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I.
Spiacevole invito
Оглавление– Che idea! – esclamò la signora Livia, lasciandosi ricadere sulle ginocchia il suo ricamo turco, mentre con le pupille stravolte da un moto repentino di stizza andava cercando il soffitto a cassettoni dorati del suo salottino. – Invitare le Cantelli! Ed hanno accettato? da te? —
Raimondo sgranò tanto d'occhi, per guardar bene sua moglie.
– Non ti capisco; – diss'egli. – Accettare un invito da me, non è forse come accettarlo da te? Non siamo noi la stessa cosa?
– Per gl'inviti, no; – rispose asciuttamente la signora.
– Oh Dio! – riprese egli, sforzandosi di volgere il discorso alla celia. – Ci sono dunque delle eccezioni alla vostra santissima legge?
– C'è questa, mio caro; – sentenziò la signora. – Gl'inviti solenni, in una casa bene ordinata, li fanno marito e moglie coi loro nomi uniti in una formula unica. Nei casi ordinarii, e d'una certa confidenza, invita la signora, intendendosi annuente il marito. Alla fin fine, non è lei che governa la casa? —
Raimondo chinò la fronte con aria contrita.
– Vizio di forma, adunque; – conchiuse egli. – Puoi sanarlo tu, andando a far visita, e confermando l'invito.
– No, caro; guasterei. C'è poi la sostanza, che non mi va.
– E perchè, se è lecito saperlo? Quelle buone signore si ritrovano qui, lontane da casa loro, al Danieli. Un albergo, sia pur di prim'ordine, è sempre un'albergo; e in giorni come questi…
– Male! – interruppe la signora, che non voleva passarne una. – Perchè si ritrovano a Venezia per l'ultimo giorno dell'anno? Se ci penso, non è neanche stagione per addormentarsi qui, sulla “tacita Laguna„.
– Ne sai la ragione; – si provò a rispondere Raimondo colla usata dolcezza. – Il figliuolo che è qui al dipartimento navale…
– Per Natale e Capo d'anno potevano ottenergli una licenza, e portarselo a Milano; – ribattè la signora. – Si lascia così solo laggiù il capo di casa? E in giorni come questi (son tue parole), in giorni come questi, sacri al raccoglimento delle famiglie?
– Eh, ci avrà pure pensato, la signora Eleonora; – osservò pacatamente Raimondo; – avrà domandato e non avrà ottenuto. Del resto, che t'ho a dire? Comunque sia andata la cosa, poichè le signore Cantelli sono rimaste qui, a noi non rimaneva altro che fare il dover nostro; non ti pare? —
Una spallucciata fu tutta la risposta della imbizzita signora, che per non avere a dir altro si rimise attorno al suo ricamo turco. Se quello che andava facendo, mettendo punti su punti, era un versetto del Corano, diciamo pure che Maometto mandava a quel paese le povere signore Cantelli.
Raimondo, frattanto, anche a volersi contentare d'un gesto, non poteva fermarsi lì, col suo ragionamento avviato, che bisognava condurre alla fine.
– Pensaci, mia buona Livia; – soggiunse. – Si tratta della famiglia del mio corrispondente di maggior conto, e più che corrispondente, patrono. Ho grandi obblighi, e di antica data oramai, col banchiere Cantelli. Se le mie faccende hanno così prosperato, credi che ci ha avuto gran parte la fiducia e l'appoggio del signor Anselmo, di quel re dei galantuomini. Così, venendo al caso di stamane, mi è parso necessario, incontrando la signora Eleonora all'angolo della Piazzetta, di dirle che andavo appunto da lei, per invitarla, con la sua bella, figliuola e con quel caro ufficialetto di suo figlio, a fare il gran salto dall'anno vecchio al nuovo con noi. Ed ho anche insistito; confesso il mio peccato, che non mi pareva poi tale. Ora, mia buona Livia, quel che è fatto è fatto, e ci vorrà pazienza; soltanto mi duole che ti possa spiacere.
