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II

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Il cervello del mondo. – Caso e necessità politica. – Una fioritura colossale – L'article de Paris– La virtù del cartellone. – La caccia al compratore. – Gli occhi della padrona. – La scala dei prezzi. – L'arte di pelare un pollo senza farlo stridere.

Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta. Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del mondo?»

Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima, indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la decima a' suoi gloriosi castellani.

Parigi, prendendola ab ovo, è la figlia del caso, maritato ad una necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso. L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa, poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere, saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo, come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione, il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.

Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a Tebe; ma io credo che il parallelismo non corra. Parigi è il fiore della Francia, e la Francia avrà sempre in qualche cosa il primato. Ci saranno delle altre Madrid; Carlo V rinascerà in altri monarchi fortunati; ma Parigi trionferà ancora, perchè cospireranno a sostenerla altri Bajardi, altri Jean Goujon, altri Palissy ed altre madame d'Etampes. Sicuro, anche le donne, e che donne! Anche questa è stata una specialità, un article de Paris, composto di un terzo di bellezza, e di due terzi di grazia. «E la bellezza è vinta dal lavoro» direbbe il poeta.

Parigi ha i suoi barbari, i suoi odiatori domestici, peggiori a gran pezza dei nemici e degli invidiosi di fuori. È da vedersi qui il punto nero; ma, per istudiarlo a dovere, ci vorrebbe tempo d'avanzo, ingegno addestrato a questa maniera d'indagini. E poi, basterebbe ciò, per venire con qualche fondamento ai pronostici? Si ragiona male con certe classi di moralisti, che gridano contro una corruzione da cui non sanno sottrarsi eglino stessi, non si può capire dove mirino certi artefici del lusso, che potrebbero contentarsi di meno, tornando all'aratro, e non vogliono, perchè essi pure hanno nell'anima il baco dei desiderii smodati, e credono di poter domandare come un loro diritto ciò che agli uni concede la fortuna, agli altri il lavoro accumulato di tre o quattro generazioni. Questa confusione di dottrinarii e d'ignoranti sfugge ad ogni esame, manda a male ogni calcolo. Ieri vi hanno sopportato un Dionigi; quest'oggi vi rovesciano un Washington.

Torno all'article de Paris. Qualunque sia, a qualunque industria appartenga, esso è la forza di questa città; ed è qui che la cosa s'intende. La città è tutta un'insegna; ad ogni bottega, ad ogni piano, ad ogni finestra, si vede una scritta in grosse lettere d'oro. Il parrucchiere, il tabaccaio, il liquorista, affittano le loro vetrine alla pubblicità di altre industrie, bisognose di richiamo. Dove c'è un muro maestro che aspetta l'addentellato d'una casa nuova, si legge sempre qualche avviso che ha le lettere alte due palmi. Il Petit Journal, un foglio niente migliore di molti altri, vi annuncia così la sua tiratura di 600,000 copie al giorno. Altrove non ne annuncia che 500,000; in certi luoghi si mette a cavallo delle 550,000; dappertutto fa precedere il numero delle copie da queste parole orgogliose: «le plus grand succès de l'époque». Scommetto che qui farebbe fortuna un giornaletto il quale sapesse spendersi venticinque mila lire per far scrivere su tutte le cantonate disponibili: «_Le plus petit succès de l'époque! Le… n'importe quoi, journal politique quotidien: tirage de 999 exemplaires_». Si riderebbe dei pochi, come si ride dei molti, ma il giornale avrebbe uno spaccio incredibile. Tanta è qui la virtù dell'annunzio!

Che dire del foglietto che si distribuisce a mano su tutti i marciapiedi, su tutti i crocicchi di strada? Il cappellaio che si serve di questo richiamo non vi annunzia mica un cappello da dieci lire; tutt'altro! ve lo annunzia da sedici, o da venti. Voi, che avete appunto bisogno d'un cappello, dite in cuor vostro: – se questo me lo vende a sedici lire, Dio sa quante ne vorrà il cappellaio che non manda attorno i foglietti! – E andate subito da quell'altro e pagate sedici lire, certo di aver cansato una spesa di venticinque. Nè solo per questo, ci andate, ma anche per un poco di gratitudine. Certi foglietti son meraviglie d'arte tipografica, e abbondano di utili indicazioni. L'altro giorno, per esempio, vi davano in questo modo il piano della rassegna militare a Vincennes. Molti, da quattro mesi, vi danno quotidianamente la pianta topografica dell'Esposizione. Un mio amico, presidente d'un Club Alpino dell'Alta Italia, fa raccolta di tutte queste offerte gratuite, con intenzione di custodirle. Ne avrà presto una montagna, e potrà farne l'ascensione.

L'article de Paris è la cosa fatta con maggior garbo, il libro nuovo meglio stampato, il drappo meglio tinto, la veste meglio aggiustata. Una certa grazia biricchina, una certa sprezzatura artistica, un certo modo di presentare l'oggetto, ve ne raddoppiano il valore. E questo è il grande vantaggio. Del resto, qui i prezzi variano secondo le strade. Il boulevard è una ladronaia galante. Entrate in una bottega per comperare una cravatta, o per farvi stampare un centinaio di biglietti di visita; c'è dentro una donnina di garbo, che ragiona a lungo con voi, vi fa strabiliare col suo buon gusto, e con la scoperta del vostro. Non ve ne eravate accorto, ed avevate anche voi un gusto squisito, sopraffine, non plus ultra. La signora, quando vi ha lisciato e ridotto per benino, chiama il commesso, un artista fallito, elegante di aspetto e rispettoso di modi, che è incaricato di darvi il colpo di grazia. Vi si domandano cento lire per ciò che a casa vostra, od anche cinquanta passi lontano, vi costerebbe a mala pena venticinque. Ma come dirgli che è un indiscreto, là, sotto gli occhi della padrona, che vi abbozza con le labbra un sorriso? Rinunziereste al vostro buon gusto, di creazione così recente, vi gabellereste da voi per un barbaro?

Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver pranzato da Bignon, o al caffè Riche? Bisogna dunque passare sotto le Forche caudine; andare al Riche, o da Bignon. Eppure, chiuso là in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato trenta lire, o giù di lì, una scarsa julienne, due piatti di carne, o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al Diner parisien o al Diner Valois, e pagate cinque lire un pranzetto più compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da Tissot, o da un altro del Palais Royal, e lo stesso pranzo vi costa a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un pulitissimo ristoratore coll'insegna Au Rosbif, che promette di farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie (parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè Riche, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno, si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una piquette corrigée, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo vicino della campagna pisana.

Dunque io dico, l'article de Paris varia secondo le strade e le insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si conosce l'arte di plumer un poulet sans le faire crier. Al gran prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.

Lutezia

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