Читать книгу Storia delle cinque gloriose giornate di Milano nel 1848 - Antonio Vismara - Страница 2
IL 18 MARZO
ОглавлениеGli estremi si toccano, dice un antico adagio; talchè come dalla licenza è generata la tirannide, così il despotismo estremo conduce a libertà.
Così fu di Milano nel 1848:—oppressa da un governo che voleva ritenerla schiava:—stretta a ferreo giogo:—bavagliata onde non parlasse:—soffocata onde non facesse udir neppure i suoi gemiti,—Milano sofferse, ma non cadde;—ebbe soffocata nella strozza la voce della libertà, ma ella seppe mantener vivo il sentimento liberale ne' più reconditi recessi del cuore....
Sorvegliato ogni suo atto, non poteva spezzar le catene che la cingevano;—ma essa non diffidò di quella superiore Provvidenza che veglia sui diritti dell'uomo ed a suo tempo ne rivendica l'oltraggiata esistenza:—sofferse molto,—ma perseverò,—e perseverando maturò i tempi e le occasioni ad una rivoluzione grandiosa, eroica, nella quale un pugno di uomini del popolo, inermi, disuniti, seppe annodarsi e, nuovi Spartani alle Termopili, seppe combattere un'armata numerosa, ben armata, bene organizzata de' suoi oppressori.
Il marzo 1848 doveva incarnare le aspirazioni de' Milanesi:—doveva dare alla storia un soggetto eroico da registrare … La rivoluzione di Sicilia, quella di Francia, quella pure di Vienna ingagliardiva gli sforzi de' Milanesi ad una riscossa:—Milano era stata abbandonata dalle principali autorità, e sol vi rimanevano Radetzky e Torresani; capo l'uno del militare, direttore l'altro della polizia; entrambi fermamente determinati a soffocare nel sangue cittadino ogni tentativo di rivolta.
I tempi che faceansi grossi, grossi; gli avvenimenti che si incalzavano con prodigosa rapidità, forzarono la mano al tedesco imperatore a promettere concessioni, e nel mattino del 18 marzo pubblicavasi il seguente:
AVVISO
«La Presidenza dell'I. R. Governo si fa un dovere di portare a pubblica notizia il contenuto di un dispaccio telegrafico in data di Vienna 15 corrente, giunto a Zilli lo stesso giorno ed arrivato a Milano jeri sera».
Sua Maestà I. R. l'imperatore ha determinato di abolire la Censura e di far pubblicare sollecitamente una legge sulla stampa, non che di convocare gli Stati dei Regni Tedeschi e Slavi, e le Congregazioni centrali del Regno Lombardo Veneto. L'adunanza avrà luogo il più tardi il 3 del prossimo venturo mese di luglio.
M. HARTL
I. R. Ispettore al telegrafo
Milano, il 18 marzo 1848
Il Vicepresidente
CONTE O'DONELL
I Milanesi non prestaron fede però alle puniche promesse di un governo che aveva sempre mancato alla fede data al popolo; e d'altra parte la concessione non corrispondeva alle aspirazioni del paese all'indipendenza dallo straniero.
Contrapposto all'avviso governativo vedevansi affisse sui muri della città e diffuse pei negozii le seguenti:
Domande
degli italiani della Lombardia
«Proclamiamo unanimi e pacifici, ma con irresistibile volere, che il nostro paese intende di essere italiano, e che si sente maturo a libere instituzioni.
«Chiediamo offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la guerra:
«1º Abolizione della vecchia Polizia, e nomina di una nuova, soggetta alla Municipalità;
«2º Abolizione della legge di sangue ed instantanea liberazione dei detenuti politici;
«3º Reggenza provvisoria del regno;
«4º Libertà della stampa;
«5º Riunione dei Consigli comunali e dei Convocati, perchè eleggano deputati all'assemblea Nazionale, da convocarsi in breve termine.
«6. Guardia civica sotto gli ordini della municipalità;
«7. Neutralità e sussistenza guarentita alle truppe austriache.»
«Alle ore 3 trovarsi alla Corsia de' Servi.»
ORDINE E FERMEZZA
«Milano 18 marzo 1848»
Gli animi eransi esaltati allo scoppio di avvenimenti risoluti e decisivi:—l'agitazione era in ogni petto:—grande la concitazione:—l'ardimento era spartano. Trepidando nell'aspettazione delle ore 3, e l'impazienza dell'animo riversandosi dall'occhi, dalle labbra dal tremito delle membra e dallo stesso respiro, ognuno era sceso per le vie in attesa di quell'ora; talchè verso mezzodì le strade eran tutte gremite di masse popolari, desiose d'azione più che di aspettativa, e, cominciando una voce a parlar di armamenti, divenne voce di tutte quelle masse, le quali risolsero di muoversi verso il palazzo municipale al grido di: Armateci! Dateci la Guardia Civica!
