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II.

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Poteva? Non così presto, certamente, come avrebbe voluto. Gli fu mestieri crescere in autorità, ed anche volgersi ad altro, legato egli stesso al carro della sua grandezza; uomo e simbolo ad un tempo, uomo nella personale ambizione, simbolo della rivoluzione in lui espressa e non del tutto soffocata sotto l'ermellino imperiale; costretto a seguire il destino, che lo lasciò vincer molto, senza concedergli interamente i frutti e gli arbitrii della vittoria. Così un ghiacciaio si avanza, prepotente nel suo volume, e con apparenza di onnipotente nella enormità del suo peso; ma stanno sott'esso le spine montuose e le insenature profonde che governano inavvertite i suoi moti. Pensate ancora ch'ebbe triste la vita, nella miseria del cominciare, nella difficoltà del giungere, nella necessità di vincer sempre, non riposando mai la fortuna; tra tanti sforzi d'ingegno e di volontà solo avendo un istante degno di sè, sulle rive del Niemen, in quella mirabil visione di potenza universale, ahimè spartita con un interlocutore non capace d'intenderla. Per tutto l'altro, infelice; infelice nelle prime nozze, quantunque abbia voluto concedere a sè come altrui l'illusione del contrario; infelice nelle nuove, e più nella facilità con che gli fu consentito di scioglier le antiche; infelice nella famiglia, tutta ambizioni ed appetiti insaziabili; infelice nei cooperatori, colmi di benefizi ed ingrati, onde la più felice sua nomina parrà ancora quella che non fece, di Pietro Corneille principe dell'Impero. E questa figura, epica nel colmo della potenza, divien tragica nell'eccesso della sventura. È un Prometeo, che non avrà rapita alla vôlta del cielo, ma bene ha potuto assicurare agli uomini la scintilla delle libertà civili; un Prometeo a cui non è mancata la rupe, Sant'Elena, nè l'avvoltoio, Hudson Lowe. Tale l'ha inteso il popolo, che raro s'inganna; il popolo, che ingrandisce qualche volta le immagini, ma solo per renderle a sè stesso più chiare. Così crebbe nelle fantasie popolari l'immagine di Carlomagno; il quale fu tanto grande per ciò ch'egli fece, più grande per ciò che disegnava di fare, grandissimo poi per il sogno che aveva ardito sognare. E non paia fuor di luogo il paragone, se tra due imperi quasi mondiali, eretti appena e sfasciati, si è aggruppata come intorno a due poli magnetici tutta la poesia della leggenda europea. Men fortunato Napoleone, apparso in tempi di luce così meridiana, che la leggenda, amica delle brume, non poteva più fiorire ed espandersi; e a lui s'imputarono tutte le cose che non aveva potute, come se non le avesse volute; laddove a Carlomagno non si fe' colpa di ciò che il suo impero aveva di caduco e il suo disegno di errato. È storia che vinti in tante guerre i Sassoni, gli Avari, i Turingi, gli Slavi, i Danesi e i Longobardi, padrone di tanta parte del mondo conosciuto, senz'altro competitore di gloria che il lontano signore di Bagdad, tremasse di sgomento al veder giungere una scorreria di pirati Normanni alle rive della Gallia Narbonese. Pianse, il potente imperatore; e ne aveva ben d'onde, per l'opera sua minacciata. I padroni del mare hanno sempre fatto piangere i signori della terra.

Ma perchè nella compiuta maestà dell'edifizio si mostra la crepa? Forse ha errato l'artefice, e nell'error suo sta la ragione della caduta? O non c'è piuttosto una forza superiore agli uomini ed alle loro faticose costruzioni? Di rado la vogliamo riconoscere, procedendo con cieca logica nelle nostre deduzioni sistematiche. Ma quando ci siamo spinti troppo innanzi, intravvediamo qualche volta il pauroso abisso, e in quell'abisso un disegno più largo, che comprende i nostri e li confonde, una volontà più grande, tanto più grande quanto più oscura, che soverchia la nostra e l'annienta. Nè giova essere stati al posto del sole, e nella sua dignità. Anch'egli, l'astro maggiore, centro del nostro sistema planetario, che ci fa palpitar d'amore e tremare di reverenza, obbedisce ad una forza più lontana, attratto, come un povero pianeta, nelle vicissitudini ignorate di un sistema più vasto. E allora s'intende, confusamente s'intende quel che tanto dispiace alla nostra superbia, quello che tanto volentieri si dimentica dalla nostra iattanza.

