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V.
Natura ed arte

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Filippo Aldini era rimasto finalmente libero, reso alla solitudine de' suoi pensieri. Solitudine, non quiete; tanto la giornata era stata piena di commozioni per lui. Nè l'agitazione del suo spirito si chetò così presto, che non passasse ancora gran parte della notte insonne. Quante novità! e come, senza volerlo, senza prevederlo, si ritrovava egli lontano in poche ore dai forti propositi in cui gli era parso di non dover vacillare nè allora nè mai! Oh, infine che cosa poteva egli rimproverarsi? Raimondo aveva proposto e disposto, premeditato, combinato e conchiuso. Anche conchiuso? Almeno pareva; e dal modo come il suo prepotente amico aveva condotto fino a quel punto il negozio, era da credere che tutto oramai dovesse andargli a seconda. Che cosa valevano contro quell'audacia fortunata le ragioni di Filippo? Ed erano ragioni? Scrupoli, sì; e parecchi, e d'indole diversa. Ma non appariva in tutto ciò la mano del destino? I fati, fu detto dagli antichi, conducono i volenti, ma ancora e più trascinano i restii; che serve dunque il ribellarsi?

Nel fatto, egli era innamorato di Margherita più che non avesse lasciato dire da Raimondo, più che non avesse fin allora voluto confessare a sè stesso. Aveva ricevuto il colpo fatale fin dalla prima volta che la divina fanciulla gli era passata davanti agli occhi, con la mamma e con Raimondo Zuliani, sotto le Procuratie Vecchie, mentre egli stava per uscire dal Florian. L'aveva veduta fermarsi in piazza San Marco, alla solita scena dei colombi, che è il trastullo di tutte le signorine e di tutte le spose novelle appena giunte a Venezia. Alta e snella, con quella massa di capelli nerissimi che facevano spiccar maggiormente il candore perlaceo del viso; nettamente disegnata la flessuosa persona in mezzo a quello sciame di volatori, che le roteavano sul capo, o intorno alle spalle, quali avventandosi alle sue candide mani colme di grano, quali fermando il volo sulle sue braccia, per aspettare la volta loro; pareva una bella ninfa antica per “nuovo miracolo e gentile„ rivivente ai dì nostri, forse indegni di tanta fortuna.

E poi, due giorni appresso, quando meno se l'aspettava, le era stato presentato. L'aveva veduta da vicino; era stato costretto ad osservarla. Che grazia ingenua, su quel labbro! che nobiltà serena, in quell'occhio luminoso, sotto le ciglia lunghe più nero e più lampeggiante! in quella linea delicata del profilo purissimo, e in quella compostezza leggiadra della persona! Non più una ninfa antica, ma una dea veramente. Diana, o Minerva? C'era molto dell'una e dell'altra in quella stupenda figura, nel portamento, negli atti, nella espressione del volto.

Quei benedetti artisti greci, che avevano foggiate tante divinità femminili, deliberatamente chiusi nella ricerca di un'immagine spiccata, conforme al tipo che dovevano raffigurare, non avevano mai pensato a fondere in uno i due tipi, della bellezza rigidamente casta, sempre un po' acerba, quasi selvaggia, e della bellezza intelligente, più serena e più dolce. Sicuramente, quegli artefici insigni avevano cercate altre espressioni, plasmando altri simulacri di dee; ma tutte semplici, d'un carattere unico: Cerere, ad esempio, faccia contenta di buona massaia, colle pupille a fior di testa e colle palpebre abbassate, come a raccoglier lo sguardo sulle cose della terra; Giunone, maestà consapevole, cogli occhi bovini, che non andavano più là dalle bianche braccia, ond'ella era sempre stata orgogliosa. Quanto a Venere, celeste o terrestre che fosse, uscita appena dalla spuma del mare, o dai lavacri d'un bagno tiepido, era sempre la imagine di una donna, che doveva parlare ai sensi il linguaggio della bellezza; linguaggio possente, a cui non occorrono profondità di pensiero.