Il podestà conte Gabrio Casati cercò di calmar l'effervescenza popolare, e persuaderla che nulla egli poteva fare, ed esser d'uopo che il popolo si rivolgesse al Governo:—ma il popolo non s'acquetava alle esortazioni, e finalmente gridava che gli si desse un capo per guidarlo. Il Casati allora si offrì di capitanare personalmente il popolo, e vi si pose in testa insieme ai Corpi municipale e provinciale.
Imponente fu il procedere per le vie di quella immensa moltitudine acclamante, festante, sventolante in alto moccichini e berretti!… Non erano uomini che camminavano;—era un'onda che si riversava per le strade, l'un l'altro premendo, spingendo, più portati che camminando, tant'era stipata la folla. Il petto loro portava una coccarda; era quella bianca, rossa e verde.
Giunto il popolo sul ponte di S. Damiano, la guardia del palazzo di Governo, schieratasi nella via, scaricò i fucili contro il popolo:—questi, inasprito all'atto ostile, precipitò furioso verso il palazzo di governo; in un attimo i due granatieri ungheresi di sentinella furon massacrati, gli altri soldati disarmati, il palazzo preso, invaso, rispettandosi scrupolosamente la proprietà. I consiglieri di governo eran fuggiti: alcuni fraternizzarono col popolo: il solo O'Donell, che reggeva il governo in assenza del conte Spaur, erasi barrato nel suo gabinetto e sdegnava scendere a patteggiar col popolo.
In questo frattempo era sopraggiunto l'arcivescovo e l'arciprete Opizzoni, fregiati essi pure di coccarda tricolore, i quali, acclamati dal popolo, si posero intermediarii fra questo e O'Donell; recatisi da quest'ultimo, assicuraronlo che rispondevano di sua vita e l'indussero a presentarsi sul balcone del palazzo, dal quale, pallido e tremante, spiegando una bianca pezzuola, sclamò al popolo: Farò quello che volete! Tutto quello che volete! E il popolo rispondeva: Abbasso la Polizia! Vogliam Guardia Civica! O'Donell replicava allora: Sì, abbasso la Polizia! Accordata la Guardia Civica! Ma il popolo diffidando delle parole gridò: Lo vogliamo in iscritto. A ciò annuì O'Donell, e, accompagnato in contrada del Monte in casa Vidiserti, egli sottoscrisse i seguenti editti che vennero immediatamente stampati, e pubblicati poche ore dopo dalla Congregazione municipale:
«Milano, 18 marzo 1848
«Il Vice Presidente, vista la necessità assoluta per mantenere l'ordine, concede al Municipio di armare la Guardia Civica.
«Firmato Conte O'Donell.»
«La Guardia della Polizia consegnerà le armi al Municipio immediatamente.
«Firmato Conte O'Donell.»
«La direzione di Polizia è destituita; e la sicurezza della città è affidata al Municipio.
«Firmato Conte O'Donell.»
La Congregazione Municipale
della città di Milano
«In conseguenza di ciò sono invitati tutti i cittadini dai 20 ai 60 anni che non vivono di lucro giornaliero a presentarsi al palazzo Civico dove sarà attivato il Ruolo della Guardia Civica.
«Interinalmente è affidata la Direzione di Polizia al signor Dottor Bellati, Delegato Provinciale.
«I Cittadini che hano le armi dovranno portarle con sè.»
Casati, podestà
Beretta, assessore
Greppi, assessore
Silva, segretario
Chi aveva suggerito al podestà di condurre altrove O'Donell, era stato Cernuschi, il quale costituiva, direm così, la testa di quella prima dimostrazione insieme a Clerici, a Bellati, a Mazzuchelli, a Correnti, a Guerrieri, a Greppi, a Berretta, ad Oldofredi, a Borromeo ed a Busi. Cernuschi aveva suggerita quella determinazione onde procurarsi nella persona di O'Donell un ostaggio alla rivoluzione popolare.
Il corso di porta Orientale era pavesato a festa: le bandiere tricolori, preparate nel segreto delle famiglie, vi apparvero e sventolarono pubblicamente: gremite eran le finestre di vecchi, ragazzi, donne sventolanti le lor pezzuole in atto di gioja. La concitazione era grande, indescrivibile l'entusiasmo: qua e là vedevansi capannelli di uomini e donne che chiedevansi ansiosamente notizie, e le più strane ed esagerate novelle si diffondevano intorno agli avvenimenti della giornata; l'immaginazione ardente creava fatti insussistenti, svisava gli esistenti, tutti tratteggiati di quelle tinte che l'entusiasmo e le aspirazioni somministravano.
Il popolo erasi tutto riversato al Governo ed al Broletto: tutti chiedevano inscriversi nella Guardia Civica, tutti erano animati da eguale ardore. Qualche sbocco di contrada cominciava già a venir abbarrata con tavole e con travi; ma deboli erano ancora le difese. Una ventina di ardimentosi giovani, volendo che il loro ardire fosse più proficuo se armati, portossi all'Oficina Colombo, dove, atterrata la porta, s'impadronì delle armi che vi si tenevano in vendita; cioè sciabole, pistole e pochi fucili.