Pure, mai nato di donna fu più grande e in tal condizione di smisurata potenza. Alessandro, forse, Annibale e Cesare, furono più eccelsi capitani di lui, sulla cui strategia, sulla cui tattica, cercando in che veramente consistessero, e se obbedissero a costanti principii, si disputa ancora. Ma di quei tre, il primo nacque padrone, gli altri due cominciarono legittimi adoperatori di forze patrie. Non così l'uomo che tornava all'ozio impotente della vita privata dopo la più avventurosa delle sue guerre, e doveva chiedere il segreto della fortuna ai rischi del 18 brumale. Console e imperatore, ebbe ingegno e volontà di far tutto, nella guerra e nella pace; e tutto han cominciato da allora a negargli, con critica minuta, arcigna, implacabile, l'ingegno militare e il valor personale, il cuore ed il senno, la magnanimità, la prudenza. Le passioni, accese lui vivo, erano scusabili ancora; meno s'intendono, lui morto, divampanti nei posteri. Onestissimi giudici ne han fatto un mostro, tale da infamare non solamente sè stesso, ma il quarto di secolo che lo ha tollerato acclamandolo. Altri che in lui videro il pazzo, hanno perfino giudicata la sua mano di scritto, osservando la follìa dilagante nelle variazioni e nei mancamenti progressivi di quella firma, ch'egli era costretto a vergare sempre più frettoloso, diecine da prima, poi centinaia di volte in un giorno. E questi ha conquistata la sua fama negandogli il genio delle armi; e quegli ha saputo scusare la mostruosità del fenomeno umano ritrovandoci benignamente un caso di atavismo, una riapparizione fatale di venturieri italiani. Un grande! esclama ironico un altro; sì, perchè l'ha strombazzato tale dall'alto di dieci volumi un piccolo uomo. Ma ecco, il piccolo uomo è morto; e durano e si vanno moltiplicando gli studiosi di quella grandezza; duravano, mezzo ignorati, e tornano in luce i primi saggi del severo ingegno precoce, onde amorosi indagatori hanno ricavata la genesi degli eccelsi pensieri; nè manca d'altra parte, come per dare risalto a quella luce, l'ombra del Direttorio, uscita dal suo sepolcro, o dal limbo dei bambini, con le memorie del Barras, per contendergli invano i primi lauri di Tolone. Quella grandezza cresce, di mezzo agli stessi tentativi che si fanno per atterrarla. Se è una macchia, come pare a qualche coscienza sonnambula, l'Europa, lady Macbeth novella, è impossente a cancellar quella macchia; le acque istesse dell'Oceano l'hanno fatta più vivida. Lui spento appena, si chiese: “fu vera gloria?„ Ai posteri furono anche lasciati gli elementi del giudizio, scolpiti in istrofe immortali. E i posteri possono risponder oggi, a tanta distanza da quel giorno, giudicando la lontana figura dallo spazio ch'ella occupa ancora. Quella figura campeggia immane, anche agli occhi del popolo che le fu più severo. Quanto a noi Italiani, cui già più volte han rimandato il nostro “Buonaparte„, saremmo felici di tenerlo, come un grand'uomo di più; il che in una galleria di duemilaseicento anni e di centoquattro generazioni non guasta. Se pensiamo al bene ed al male che ha fatto, tirando le somme e facendo le proporzioni, volgeremmo al panegirico. Con lui e per lui le idee giovani non perirono più; “uscite dalla tribuna francese, cementate dal sangue delle battaglie, decorate dai lauri della vittoria, salutate dalle acclamazioni dei popoli, sancite da trattati e alleanze di principi, rese familiari agli orecchi come alle labbra dei re„ non potevano più dare indietro; checchè facesse la reazione, imperversando da capo trent'anni, dovevano essere la fede, la religione, la coscienza dei popoli. Quest'êra memorabile si collegò alla persona di lui; ed egli poteva ne' suoi ultimi giorni vantarsene. È giusto il vanto? domandano i più miti. Non fu egli inconsapevole autore di tanta fortuna, alla maniera degli antichi re, cui le storie del vecchio stile usavano ascrivere tutti gli eventi occorsi nei loro anni di regno? Anche questo si è tentato di provare, dicendo: l'Europa andava da un pezzo incontro alle novità; onde, nello stesso modo che le idee liberali potevano far cammino senza le violenze della rivoluzione francese, avrebbero anche potuto trionfare senza le ambizioni del Bonaparte. Ma quasi a sfatare in anticipazione il comodo ragionamento, esse andavano a naufragio con quelle istesse violenze, e parvero sepolte con le ambizioni di lui sotto il salice di Longwood. Aggiungete non potersi escludere dal problema storico il personaggio che ne è il dato principale e quasi tutto lo riempie. Noi non possiamo giurare che, messo fuori quel dato, sarebbero andate egualmente le cose; possiamo creder piuttosto che avrebbero preso un altro indirizzo, muovendo ad un altro e non più riparabil naufragio. Lui assente dall'Europa, non si riperdeva forse nel Novantanove il conquistato del Novantasette? Lui sparito dalla scena del mondo, non fu la Santa Alleanza? e non ne durarono gli effetti in Europa, quantunque in Francia la rivoluzione, forzatamente attenuata, scoppiasse ancora due volte, nel Trenta e nel Quarantotto? Diciamo dunque, per comporre la lite, e senza sicurezza di dir tutto il vero, che la filosofia del Settecento avrebbe temperato il dispotismo senza distruggerlo, e tenuto l'individuo, la famiglia, la società, in quelle povere condizioni, in quelle disgraziate relazioni di cui sentivano la noia innanzi la promulgazione del codice Napoleonico. La gran rivoluzione francese, per contro, avrebbe instaurati in casa propria e per sempre i diritti dell'uomo? o non sarebbe caduta piuttosto sotto i colpi della coalizione europea? Notate che, spenti i Girondini, ella non aveva più un contrappeso salutare; ucciso il re, la regina, l'erede, i nobili a migliaia, uomini e donne, aveva offeso l'umanità, non riuscendo a conservarsi tra le viziose debolezze del Direttorio, se non per le gelosie, le discordie, le inerzie dei potentati d'Europa.