Quante sottigliezze! Ma gli passavano per la mente; e bisognava dirle, e bisognerà perdonargliele. L'Italiano, finalmente, imbevuto di classico latte, ha queste cose nel sangue. Margherita, agli occhi di Filippo Aldini, era bellezza perfetta di forme, avvivata da un lume ideale che prometteva tesori d'intelligenza elettissima. E l'amava, l'amava, con tutte le potenze dell'anima. L'amore è così; viene quando vuole, e quasi sempre contro il nostro volere. Avete formate le vostre abitudini; il vostro genere di vita, vi paia buono o mediocre, vi si adatta al raziocinio, come alla persona un abito vecchio: stimate di esser calmo, tranquillo, immutabile nei gusti e nelle consuetudini, perchè da un pezzo non avete avvertita la necessità di nessun cambiamento. Ed ecco, passa l'ignota sul marciapiede, arresta con uno sguardo distratto e fuggevole il vostro occhio abbagliato, v'inonda della sua luce, vi penetra del suo fluido magnetico, vi rende di punto in bianco tutt'altro da quello di prima. Buon per voi, se sono in quella imagine vittoriosa uniti i due tipi celesti, Diana e Minerva, casta bellezza e intelletto sovrano. Quantunque, armate come sono ambedue, non c'è da star troppo allegri; fanno due ferite ad un tempo.

Nondimeno, se era stato colpito, Filippo Aldini si era anche e presto riavuto del colpo. Gran forza d'animo, la sua; per quanto, a guardarci bene addentro, sentisse di non averne gran merito. Un vecchio proverbio veneziano gli significava per l'appunto il vero della sua condizione: “per forza, San Marco!„. E aveva creduto di dire ogni cosa, di difendersi bene, ripetendo a sè stesso: è troppo ricca. Ma anche questo non senza impeti di ribellione in fondo al cuore. O Dio, perchè una donna è troppo ricca, bisognerà dunque odiarla? Ma c'erano altre ragioni, purtroppo; tanti sono i fili che ci muovono, o che non ci lasciano muovere, ingarbugliandosi maledettamente tra loro, e togliendoci ogni libertà di operare. Dunque, nessun passo oramai, che non fosse per dare indietro. E per fortificarsi in quel duro proposito aveva fatto quest'altro ragionamento, che era una consolazione, in verità, ma una consolazione di dannato. Ebbene, diceva egli, l'ho veduta, l'ho ammirata, l'ho tutta raccolta in me, questa bellezza trionfante; le dedicherò un culto severo nel profondo dell'anima. E vecchio, gelato il sangue nelle vene, ma non offuscata nel cervello la memoria degli anni vissuti, potrò dire a me stesso con legittimo orgoglio: veramente son nato in un felice periodo della vita del mondo, che m'ha fatto contemporaneo d'una bellezza così nobile e cara.

Niente più visite, adunque; ma dentro di sè gli pareva di essere diventato un altr'uomo. Avrebbe chiuso il suo cuore, lo avrebbe sigillato come una fiala di essenze odorose. Più nulla avrebbe concesso al mondo circostante, se non la parte più vana di sè; stoicamente chiuso ai profani avrebbe serbato il sacrario dell'anima sua dolorosa. La tristezza, infine, non nuoce; pari a certe acri sostanze, profuma e custodisce tutto ciò che involge e compenetra. Filippo ne aveva già conosciuto qualcheduno, di quegli uomini misteriosi, ai quali è custodia e nutrimento un celato dolore, e che, calmi nell'aspetto, cortesi senza condiscendenze alle altrui leggerezze, interamente padroni di sè medesimi, passano e lasciano sul loro cammino un tenue solco di luce, un bagliore incerto e discreto, che li rivela e li nasconde ad un tempo.

Disegno triste e caro, per tanti giorni vagheggiato nell'anima, com'eri ad un tratto svanito? Raimondo voleva; Raimondo aveva mutato ogni cosa, disfatto il faticoso edifizio di Filippo in un soffio. Era il destino, e Filippo si lasciava trascinare dal destino. Aveva egli poi modo di operare diversamente? I due terzi della notte erano stati passati da lui a meditare, a combattere, a fremere di cento scrupoli, di cento rimorsi. Nessuno scampo, nessuna difesa; era il destino, che voleva così. Filippo se lo ripetè cento volte, dopo aver cento volte rivoltato per ogni verso il suo caso di coscienza. Non ci voleva oramai pensar più. E qui, o per istanchezza che sentisse, o per senno che avesse fatto, si addormentò finalmente.