Il palazzo reale era ancora presidiato dalla truppa austriaca, la quale mantenevasi in relazione colla direzione di polizia, senza poter però trovarsi in communicazione col castello, perchè avendo spedito un ussero onde recar la nuova di quanto avveniva, questo era stato fermato dal popolo e fatto prigioniero.
Non esisteva quindi unità di azione, non conoscendosi da Radetzky quanto avveniva nell'interno della città, e ritenendo d'altronde le autorità e le truppe dell'interno che tutto si conoscesse in Castello.
Fatt'è che Radetzky, uscendo verso un'ora pomeridiana dalla casa Cagnola (ch'era situata in via Cusani e nella quale vi esisteva la Cancelleria militare) in compagnia del generale Wallmoden, di altri tre generali e di diversi ufficiali, vide chiudersi le porte delle case, le imposte delle botteghe, le persiane, ed osservò un confuso correr di gente, attrupparsi alcuni, altri fuggire come sovrastasse gran pericolo; talchè, avendo chiesta la ragione di quanto stranamente gli si presentava allo sguardo, gli fu risposto che era scoppiato serio tumulto popolare, e che forti masse eransi recate minacciose al governo, senza conoscerne i particolari e l'esito.
Riparatosi allor ben tosto in castello, vi s'incontrò col professor Menini e col commissario De Betta che, al primo sfavillar della sommossa, eransi colà rifugiati.
Alle confuse, ma appassionate notizie recate da quei due, Radetzky presumette troppo di vincere col terrore l'entusiasmo popolare, ed ideò allora di soffocare nel sangue ogni tentativo di rivoluzione, facendo marciare contro il popolo otto mila uomini, divisi in centosessanta compagnie di cinquant'uomini ciascuna, coll'ordine di spazzar colle armi le vie della città, portarsi a saccheggiare duecento case di signori, indicati dal De Betta come animati da sentimenti ostili al governo, mentre altri seimila uomini avrebbero avuto l'incarico di continuare l'opera dell'ordine col mezzo del sangue e del terrore, assicurando le comunicazioni delle varie strade interne ed esterne col castello.
Ma mentre si spedivano staffette militari da un punto all'altro per procurarsi notizie sul vero stato delle cose, impartire istruzioni, mantenere le communicazioni fra i diversi punti occupati dal militare, questi corrieri militari non giungevano poi mai alla loro destinazione, perchè venivano fermati ed arrestati dal popolo. In quell'occasione vennero intercettate due lettere che due figli del Vicerè si scambiavano, e nelle quali esternavasi il desiderio e la convinzione che Radetzky avrebbe bombardata Milano e domata la rivoluzione colle armi e coi patiboli.
Fortunatamente non solo le pietose intenzioni degli arciduchi non potettero aver realizzazione, ma nemmeno i disegni di Radetzky, ritenendosi da molti ch'egli venisse osteggiato da forti proteste de' suoi generali Walmoden e Woyna. Si limitò quindi il feld-maresciallo a spiegare innanzi al castello tutte le forze che aveva presso di sè, spingendone una parte lungo i bastioni e tenendo in pronto le artiglierie sugli spalti dei torrioni del castello. Spinse anche forti pattuglie nella città, le quali però trovarono precluso in varie parti il proseguimento di lor marcia.
Ciò avveniva per parte delle truppe del castello: prima di proseguire nel racconto di quanto avveniva nell'interno della città, riteniamo necessità storica di presentare un prospetto delle forze militari che in quel giorno si ritrovavano in Milano, a quali corpi appartenessero ed in quali caserme distribuite.
In Castello
Nella Caserma S. Francesco
Nella caserma S. Gerolamo
Nella caserma S. Vittore
Nella caserma delle Grazie
Nella caserma di S. Eustorgio
Nella caserma di S. Angelo
Nella caserma dell'Incoronata
Nella caserma di S. Simpliciano
Collegio di S. Luca
In questo stato di forze non si trovano comprese le armi morte, cioè quelle non combattenti (chiamate dei Tedeschi planisti), le quali sommavano a un migliaio. Nei giorni successivi però al 18 marzo, avendo Radetzky chiamato a Milano altri corpi, l'ammontare della forza militare tedesca aumentò sino a ventimila.
Tutte queste truppe però trovavansi nel 18 e 19 marzo disseminati in 52 posti, i quali erano: la gran Guardia in angolo alla piazza Mercanti, ove erano 2 cannoni;—le undici porte della città;—il Castello;—le altre undici caserme;—l'Arena;—il General Comando;—il Genio;—la Cancelleria militare in casa Cagnola;—la casa Arconati in via di Brisa (alloggio di Radetzky);—i forni militari;—l'Ospitale militare a S. Ambrogio; i granai militari a Porta Tosa;—le case sul vicino baluardo presso la Polveriera;—il baluardo del monte Tabor a Porta Romana;—il magazzino a S. Apollinare;—la Polizia generale e gli altri suoi uffici di Piazza Mercanti, Andegari, S. Simone e S. Antonio;—la Casa di correzione;—il Tribunal criminale;—il Tribunal civile;—il Duomo;—l'Arcivescovado;—la Corte, provveduta anche di artiglieria;—il Broletto in cui eranvi pure cannoni;—il Demanio; il Palazzo del Tesoro (Marino);—la regia Villa al giardino pubblico;—il palazzo di governo;—la Zecca.
