poliziotti da una parte, e consigliando il popolo dall'altra ad usar prudenza. Ma vicino alla piazza dei Mercanti Casati fu fermato dai soldati e tradotto alla Direzione di polizia. Ciò valse a cattivargli le popolari simpatie, ed una folla compatta di gente l'accompagnò da lontano sino a S. Margherita, ove siedeva quella Direzione politica. Fu invero questo un atto che fece onore a Casati, sebbene, di carattere debole e incerto, più amante di nuovo principe che di vera libertà, dovesse poi in seguito smentire il giudizio che di lui si era formato il popolo.

Casati simpatizzava pel sovrano di Piemonte. Allorquando nel 1842 il principe Vittorio Emanuele di Carignano andò sposo coll'arciduchessa Maria Adelaide, figlia dell'arciduca Ranieri vicerè del regno lombardo-veneto, Casati progettò di presentare alla real coppia un'anfora con bacile d'argento. Lavoro artistico di cui fu l'opera a cesello allogata a Bellezza, nome celebrato in cesellatura; il disegno nella parte ornamentale affidato a Ferdinando Albertoli; il disegno della parte figurativa al consigliere Sabatelli; la modellatura infine a Benedette Cacciatori. Essendosi il Casati portato a Torino a presentare il dono, n'era ritornato decorato ed entusiasta ammiratore di Carlo Alberto e della Casa di Savoja.

L'arresto di Casati in piazza di Mercanti aveva da parte degli assessori municipali provocata una protesta a Torresani, capo della polizia, contro la licenza militare.

Casati venne allora ridonato a libertà, e sembrava essersi racquetati alquanto gli spiriti, allorchè il conte Neuperg, ufficiale austriaco, ridestò negli animi popolari il rancore, che, non spento, era soltanto assopito. Neuperg aveva distribuito tabacco a sue spese ai soldati onde girassero per le strade fumando e provocando il popolo: egli stesso attraversò la folla collo zigaro in bocca, colla spavalderia negli atti e nello sguardo, urtando l'uno, insultando l'altro: ciò fu causa di pubblica indegnazione: ciò fu sfida al popolo: ciò ridestò nella città un fremito d'ira, ed aumentò l'odio per l'Austria.

Vicino alla galleria De Cristoforis lo stesso consigliere don Carlo Manganini, amico di Torresani, antico inquisitore in una commissione contro i Carbonari, vecchio di 74 anni, avendo riprovato il contegno della truppa, un soldato l'afferrò e lo uccise con quattro sciabolate alla testa e due al braccio destro. Il delirio di sangue era giunto al colmo che non si risparmiavan più nemmeno i partitanti dell'Austria. Più di 60 furono tra feriti e morti trasportati all'ospedale, non contati quelli che furono portati e curati alle case loro.

Apparvero allora epigrammi sui muri delle case, tra i quali leggevasi la seguente strofa:

Hanno il zigaro fra' denti Solo i birri e i confidenti; Cittadini, state attenti Se vi preme il vostro onor.

Ad inasprire maggiormente la concitazione pubblica, Torresani ordinò numerosi arresti.

Nel giorno dopo, 3 gennajo, il Comando militare, fatti ubbriacare i soldati, distribuito a loro trentamila zigari e diviso fra loro qualche migliaja di lire, verso sera li sguinzagliò per la città; molti condannati furon tolti dalle prigioni e gettati per le vie con zigari e furono associati alla truppa che in comitive di venti, trenta, quaranta, ubbriachi di acquavite, scorrevano la città provocando con laide parole i cittadini, maltrattandoli ove sorgeva in loro il mal talento. La popolazione erasi limitata a rispondere a que' modi insultanti coll'emettere fischi e qualche evviva all'Italia. Ma gli ebbri soldati desiderando emozioni di sangue, snudarono le sciabole e si abbandonarono a disperdere quanto incontravano, menando colpi alla cieca, non avendo riguardo a donne, a' ragazzi, a' vecchi; talchè molti cadevano feriti o morti. Sembrava la città esser convertita in una landa selvaggia ove l'odor del sangue attira gli antropofagi! lo spavento fu generale, generale l'indegnazione pubblica, e sulla violenza di que' giannizzeri del dispotismo maggiormente germogliò l'odio contro la dominazione straniera; e il sangue di tanti sventurati inaffiò l'albero della libertà.

Gravi eran le condizioni d'Italia nel 1848:—le aspirazioni nazionali si eran diffuse per tutta Italia, soccorse dagli scritti di coraggiosi patriotti:—fra questi non possiam sottacere Mazzini che dall'esiglio, con mille sacrifizii, col senno, col consiglio, cogli scritti che diffondeva dovunque, coll'esempio di virtù private e cittadine mantenne vivo per molti lustri il fuoco di libertà negli animi italiani.

Riepilogando i fatti di quell'anno, noi vediamo le sette politiche, dissenzienti nei mezzi, armonizzare tutte nello scopo;—quello di rovesciare il tarlato trono di re Ferdinando;—di cui eran accusa le fallite promesse, le condanne capitali e gli esigli, l'insolenza del militare, la burbanza de' ministri, la corruzione generalizzata. Cominciò disegno di attuazione di sommossa nel 12 gennajo di quell'anno, ma venne scoperta perchè Giuda, che si era appiccato, aveva lasciati nepoti, ed uno si rivelò in un congiurato che ogni cosa scoprì all'autorità, la quale popolò le galere di coloro ch'eran sfuggiti al carnefice. Ma nel sangue e nei bagni non si soffocano i principii, e l'idea nazionale ripullulò più prosperosa dovunque: da ciò nuovi arresti, nuovi procedimenti, nuove condanne, nuove fatiche al boja: quarantatre furono i condannati nella congiura di Monteforte!

La scintilla rivoluzionaria si diffuse allora per tutta Italia, e noi imprendiamo a narrare la storia della rivoluzione milanese.

Storia delle cinque gloriose giornate di Milano nel 1848

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