Si addormentò, dunque, ma il suo sonno non potè andare tant'oltre, che non fosse visitato da un sogno. Aveva meritato di farlo piacevole, dopo tanti contrasti; e veramente il suo sogno fu tale, ch'egli non avrebbe potuto desiderarlo migliore. Filippo era solo, tutto solo, in una barca senza vela e senza remo; e andava tuttavia, scivolava sull'onde verso il mare alto, a lume di sole mattutino, entro una massa leggera, trasparente, formata di rosei vapori, lasciandosi indietro un fitto velo di tenebre. Non si voltava a guardarle, quelle tenebre dense; le sentiva alle spalle, gravide di tempesta, sibilanti, piene di mostri, di gòrgoni e di chimere; e le cacciava col pensiero da sè, a grado a grado allontanandosi, sempre più immergendosi in quella nebbia rosata e luminosa, che attenuandosi via via gli faceva balenare allo sguardo i vaghi contorni d'una riva lontana. La barca scivolava, volava sulle spume, già era fuori d'ogni pericolo. Ma c'era egli stato, il pericolo? Egli non ne aveva, a dir vero, un'idea molto chiara.

E la riva lontana si avvicinava, pareva correre incontro a lui, quanto più volava la barca prodigiosa sulle acque tranquille, senza aiuto di vela, senza impulso di remo. Già una forma gentile si disegnava tra quei tenui vapori rosati; si veniva condensando ad occhi veggenti in persona conosciuta; alzava il braccio, stendeva la mano per dargli il benvenuto, mentre una vocina soave, uscita dal suo labbro vermiglio, gli echeggiava per tutti i recessi dell'anima: “Ah, finalmente, ritorna il mio cavaliere?„

Sì, ritornava a lei, così volendo il destino. E la barca, frattanto, appena toccato il lido incantato, spariva; ed egli era là, sulla spiaggia, preso per mano dalla gentile apparizione. Allora, per miracolo nuovo, il lido spariva a sua volta; ed egli e lei, tenendosi sempre per mano, muovevano leggeri leggeri sul verde smalto d'un prato, di tanto in tanto levandosi a piccoli voli, posando il piede a terra un istante per rivolare ancora, come due uccellini che alternassero capricciosamente i passi coi salti, e i salti colle volate, spensierati ed allegri, contenti di sè e dell'ora propizia, senz'altro desiderio che di sentirsi vivere. E si addentravano, così muovendo i passi e i voli, in una valle ampia, per lenti giri sinuosa tra due ordini di colline verdeggianti, lungo le rive d'un fiume, ora ristretto e gorgogliante tra scogli muscosi e macchie di ontàni e di càrpini, ora placido e disteso sui greti come una lunga fascia d'argento. Dal colmo dei poggi, frattanto, occhieggiavano al sole ceppi di case e castella; dalle alte ripe sassose ruzzolavano branchi di capre a dissetarsi nei tònfani; sulle vette dei pioppi inneggiavano i rosignuoli ai non contesi amori, alle gioie imminenti del nido.

Ma egli aveva già veduta quella valle; la conosceva bene da un pezzo. Laggiù, sulla sua destra, quel monte solitario, sparso di casolari a mezza costa, non era lo Sporno? Più in là, sulla sinistra, quell'altro monte, erto e lungo, non era il Caio, giustamente superbo del suo nome romano, vestito i fianchi di pini e di cerri, il dorso di faggi, o le alte insenature di corbezzoli e di peri selvatici? Più oltre ancora e più su, non erano quelle le creste dell'Appennino, dalla rupe dell'Orsaro all'alpe di Succiso? E lì, poco lontano da lui, quelle folte siepi di biancospino, ben ragguagliate dal falcetto, correnti in lunghe file accanto alla strada, non segnavano forse i confini del suo lembo di terra? E le indicava, tutto felice, alla sua dolce compagna. “E qui il mio Lesignano; il vostro Montechiarugolo è laggiù da sinistra. Volete che ci andiamo? Anch'io lo vedrò volentieri. Ma quanto cammino fin là, e in terra non nostra, pur troppo! Bisogna che l'intervallo si colmi, non vi pare? Bisogna che siano unite le nostre terre, come sono unite le nostre mani…„ – “Sì, sì,„ gli rispondeva la cara voce; e una cara mano tremava nella sua.