La giornata del 18 marzo era piovosa:—sembrava che la natura, prevedendo le crudeltà che avrebbe commesse una soldatesca straniera, avversa agli Italiani per la ragion stessa ch'era straniera, indispettita e resa feroce per l'odio che conosceva esser nutrito contro di essa non per le nazioni a cui appartenevano i diversi militari, ma per l'uso a cui eran diretti, cioè a servir di strumento alla tirannide ultramontana,—sembrava che la natura s'attristisse nella previsione delle crudeli lotte che si preparavano pei Milanesi, e pel sangue che si sarebbe versato.—Era giornata piovosa, melanconica, triste come il cielo sotto cui eran nati que' soldati:—ma in mezzo alla tristezza della giornata splendeva il raggio dell'entusiasmo popolare, e i cittadini ricordando i crudeli destini a cui avea anticamente ridotta la città un tedesco imperatore, dal color della barba chiamato Barbarossa, rammentaronsi ben anco Legnano e la vittoria ottenuta sull'alemanno oppressore,—e giurarono vincere o morire, rammemorando l'ingiunzione delle madri spartane ai lor figli in partenza per la guerra, allorchè, additando lo scudo di cui eran muniti: Ritornerai, dicevano, o con questo o su questo: ossia o vittorioso o morto.
Nell'interno intanto della città gli avvenimenti prendevano una piega di una gravita straordinaria. Ad un'ora circa pomeridiana, narra una storia contemporanea5, comparvero dieci gendarmi di cavalleria, comandati dal Commesso di polizia Zamara. Entrarono dalla Piazza Mercanti e si presentarono di fianco alla piazza del Duomo. Il cavallo del commesso cadde, ed allora un uomo del popolo arditamente s'interpose fra la squadra ed il suo comandante, togliendo di mano ad un gendarme la carabina; indi, rifugiandosi dietro una bara caricata di vino, con cui si fece barriera, scaricò il fucile, spargendo il terrore e la confusione nei militari, i quali chiesero soccorso ad un corpo di ussari alla Piazza Mercanti. Quel momento fu il segnale della lotta, poichè lasciò campo al distaccamento dei granatieri di guardia alla corte di fare una sortita.
A questo cenno storico però della storia suaccennata, noi dobbiamo per omaggio alla verità aggiungere che il signor Antonio Zamara in un suo opuscolo intitolato: Giustificazione del cittadino Antonio Zamara sul di lui operato nelle cinque giornate, ecc. (pubblicato dalla Tipografia Valentini e C.) volle negare il fatto d'esser stato lui quello che capeggiava quella pattuglia, cercò giustificare il proprio servizio nella polizia, asserendo ch'egli era stato soltanto incaricato per la direzione del corso delle carrozze ed al teatro della Scala sul palco scenico, e finalmente ritenne giustificare il suo passato col far professione di fede liberale. Sebbene possa essere avvenuto benissimo un errore di persona in quello che dirigeva la pattuglia di cavalleria, dobbiamo però notare sulle altre giustificazioni che un impiegato di polizia che immediatamente dopo il trionfo di una rivoluzione soglia proclamare di esser sempre stato di sentimenti liberali, egli è lo stesso che rendere molto sospetto quell'uomo, a meno che fosse un praticante soltanto; giacchè l'Austria allorchè poneva a soldo un impiegato politico, voleva esser ben garantita che avrebbe potuto far calcolo del suo zelo e della sua fedeltà. Ma di questi casi di bugiarde professioni ne abbiam vedute molte; avendo persino veduti commissarii superiori di polizia far da liberale appena partito il governo austriaco. A questi impostori diremo di gettar la maschera con cui hanno illuso il popolo e colla quale se ne sono approfittati per sedere a posti elevati negli ufficii costituitisi subito dopo la rivoluzione nel 1848, come dopo la partenza dei Tedeschi nel 1859: gettino la maschera giacchè l'Austria non promoveva al grado di commissario superiore uomini de' quali non avesse avute guarentigie sulla loro sincera adesione al dispotismo. In nuovo governo potevano servire gli antichi impiegati: sta bene! sarebbesi con ciò compiuta un'opera di conciliazione, avrebbe il nuovo governo usufruttato delle cognizioni che da una lunga pratica d'ufficio acquistatasi, avrebbe mostrato doversi ammettere la riabilitazione dell'uomo: ma io sprezzo coloro che dopo aver servito fedelmente l'Austria, fecero il cerretano col proclamare di averla tradita: questi son quelli capaci di disertare bandiere ad ogni volger di casi. La giustificazione quindi anche del Zamara non può essere rifiutata in tutto, ma accolta soltanto col beneficio dell'inventario.