– Spiacermi! spiacermi! chi ha detto mai ciò?
– Ah, volevo ben dire! – gridò Raimondo, più che sollevato oramai, e disposto a ridere. – Possiamo dar da cena a ventiquattro.
– Sì, caro, invitando a caso, e male. Ma siamo alla vigilia, quest'oggi, ed io mi son tenuta scarsa nei biglietti d'invito, per non andare oltre i dieci. Ora vedi tu, signore e padrone, dove ci portano le tue novità. Tre Cantelli, e noi due, si fa cinque; il cavalier Lunardi sei; il signor Gregoretti sette.
– Poi la tua cara Galier…
– Eh! non me la rinfacciare, povera e cara anticaglia, che è piena di garbo, e più interessante, col suo brio, di tante e tante puppattole.
– Non nego, non nego; – si affrettò a dire Raimondo. – Con lei, dunque, si fa otto.
– E nove col suo nipote; – soggiunse la signora Livia; – e dieci col signor Ruggeri; e undici col maestro di musica, necessario per accompagnare al piano, se qualcheduno volesse cantare; e dodici…
– Ferma lì, per carità! – gridò Raimondo, con accento sbigottito. – Metti al dodici il mio amico Filippo. Non vorrei che toccasse il tredici a lui, poveraccio.
– Mettiamolo al dodici; – concesse la signora, con aria di somma indifferenza. – Al tredici andrà il povero signor Telemaco. Per fortuna, non ha da sapere a che numero ci casca. Verrà poi tua madre? Finora non c'è lettera, nè telegramma.
– Se non verrà, – disse Raimondo, trattenendo un sospiro, – avremo sempre sotto la mano il mio ottimo Brizzi.
– Invitalo dunque senz'altro.
– No, questo, no: non gli anticipiamo la noia. Tu sai bene che il mio eccellente segretario, il mio braccio destro, si ritrova piuttosto male colle cerimonie, e più volentieri passerà la gran notte con una mezza dozzina di amici al Cappello Nero. Avremo tempo a propinargli l'amaro calice domani, se sapremo che la mamma non viene. —
E represse, così dicendo, un altro sospiro. Ma non voleva esser triste; sopratutto non voleva parer tale.
– Che stravaganza, dopo tutto, questa superstizione del numero tredici! – ripigliò, facendo bocca da ridere.
– L'hanno tanti! – disse Livia.
– E credo che facciano un po' tutti per chiasso; – proseguì Raimondo; – come quel tale che mi diceva coll'aria e coll'accento più grave del mondo: quando si è in tredici a tavola, accade sempre questo, che uno dei tredici muor sempre, o presto o tardi, prima degli altri dodici.
– Bella novità! – esclamò la signora, non potendo trattenersi dal ridere.
– Ma è l'unica cosa che se ne possa inferire con certezza, non ti pare? – conchiuse Raimondo, felice di vedere rasserenata la sua parte di cielo. – Dunque tornando a noi, tutti i tuoi inviti son fatti?
– Sì.
– E non vorrai sanare il mio vizio di forma colle signore Cantelli?
– No, ti ho detto, guasterei. Oggi, poi, non me la sento di uscire. Quante cose ho da disporre, quante da ricordare, come padrona di casa! Sai che c'è da chiamare tutti i pensieri a capitolo, come altrettanti monaci in una abbazia? E in queste cose tu non potresti aiutarmi. Siete così disadatti voi altri uomini, a preparare un ricevimento!
– Vero; – disse Raimondo; – e aggiungi pure molte donne. Io anzi non ne conosco più d'una, per far tutto a quel dio. E te ne sono così grato! La mia casa è una reggia, e tu ne sei la regina.
– Ah! sì, bravo, due cerimonie! – esclamò la signora.