Bel sogno! bel sogno! Quanto era durato? Certo, a contenere le molte cose vedute, tutto il tempo ch'egli aveva passato dormendo. Si era destato, infatti, avendo ancora quella dolce visione negli occhi, e la sua destra ancor tiepida dal tocco della mano di Margherita. La giornata che doveva seguire, non sarebbe stata meno lieta per lui. Quella mattina andò al Danieli verso le undici, ora combinata per l'appunto colle signore Cantelli. Le trovò, che avevano finito di far colazione, essendosi volentieri adattate ad anticiparla un poco, per conceder più tempo alla gita che avevano disegnato di fare.

La signorina Margherita fu lesta a mettere il suo cappellino nero alla spagnuola, dal nastro cremisi, sul ricco volume della chioma corvina, e a gittarsi sulle spalle il corto mantello di velluto, nero anche quello e con la fodera dell'istesso colore del nastro. Nero e rosso le andavano d'incanto. La signora Eleonora fu più lenta ad aggiustare intorno alle staffe dei suoi capegli grigi il cappellino chiuso, guernito di viole mammole, e a tapparsi con molta cura nella sua pelliccia di martora. Uscite col signor Filippo dall'albergo, passarono il ponte dei Sospiri, svoltarono dal palazzo Ducale a San Marco, e di là, per l'arco dell'Orologio, entrarono in Mercerìa, non già per rimanervi, a goder lo spettacolo, sempre nuovo della turba affaccendata e chiacchierina. Quel giorno andavano assai più lontano, e senza avere da dondolarsi in Laguna. Che piacere! Margherita amava far diverso, se poteva, dalle altre viaggiatrici: quelle in gondoletta per ogni piccola corsa; lei volentieri a piedi per le corse più lunghe. Che peccato non aver sempre al fianco una guida come il conte Aldini gentilissimo! Per quella volta, a buon conto, non mancando la guida desiderata, non c'era da temere di smarrirsi in quel labirinto di calli, di campi e di campielli, di fondamenta, di ponticelli: senza darsi pensiero della via da tenere, Margherita avrebbe osservata e studiata frattanto, di quartiere in quartiere, quella calca di popolino così gaio, così originale nella sua vivacità, e sentita bene quella sua parlata tutta vezzi e moinerie, arguzie di pensiero e carezze di suoni.

Riusciti al ponte di Rialto, ed ivi passato il Canal Grande, scesero a San Giacomo, donde piegarono a sinistra per Campo San Polo. Laggiù era un altro viluppo di strade, con gran delizia della signorina Margherita, che rideva spesso e volentieri, quel giorno, dovendo fare, al cenno della sua guida severa, tanti giri e rigiri impreveduti, andare a sghembi come le saette, ficcarsi per cento viottole, varcare cento ponticelli minuscoli, e pensare frattanto, pensare con un vago terrore quante volte si sarebbero smarrite, lei e la mamma, se avessero dovuto fare quel curioso tragitto da sole.

– Ci siamo; – disse Filippo, come furono nella contrada di San Giovanni Decollato. – Ella sarà un po' stanca, signora?

– Ma no, ma no; – rispose la signora Eleonora. – Sento un po' meno il bisogno della pelliccia, ecco tutto.

– Voglia sopportarla due minuti ancora. L'aprirà quando saremo al Museo; – soggiunse Filippo.

Andavano infatti a visitare il museo Correr; museo municipale, così chiamato dal nome del suo fondatore, che alla città lo aveva generosamente lasciato, ma via via cresciuto ed arricchito dalle liberalità di altri nobili veneziani. C'era un po' di tutto, là dentro: tele, marmi, bronzi, maioliche e porcellane, vetri di Murano anteriori al Mille, musaici, smalti, nielli, gemme incise ed avorii intagliati, monili d'oro e d'argento; a farla breve, tanto da tesserci per via d'esempi la storia di tutte le arti e di tutte le industrie veneziane.