Procedendo quindi nella narrazione dei fatti avvenuti nel 18 di marzo, diremo che, dopo il fatto da noi narrato, circa ad un'ora e tre quarti nella contrada di Pescheria Vecchia (ora più non esistente, e la quale era situata nell'area attuale di Piazza del Duomo che da Piazza Mercanti procede verso la galleria Vittorio Emanuele), comparvero nove ussari a cavallo, i quali uscivano dalla porta di Piazza Mercanti, che ora più non esiste, e roteando le sciabole intorno quasi a sfida ai cittadini, procedevano baldanzosi.
Quel guanto insultante di sfida fu raccolto dal popolo; imperocchè alcune persone civili e pochi facchini, che videro l'atto provocante, corsero furibondi contro il picchetto, gridando, imprecando e lanciando pietre. Il caporale, a briglia sciolta, cominciò a scorazzare per la via e, roteando la spada, ferì in una spalla un cittadino. Gli altri soldati, come se non avessero inteso il comando, a lento trotto seguirono il caporale sino a Campo Santo, che allor chiamavasi la strada esistente dietro al Duomo, oggidì chiamata pur essa Piazza del Duomo; colà giunti, nè colla lor baldanza scoraggiando punto i cittadini, due dei soldati furon rovesciati di sella ed uccisi da due colpi di fucile, usciti dalle circostanti finestre, e cinque altri ussari rimasero feriti, e i loro cavalli pure; ma malconci e coi cavalli zoppicanti potettero ritirarsi.
La lotta era quindi impegnata seriamente, ed era quistion di vita al governo il tentativo d'ogni sforzo delle armi per reprimere quei moti; com'era quistion di vita pel popolo il sostenere arditamente la lotta, poichè ben conosceva dover cercarsi salute nella vittoria, chè nella sconfitta avrebbe trovato morte sul patibolo chi non l'aveva trovata nel combattimento.
Gli ussari avevano rapportato l'avvenuto, e nuovi drappelli di soldati furon spediti per le strade. Mezz'ora circa dopo la ritirata degli ussari, sopravvennero nella stessa via, uscenti pure dalla Piazza Mercanti, dodici gendarmi a cavallo, i quali furon da prima accolti dai cittadini con un nembo di pietre lanciate contro di loro; ma poscia un prete da un balcone cominciò a gridare ai cittadini mentre batteva le mani: No! No! essi sono Italiani. Evviva la gendarmeria italiana! A quel grido cessò immediatamente la pioggia di sassi, ed un gendarme in atto di riconoscenza fece colla spada un segno di gratitudine al sacerdote. E il popolo rispettandoli perchè italiani, li lasciò passare incolumi; ed essi senza provocazione alcuna procedettero oltre e ritiraronsi nella corte reale. Ciò prova quanta generosità s'annidasse ne' petti milanesi in momenti che l'odio per lo straniero e la concitazione della pugna lo avevano esaltato nelle sue idee, ne' suoi affetti, ne' suoi eroici propositi.
In Cordusio si usò un particolare stratagemma. I cittadini deliberarono di rimanersene più ch'era possibile celati, di lasciar entrare nella piazza le pattuglie, ma, appena giuntevi, il popolo unanime li asserragliava con una ben nutrita scarica di sassi da ogni finestra, ed una compagnia di dieci cittadini armati di pistole dirigeva incessantemente fuoco sulla truppa.
Circa le due ore e mezza, un drappello di truppa, guidato da un capitano dei granatieri, portatosi verso Campo Santo, trovò impossibile procedere oltre, giacchè dai tetti lanciavansi tegole e dalle finestre sassi in quantità sulla sottoposta strada; dimodochè il drappello dovette indietreggiare sino agli scalini del Duomo, ove giunto si pose a far scariche verso il corso e verso i tetti presidiati dai cittadini armati di tegole. In quel punto il signor Francesco Maglia, dalla propria casa in contrada dei Borsinari (or più non esistente, e che era propriamente un piccolo tratto di via tra la Pescheria Vecchia e la porta di entrata nella piazza Mercanti; porta or pure demolita), e propriamente dalla casa che allora portava il N. 1029, munito di un fucile a due colpi, caricato di quadrettoni, fece una scarica sul capitano, il quale, colto nel petto, premette colla mano la ferita e ordinò immediatamente la ritirata.
Dalle parte dell'arcivescovado si erano presentati poi i cacciatori tirolesi, e col mezzo dei loro zappatori sfondarono a colpi di scure il portello del palazzo arcivescovile nel cortile dei Monsignori. Quindi a colpi di scure atterrata la porta che dal cortile mette alla via sotterranea conducente in Duomo, e di porta in porta tutte sforzandole, potettero penetrare nel Duomo stesso, e di là con facilità salire sullo spianato superiore, da cui apersero un fuoco ben nutrito sopra i tetti onde scacciarne i cittadini che vi si erano posti per offendere colle tegole le truppe pattuglianti nelle sottoposte strade; da quelle alture mantennero anche vivo il fuoco in direzione della Piazza del Duomo, del Corso e della via che dal palazzo di corte conduce a Piazza Fontana.