– Sempre, lo sai, come il primo giorno; – riprese Raimondo. – La mia felicità è così piena! Signore, dico a Dio più spesso che tu non ti possa immaginare, fate che non cessi, che non si diminuisca d'un punto. E tu, dolce Livia, ricordi un giorno, se mai c'è stato, nel quale io ti apparissi diverso dal primo in cui ci siamo conosciuti? —
Il pensiero di Raimondo era tenero nella sua sincerità; l'accento era impresso di passione profonda. La signora Livia si alzò lasciando cadere sul tavolincino il ricamo col quale da un pezzo si era venuta baloccando, e avvicinatasi a Raimondo, con un bel gesto di graziosa degnazione, si chinò a baciarlo sulla fronte.
– Fanciullone! – gli disse poi, rialzandosi tosto sulla vita. – Va al tuo banco, ch'è ora, e lasciami alle mie occupazioni… regali. —
Raimondo aveva afferrate le mani di lei, e le baciava divotamente, l'una dopo l'altra, cercando di trattenerla, ad ogni tanto guardandola negli occhi con aria supplichevole, che pareva domandare un supplemento di grazie sovrane. Ma la regina aveva la sua dignità da conservare. Bene si lasciò tenere a bada parecchi minuti secondi; bene si accostò un tratto colla persona per esaudire la muta preghiera; ma subito si ritrasse, facendogli boccuccia, e si svincolò da lui per andare nella sala da pranzo, dove erano stati dianzi per far colazione, e dove i servi finivano appunto di sparecchiare. Quella era l'ora che madonna soleva scegliere per ragionare col Giovanni, il più antico servitore, come il più decorativo, dei signori Zuliani, decorato egli stesso del titolo di maestro di casa; e quel giorno, vigilia della gran cena di San Silvestro, doveva essere un colloquio importante al sommo, una specie di consiglio domestico, uno di quei consigli solenni, in cui si dimostra la sapienza delle padrone di casa, e i signori uomini di solito non capiscono un'acca.
La signora Livia era sparita; ma Raimondo Zuliani, anche restando come si suol dire a bocca asciutta, era contento di sè e di sua moglie. Aveva vinta una giornata campale, invitando alla gran cena le signore Cantelli, che a sua moglie piacevano poco, e quella cara non era più in collera. Benedetta donna! che stranezza era la sua, di non poterle soffrire? Sì, certo, la signora Eleonora, con quella sua persona intirizzita, con quel suo fare sostenuto, con quella sua parsimonia di parole, non era la compagnia più allegra del mondo. Per questo, viva la faccia della contessa Galier, fosse pure con tutte le sue grinze, donde tra la cerusa e il belletto brillava e scoppiettava sempre l'arguzia, mentre era lei la prima a ridere degli sforzi inani che faceva allo specchio, per levarsi vent'anni di dosso! Ma quella Margherita Cantelli era tanto carina! E niente puppattola, come pareva che volesse gabellarla in un momento di stizza la sua Livia adorata; semplice, intelligente, buona e cortese, un vero angelo in terra. E poi, e poi, bisognava pensare che la signora Eleonora e la signorina Margherita erano la moglie e la figlia (rispettivamente, come si dice negli atti di partecipazione) del banchiere Anselmo Cantelli, col quale Raimondo Zuliani aveva obbligazioni infinite. Non erano state tutte rose, nei cominciamenti di Raimondo; ed anche più tardi, quando già poteva avventurarsi più in alto nel mare magno degli affari, non gli erano mancati i frangenti, nè i passi difficili; Milano allora, sempre confidente e magnanima, aveva sostenuto Venezia. Gratitudine, se ce n'è!