Margherita era nel suo elemento: curiosa indagatrice, pronta a ritenere le cose nuove e a paragonarle con altre già viste, aveva là dentro di che saziare l'avidità molteplice del suo intelletto, passando così facilmente da un genere all'altro. I marmi, a dir vero, la lasciarono un po' fredda, essendo piuttosto scarsi di numero e di pregio. Diede tuttavia un pensiero a Marco Vipsanio Agrippa, se proprio era lui quel colosso venuto al Correr dalle case dei Grimani, come ai Grimani dagli scavi a tergo del Panteon di Roma. Ammirò poi come saggio di precoce valentìa, due canestri di frutta, che Antonio Canova quattordicenne aveva scolpiti pel nobile Giovanni Falier. Tra i dipinti la colpì il ritratto di Cesare Borgia, opera di Leonardo da Vinci; una figura storica che farà sempre pensare, come e quanto farà sempre fremere. Ma più grande maraviglia le cagionò un gran disegno a matita nera, di Paolo Veronese, rappresentante il convito del Nazareno in casa di Simeone, con la Maddalena pentita ai piedi del Redentore, e Giuda che balza dalla seggiola in atto di rimproverare alla donna quell'eccesso di pietà, o quell'abuso di unguento. Era un bozzetto, e Margherita ricordò di aver contemplato il quadro a Parigi.

– Certo; – disse Filippo. – Paolo Veronese lo aveva dipinto qui, pel refettorio dei frati Serviti. Ma poi il Senato lo mandò in presente a Luigi XIV; perciò Ella ha veduto quel quadro nel Louvre.

– E qui, – ripigliò Margherita, – vediamo il capolavoro al suo nascere. In questo modo comprendiamo meglio il quadro. Tra l'idea e l'esecuzione c'è quasi sempre un grande intervallo, tutto seminato d'incertezze, di pentimenti, di aggiunte, di variazioni, per cui la composizione finale non corrisponde più all'idea primitiva. Qui invece è bello veder l'idea già matura, fin dal suo primo apparire; e ci guadagna il pittore, lasciandoci intendere la natura del suo genio. Non crede, signor conte, che fosse un genio, il Veronese?

– Lo credo; – rispose Filippo, mettendosi volentieri all'unisono con la bella ragionatrice; – se non per la idealità, certo per la varietà de' suoi tipi. È un pittore che ha composto mirabilmente le scene più vaste e più complesse, facendo correre molt'aria e molta luce intorno ad un gran numero di figure, tutte diversamente atteggiate, e senz'ombra di sforzo. Ricorda, signorina, le Nozze di Cana, che maraviglia? Quelle centinaia di personaggi d'ogni razza e d'ogni provenienza, si occupano ben poco del convitato principale e del miracolo ch'egli sarà costretto a fare per loro soddisfazione; ma che importa? La nota dominante è l'allegria della festa: l'allegria basterà dunque a collegare, a stringere in una tante espressioni svariate; e finalmente la vita umana non sarà stata mai rappresentata così vera, così evidente, nella pienezza delle sue forze, nella molteplicità delle sue espansioni. Il buon Paolo Caliari ha sentito il grande meglio d'ogni altro. Ma anche nel piccolo può rivelarsi l'ingegno. Veda i quadri del Longhi. —