Dopo il ritorno dall'irruzione al governo di quell'immensa moltitudine, come abbiam già narrato, parte di essa erasi portata di nuovo al palazzo municipale, ed altra parte, guidata dai lampionai della città in uniforme, andava dagli armajuoli a sequestrar le armi onde armarsi.
Infatti verso le tre ore buon numero di cittadini portossi alla rinfusa dall'armajuolo Sassi in contrada di S. Maria Segreta, chiedendo invanamente armi, allorchè un caso fortuito li obbligò a desistere. Ciò avvenne in causa dell'uscita dal Castello a quella stessa ora di tutti i granatieri che vi si trovavano, aventi un generale alla testa; questa truppa, diretta nell'interno della città, si incamminò per la contrada di san Vicenzino, avente lo sbocco in piazza Castello; colà, trovandosi ad un balcone molti signori e parecchie signore, sbigottiti alla vista di quella truppa e temendo che essa vi si portasse per intraprendere atti di violenza in causa della lotta che si era impegnata altrove nella città, quella comitiva signorile fece atto di rientrare spaventata: ma il generale a cavallo ne li dissuase coi gesti, quindi colle parole, facendo lor coraggio ed assicurando che non aveva alcuna cattiva missione da compiere a lor riguardo. Ciò attestiamo in omaggio della verità, onde dimostrare che non ci suggeriamo alla passione nello stendere queste pagine, ben riconoscendo che nell'ufficialità austriaca eranvi pure ottimi elementi, e che quando trascesero ad atti brutali, in maggior parte devesi far risalire ogni responsabilità al governo di Vienna che aveva aperto un abisso di odii fra esso e gl'Italiani; odii che si esplicavano poi contro l'esercito ch'era ritenuto strumento del despotismo, senza considerare che l'esercito in mano de' tiranni viene esso pure retto da tale tirannica disciplina da renderlo macchina e nulla più, e non corpo morale intelligente e volente. La truppa però che da S. Vicenzino erasi condotta pella contrada de' Maravigli, e quindi per quella di S. Maria Segreta, sconcertò i disegni de' popolani ch'eransi colà concentrati onde forzare l'armajuolo Sassi ad armarli. Alla vista della truppa la folla che ritrovavasi aggruppata e minacciosa avanti la bottega d'armi, sorpresa dalla subitanea apparizione si abbandonò alla fuga, non potendo del resto concepir proposito di opposizione dal momento che ritrovavasi completamente inerme.
Rimase così libero il passo alla truppa; ma ben altri avean divisato di disputarle il passaggio, e il conduttore dell'albergo di S. Carlino ne doveva esserne capo.
Era questi un tal Beretta Costantino il quale accortosi dell'agitazione ch'erasi diffusa per tutta la città, aveva sin dal mattino tenuta la casa semichiusa; aveva fatta forte provvisione di mattoni, di sassi e di quant'altro valesse a recar offesa, ponendosi co' suoi all'erta di quanto potesse succedere. Allorchè poi la truppa era entrata in quella contrada ed aveva veduta la fuga dell'assembrato popolo avanti la bottega del Sassi, essa si era convinta di potere invadere la città senza il menomo ostacolo e potersi recare ad occupar le posizioni interne più opportune. Ma allorchè l'albergatore vide spuntar la truppa in contrada, mandò tre suoi inservienti sul tetto, e altri otto collocò alle finestre; la moglie stessa del Beretta non volle esser di meno del marito in coraggio e s'adoperò attivamente al successo della lotta. Giunta la truppa in prossimità dell'albergo, il Beretta diede l'ordine a' suoi d'incominciar l'offesa. Spaventoso fu lo spettacolo di quella contrada! una grandine continua di tegole, di mattoni, di sassi cadeva addosso ai soldati; e tale fu il fiero ed accanito tempestar di dure materie dall'alto, che il generale fece ritrarre alquanto i suoi soldati ed ordinò che aprissero il fuoco contro i rivoltosi.
Terribile fu la lotta:—le scariche dei fucili s'alternavano rapidamente al grandinar delle tegole:—la polvere prodotta dalle materie gettate dall'alto, il fumo che s'elevava dalla strada per l'esplosione dell'armi da fuoco; il rombo delle materie cadenti, e il fischio delle palle che s'incrociavano nel fulminar la casa, le grida furiose dell'una e dell'altra parte, produceva un concento diabolico, e presentava un quadro spaventoso, cui è sol capace di ridurre in atto l'odio feroce degli uomini che si scannano o si schiacciano vicendevolmente e senza pietà:—e che si scannano spesso perchè, ragionevoli come pretendon essere, più irragionevoli si dimostran de' bruti col trucidarsi a vicenda con furore insano e per causa il più spesso che non li riguarda davvicino; qual era in fatta la lotta impegnatasi tra Milanesi e soldati, nella quale le parti più non si capivano, non comprendendo alcuno che, pugnandosi per la libertà e la indipendenza da forastiero governo, i soldati inferocivano per causa non propria nella lotta, anzi in causa di chi li teneva aggiogati sotto ferrea disciplina;—e i cittadini da lor parte non comprendevano nel furor della lotta che que' soldati ch'erano contro a loro non eran altro che giovani strappati colla violenza dal seno di lor famiglie per tramutarli col più fiero dispotismo d'inumana disciplina in altrettanti strumenti de' capricci di un uomo.