Egli era dunque contento del dovere compiuto, felice di vedere la sua Livia così presto rabbonita. Sempre a quel modo l'aveva egli amata, temendone un poco gli scatti improvvisi, servendola molto timidamente, come avrebbe servita la sua dama un buon cavaliere antico, memore di essere stato paggio, e sempre disposto a reggerle lo strascico della sua veste di castellana. Che veglia d'armi aveva fatta Raimondo Zuliani, cavaliere moderno, per conquistare la sua felicità! quante difficoltà aveva dovuto superare! Le più gravi gli erano anche riuscite più acerbe, poichè erano venute a lui dalla mamma adorata, che non vedeva di buon occhio la gente d'onde Livia nasceva. Come aveva lavorato di fine, il giovinotto, e con quanta pazienza, per levare certi dubbi, certi vaghi timori dall'animo di sua madre. La buona signora Adriana si era finalmente adattata all'idea di quelle nozze, che le spiacevano tanto. A che non si adattano le madri, povere madri, per far contenti i loro figliuoli? Solo in un punto non aveva saputo piegarsi, la signora Adriana, ricusando perciò di lasciare il suo ritiro di Belluno. Lassù non era nata, per verità; ma quello era omai diventato il suo nido, poichè ci aveva accasata una figliuola, e la consuetudine di parecchi anni le faceva amare quel nuovo soggiorno. Un po' freddo il paese; ma dove mai non fa freddo, d'inverno? Per contro, c'era abbastanza fresco in estate, ed ella si trovava benissimo in quell'antico palazzo dei Cappellari della Colomba, dove con qualche ritocco opportunamente fatto dall'amatissimo genero si poteva star come papi.
Così diceva ella ridendo. E un papa c'era nato diffatti, sebbene da papa non ci fosse vissuto. A Venezia la signora Adriana compariva assai raramente, appena quel tanto che bastasse a dimostrare che non dimenticava affatto la patria. Qualche volta era discesa per la vigilia dell'Ascensione, antica festa veneziana; qualche altra pel Capo d'anno, ma governandosi in modo che il fatto non passasse in consuetudine, e volentieri trovando la scusa nel rigore della stagione. Aveva promesso di scendere per quell'anno? Sì e no, dipendendo il fatto dalle circostanze, che sogliono sempre avere un gran peso sulle umane risoluzioni. Ma si dica pur tutto; la figliuola maritata a Belluno aveva già due amori di bambini; e quando si è nonne non si sa mai distaccarsi da quelle piccole anime, nella età in cui sono veramente belle, monde d'ogni colpa, se non d'ogni moccio. Ma questo è un guaio pei nasini rosei, ed anche un po' pei ditini grassocci; belle cosine che si lavano senza fatica, e gli angioletti tornano puliti a quel dio, da divorarli coi baci.
La signora Livia, dal canto suo, non incalzava molto con preghiere per far calare la mamma a Venezia. E non già per avversione che le ispirasse la vecchia, che sarebbe un dir troppo, ma perchè forse non si sentiva amata svisceratamente da lei, o forse perchè al tempo delle sue nozze con Raimondo l'aveva indovinata contraria. Del resto, se nel suo cuore c'era un risentimento, od altro di simile, lo dissimulava bene, come sanno le donne assai meglio di noi, perchè più di noi ci sono spesso costrette.