Comparve allora l'ingegno sovrano. Fu un audace, sicuramente; ma l'audace poteva essere un soldataccio, e fu un legislatore, quasi un profeta armato, per dirlo nel maraviglioso stile di messer Nicolò. Ah, perchè non si trattenne egli al titolo e all'ufficio di console, il guerriero legista? Ce ne dorremmo, sì, ma pensando ancora che egli, console a tempo, e non solo, accompagnato e contenuto da mediocri, non avrebbe fatto nulla. Console unico, a vita, sarebbe stato con altro nome un imperatore. Ma forse la modestia del titolo poteva esser buon freno all'orgoglio; e la dignità sua poteva contentarsene, come al tempo loro se ne contentavano le civiche virtù di Valerio Publicola e di Quinzio Cincinnato. Ma non erriamo noi, rievocando quei nomi? e non trasformiamo un pochino nella nostra immaginazione gli uomini che li hanno portati? Erano uomini semplici, in semplici età; possidenti agricoltori, amavano i loro quattro jugeri di terra; si sarebbe fatto poco cammino con tali consoli e dittatori, che volevano essere ogni sera di ritorno al focolare domestico. Felici gli Stati che possono contentarsi di tali uomini e commetter loro le proprie sorti. Ma se ne sarebbe contentata la Francia moderna? Non se ne contentò l'istessa Roma antica, che con altri uomini e più vaste ambizioni domò Cartagine, aperse al suo pensiero, alle sue leggi, la Spagna, la Grecia, la Siria, l'Egitto, le Gallie e le terre settentrionali dall'Istro alla Mosa. E si fosse pur contentata la Francia; sarebbe stata quieta l'Europa monarchica, l'Europa dispotica, con sotto gli occhi uno stato senza re? Non gliene avrebbero imposto uno, da Coblenza o da Vienna, da Londra o da Pietroburgo, per cessare il mal esempio, tanto più pericoloso quanto era più nuovo? Dunque?... Dunque, storicamente fatale il despota della libertà, che fu il rinnovatore della carta e del diritto d'Europa, il turbatore di tutta la vecchia compagine d'interessi, di privilegi e di pregiudizi, tessuta al finire del Medio Evo per danno universale. Che se, infrenatagli l'ambizione, quell'uomo portò la pena del troppo che aveva voluto essere, noi non dovremo credere per ciò che senza quella sua ambizione si sarebbe ottenuto il meglio. Bene il mondo credette di respirare, quando egli cadde; e prime respiraron le madri. Bellaque matribus detestata: è verissimo. Ma come respirassimo noi Italiani, stimandoci tanto felici di quella caduta, lo seppe il più manifestamente felice di tutti, Federigo Confalonieri, sepolto quindici anni nelle segrete dello Spielberg, e non trattone fuori se non per languire undici anni ancora, fantasma di sè stesso, condannato a morire esule sconsolato dalla terra dei padri.

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