E la lotta fu accanita da entrambi le parti, e durò molto. Il generale stesso fu colpito da un vaso di terra sulla testa, e fu così malconcio dalla ferita da dover esser trasportato da quattro soldati in Piazza Mercanti.
De' militari non si conobbero i dettagli sulle perdite e sui danni, poichè si ebbe cura di trasportare i feriti in Castello.
Il vicinato, atterrito da quella lotta, molto si lagnò coll'albergatore pell'imprudente attacco che poneva in pericolo tutti gl'inquilini delle circostanti case; ma la lotta terminata poco prima delle quattro ore colla vittoria cittadina rianimò anche i pusillanimi, rinfrancò i dubbiosi, assicurò i protestanti contro il Beretta. La folla che aveva tentato di impossessarsi delle armi dell'armajuolo Sassi, e che si era ritratta all'apparir della truppa, essa fuggente riacquistò animo e ritornò all'impresa contro la bottega del Sassi; questa volta con miglior fortuna; poichè, riuscita ad atterrarne la porta, essa vi penetrò, requisì tutte le armi e le distribuì secondo il bisogno.
Dalla parte del Genio militare, ch'era situato nella via del Monte di Pietà, e propriamente ove ora sorge il palazzo della Cassa di risparmio, due compagnie di linea avevano fatta una sortita ed eransi dirette pella contrada del Monte Napoleone. La via era deserta, cupa, chiuse le botteghe e le griglie; allorchè, giunta quasi alla casa Melzi, un colpo di fucile partito da una finestra stese cadavere un soldato e un altro lo ferì. Il mistero che circondava le fucilate del popolo, non vedendosi da dove partissero, intimorì la truppa, paventando di cadere in qualche agguato se procedeva; talchè risolvette di retrocedere, come retrocedette infatti, seco trasportando il soldato ferito.
Alla ritirata della truppa temendo i cittadini non ritornasse essa alla riscossa con rinforzi, barricarono la via con quanto fu a lor dato. Dalla chiesa di S. Francesco da Paola levarono tutti gli attrezzi e le canne dell'organo che era in costruzione, adoperandoli per barricare il corso di Porta Nuova, appoggiando la barricata alla casa Merini. Lo sbocco del Monte Napoleone venne chiuso con un carro da botti e col carretto del vicino lattivendolo. Per assicurare que' paraggi, barricaron pure gli sbocchi della Croce Rossa e della corsia del Giardino. Dalla parte poi della contrada dell'Annunciata costrussero barriera colle tavole e colle travi che servivano alla fabbrica della casa D'Adda. Finalmente asserragliarono i portoni di Porta Nuova con una carrozza capovolta.
Verso le quattro ore uscì dalla Direzione di Polizia una pattuglia di 20 ussari a cavallo; ma un drappello di operai-tipografi, diretto da Luigi Camnasio, che sino dalla mattina era stato incaricato di sorvegliare la Direzione di polizia, salito sul tetto della casa esistente di contro a quella, perseguitò la pattuglia di cavalleria con sassi e con tegole che dall'alto lanciava nella sottoposta via. Due ussari essendo stati feriti, gli altri soldati scaricarono le armi da fuoco contro le finestre, e quindi spronarono i cavalli verso il teatro della Scala. In capo però alla contrada di S. Margherita, dal lato della piazza del teatro, trovarono chiusa la via dalla catena che a' quei tempi usavasi porre attraverso di sera onde impedire il passaggio delle carrozze per quel punto, e che in quel giorno era stata stesa dai cittadini onde servir di barriera contro la cavalleria. Tentò la pattuglia di superar l'ostacolo, ma altri cittadini, appostati nell'atrio del teatro, la bersagliarono coi fucili da caccia; talchè la pattuglia dovette retrocedere in disordine onde ripararsi nel locale della Direzione di polizia. Ma giunta ivi, trovovvi chiusa la porta; e, mentre dal tetto della casa prospiciente lanciavansi tegole, gli ussari inferociti dal pericolo si posero a percuoter la porta colle sciabole e ad urtarla con forza coi cavalli che vi spingevano indietreggiando. Gli sforzi, commisti alle bestemmie, non valsero a sfondare nè a farsi aprir la porta; anzi una scarica di fucili fatta dal locale di polizia rovesciò di sella un ussaro. Era una scarica fatta dai poliziotti che, temendo per sè nello aprire, vollero allontanare i proprii fratelli d'armi col ferirli. Ma gli ussari, circondati dai projettili lanciati d'ogni parte, raddoppiarono gli sforzi, sinchè riuscirono a sfondar finalmente la porta della polizia e ricovrarvisi.