– Sai? – diceva ella al marito. – Non posso reprimere un senso d'invidia, pensando che tu l'hai, la tua mamma, e che io non ho più la mia. —
Così ragionata, la cosa poteva anche passare agli occhi di Raimondo. Un po' strana, a dir vero, la sua dolce metà, e alle volte neppur tanto dolce; ma egli l'amava così. Raimondo si era dato senza risparmio, alla cieca, come tutti gli uomini di profondo sentire, che il raziocinio e l'altre doti dell'intelletto debbono mettere intieramente a servizio di gravi occupazioni, di assiduo lavoro mentale. Gli affari comandano; sono una ferrea disciplina, gli affari; gelosi, imperiosi, prepotenti, se ne avessero modo, in quella guisa che distruggono ogni germe di pensiero nell'anima, asciugherebbero ogni vena di affetto nel cuore dell'uomo. E con molti, non c'è che dire, ne vengono a capo; comprimono, schiacciano, disseccano, trasformano, come accade nella trasmutazione di tanti tessuti organici, vegetali ed animali, in pietra o in metallo. Così il bel fiore dell'ideale, educato da una provvida bontà nel cuore più ruvido, si metallizza ancor esso, prendendo magari, per una certa affinità elettiva, la forma di una moneta da cento lire, nuova di zecca e fiammante. Fior di conio, dicono i numismatici; che bisogno c'è egli d'un fior d'ideale? Ma non tutti la pensano così, non tutti sentono a quel modo. E quando in certi cuori il bel fiore è ben vivo e tenace, le cure dell'assiduo lavoro, le prepotenti ragioni del tornaconto, possono comprimere fin che vogliono; sarà vana fatica, non varranno mai a schiacciarlo, non a disseccarlo, non a trasformarlo, non a farvelo diventare di metallo o di pietra; che anzi, imprigionato più strettamente, si fortificherà contro le dure invasioni, e per qualche spiraglio vi tramanderà gli effluvii più intensi. Raimondo Zuliani nel profondo dell'animo era fatto così; banchiere poeta; poeta senza far versi; poeta nella delicatezza e nella vivacità di un'indole tanto più forte ne' suoi scatti improvvisi, quanto più era ordinariamente compressa dalla necessità e dalla consuetudine; poeta nel culto dell'amicizia, poeta nella adorazione per la sua Livia, di cui era innamorato come il giorno che l'aveva conquistata, fra tante difficoltà, fra tanti contrasti, e non senza strappi dolorosi al suo cuore di figlio.
Delle sue nozze niun frutto era anche venuto; cagione d'intima pena per lui, specie se pensava alla mamma, che un amor di bambino avrebbe attirata più spesso e trattenuta più lungamente a Venezia, come quegli altri due la trattenevano, e troppo volentieri, a Belluno. Ma bisognava striderci. La sua Livia, del resto, non si dava pensiero di queste malinconie.
– Infine, – gli diceva, – che te ne fai, se mi ami? Se tu avessi quell'amor di bambino, come ti piace di chiamarlo, non dovresti spartire i tuoi sentimenti fra due? Un altro essere, ultimo venuto, comanderebbe in casa, tua. In quella vece, che cosa avviene? Tu non hai altro che me; mi amerai meglio. —
Questo era un argomento perentorio, davanti al quale bisognava deporre le armi ed arrendersi a discrezione.
– Sì, sì, hai ragione tu; – gridava egli tutto racconsolato. – Ma vedi? bisognerà dirmene spesso, di queste dolci parole. —
Nel fatto, la signora Livia non sentiva nessuna tenerezza pei bambini, e l'esserne senza poteva anzi parerle una benedizione del cielo. Pensava ella pure che con simili impicci al fianco, gioventù e bellezza ad un tempo si sciupano? Certe cose si sentono, anche confusamente, nell'anima, senza bisogno di pensarci su; e voi le potreste leggere espresse a chiare note di serenità e di contentezza sulla fronte di parecchie donne, se non a dirittura di molte. Strano, non è vero! Si è tanto detto e creduto che Dio abbia spirato in ogni donna il senso della maternità, quel senso arcano e ineffabile che in tutte si rivela, fin dagli anni più teneri, nell'amor della bambola! E questo pensava alle volte anche Raimondo Zuliani; ma oramai senza fermarcisi troppo.
– Oh, finalmente! – diceva egli tra sè, – che cos'è questa maternità? Un istinto. E che cos'è un istinto? Un moto interno, naturale, involontario, irresistibile; impulso oscuro, adunque, una forza cieca, che ci accomuna, nell'adempimento di certe funzioni, ad ogni specie di animali. È della natura umana, o dovrebb'essere, il ribellarsi a questa forza cieca, per seguir la ragione. È chiaro poi, che se avessi figliuoli, io dimezzerei l'amor mio. Livia dice benissimo; lasciamo dunque l'istinto alle bestie. —