Dal locale di polizia si aperse fuoco allora in ogni direzione: i soldati accortisi che una mano di cittadini stava dai tetti gettando sassi e tegole, salirono pur essi sui tetti del locale di polizia e diressero il fuoco a quei punti culminanti. Bersagliati dalle fucilate, dovettero i popolani ritirarsi da' quei tetti e scendere a combatter per le strade.
Nello stesso giorno e alla medesima ora veniva affisso ai muri della città e diffuso anche a mano il seguente bando:
«Popolo di Milano!
«L'Europa ha gli occhi su di noi per decidere se il lungo nostro silenzio venisse da magnanima prudenza o da paura. Le provincie aspettano da noi la parola d'ordine. Il destino d'Italia è nelle nostre mani; un giorno può decidere la sorte di un secolo.
«Ordine! Concordia! Coraggio!»
Al dopo pranzo alcuni giovani avevano tentato di costruire barricate a Porta Ticinese; ma il loro eccitamento non era stato secondato, perchè, rotte com'erano le communicazioni coll'interno della città, nessuno voleva credere alla notizia dello scoppio della rivoluzione nelle altre parti di Milano. Le svariate, esagerate, contradditorie notizie che i novellieri cialtroni usano nei momenti di lotte cittadine inventare od esagerare per farsi credere conoscitori degli avvenimenti, avevano infiltrata quella diffidenza che scoraggia e paralizza i forti propositi.
La Congregazione municipale continuava intanto le sue sedute in Broletto, ove accorrevano in folla i cittadini ad inscriversi nella Guardia civica. Presiedeva a quest'operazione il generale Teodoro Lecchi e l'impiegato municipale Luigi Manzoni. Le inscrizioni procedevano più regolarmente ch'era possibile, ma al momento della distribuzione delle armi si diffuse la notizia che esse mancavano perchè Torresani non aveva voluto ottemperare agli ordini di O'Donell, ritenendo invalida ogni determinazione da lui emessa sotto la coazione della prigionia. E invero Torresani rifiutò recisamente la consegna dei fucili delle guardie di polizia. Non restavan quindi per armare il popolo che le poche armi prese nelle officine di Sassi e di Calabresi, state poi pagate dal Municipio, ma che non bastavan del certo alle esigenze del bisogno. Essendo stato nominato Bellati a reggere la nuova polizia, in seguito al decreto di O'Donell, col quale scioglieva la polizia antica, ogni trattativa non approdò a qualsiasi favorevole risultato.
Radetzky pure aveva dichiarato di ritenere come nullo ogni ordine di O'Donell, valutandolo come estorto dalla pressione esercitata nella sua cattività per parte dei rivoluzionarii. Anzi il maresciallo, convenendo pienamente nell'operato di Torresani, invece di armi spedì armati. Un forte drappello di granatieri fu da lui mandato al Broletto, ove giuntovi, entrò dalla parte di S. Nazaro Pietrasanta (ora via Giulini), irruppe per le scale che conducevano agli ufficii della Delegazione, arrestò quanti incontrò e fece per tradurli seco in Castello. Se non che i granatieri trovarono opposizione in una mano di giovani armati di fucili e di qualche vecchia alabarda. Scesi in corte i soldati, si trovarono da un drappello di altri popolani minacciati alle spalle; talchè, senza poter condurre gente arrestata con sè, studiaron modo di ordinatamente ritirarsi.
Appena partiti, il popolo conobbe il pericolo di venir di nuovo invaso quel luogo e ne chiuse le porte, lasciando aperto il solo sportello dalla parte di S. Nazaro.
Infatti Radetzky, indignato dalla forzata ritirata de' granatieri, pensò al modo di riprender più tardi quel luogo stesso.
Passando ad altro punto della città, abbiam veduto che O'Donell era stato condotto in ostaggio in casa Vidiserti al Monte Napoleone, dove pose sede il quartier generale dell'insurrezione. Si potrà censurare la disposizione delle due sedi, municipale e quartier generale rivoluzionario, così distanti l'una dall'altra: ciò non può essere obbietto di censura quando si conosca la ragione che obbligò a trovarsi così distanti quei due ufficii dirigenti della rivoluzione. Abbiamo noi ommesso di dire che allorquando il conte O'Donell veniva scortato come ostaggio in potere del popolo insorto, egli veniva diretto al palazzo municipale; ma, giunta la comitiva nella via del Monte, si scontrò con un centinajo di soldati che fece una scarica contro di essa. Il podestà col prigioniero rifugiossi allora nella casa Vidiserti, e fu per questo fortuito caso che l'autorità municipale, ricapito dei cittadini e quartier generale dei combattenti, si trovò in luogo così remoto dalla sua sede. Ed è per questo che Radetzky, ignorando tal fatto, e ritenendo O'Donell prigioniero in Broletto, diede tanta importanza all'occupazione militare del Broletto.
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Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate in Milano.—Milano, presso Luigi Ronchi, 1848.