La signorina Margherita fu ben contenta di vederli, e di esaminarli attentamente, provandone alla bella prima un gusto matto. Pietro Longhi, un pittore del Settecento, conosciuto quasi esclusivamente a Venezia, perchè ivi soltanto si poteva studiarlo, figurava egregiamente nel museo Correr con quattordici tele. Veneziano nell'anima, originale nella scelta dei soggetti, bizzarro nella composizione, arguto nei raccostamene impensati dei tipi, gentile nel tocco, meritava davvero di trattener l'attenzione. Come il famoso Canaletto per le sue architetture e per le vedute dei punti più pittoreschi di Venezia, il Longhi suo contemporaneo, in graziose scene di mascherate, di conversazioni signorili e di adunate popolari, aveva espressa la vita della sua città in tutti gli aspetti. I nobili del tempo si contendevano quelle sue tele, poche delle quali erano più alte d'un metro e più larghe di due, mentre il maggior numero andavano poco oltre la metà delle accennate misure, e talune scendevano anche al disotto. Ma in così piccolo spazio quanta evidenza di rappresentazione, quanta potenza di vita! E non senza una leggera intenzione di satira; quale almeno si poteva intendere ai giorni suoi, ch'erano pur quelli del Goldoni e del Parini, e quanta se ne poteva tollerare nella società un po' frolla del Settecento, ma fine, delicata, tutta garbo e misura.

Tra i quadri del Longhi attirava subito lo sguardo una viva rappresentazione del Ridotto, con quella sala piena di gente in maschera, tutta intenta ai suoi sollazzi, ai suoi piccoli intrighi e ripeschi. La galanteria dominava; ma la passione del giuoco non poteva mancare. E appunto da un lato si vedeva la tavola del faraone, il gran giuoco del secolo, che accomunava intorno ad un tappeto verde stimati patrizii e avventurieri d'ogni risma, provati gentiluomini e furfanti di tre cotte, bellamente aiutando a questa miscela l'uso della bautta e della maschera. La bautta, si sa, era un mantello con rocchetto e cappuccio, abbastanza somigliante al domino delle mascherate moderne. La maschera, poi, era di due forme; maschera propriamente detta, intiera, o tale in apparenza per la giunta del pizzo nero che scendeva a coprire la bocca ed il mento; mezza maschera senz'altro, detta anche morettina, e ordinariamente portata dal sesso gentile, che non voleva nascondere tutte in una volta le grazie allettatrici del viso.

Nella tela del Longhi, un nobile a faccia scoperta, seduto dietro la tavola, teneva il banco; davanti a lui un cavaliere mascherato puntava. Nel banchiere, ricorrendo col pensiero alle memorie del tempo, era lecito di raffigurare il conte Canani, famoso tenitore di giuochi, e nel puntatore un cavaliere d'industria non meno famoso di lui, e per troppe altre ragioni, mostro di mariolerìa, d'impudenza e d'ingegno. Ci pensò per l'appunto l'Aldini, mentre osservava con la signorina Cantelli il dipinto; ma tenne prudentemente il suo raffronto per sè, non parendogli che certi nomi dovessero suonare ai casti orecchi di lei.

Le fece piuttosto notare nel fondo del quadro, a sinistra, e dietro alla tavola da giuoco, una di quelle aperture luminose donde sapeva ricavare tanti effetti il Teniers, e là in quella apertura d'uscio la veduta di una bottega da caffè, con molte maschere affollate al banco del caffettiere.

Poi la condusse davanti ad un altro quadro, dove alla vita del ridotto succedeva la vita del monastero; allegrissima anche questa, nel parlatorio elegante, dove le monache e le educande, sporgendo coi visetti maliziosi dalla grata, ricevevano i complimenti d'una comitiva di cavalieri e di dame. Non era fitta, la grata; al bisogno poteva anche aprirsi, facendo di due stanze una sola. Intanto la conversazione appariva molto animata; e preludiava anche a un altro divertimento, poichè lì presso ei vedeva rizzato, e pronto a cominciar lo spettacolo, un casotto di burattini.

Altro quadro più in là, raffigurante una piazza; e sulla piazza un palco da ciarlatano, donde un vecchio Dulcamara esaltava la magica virtù di certe boccettine, che vendeva alle belle ragazze; l'elisir d'amore, senza dubbio, del quale pareva invogliata anche una gran dama, venuta in piazza con la morettina sul viso, facendosi sostenere lo strascico dall'immancabile cavalier servente in bautta. La bautta era in voga; non disdiceva neanche nei più alti luoghi, nei più solenni ricevimenti. Ne faceva testimonianza un terzo quadro, dov'era rappresentato un doge, niente di meno, il doge Pietro Grimani, seduto in trono e circondato da quattro consiglieri, in atto di ricevere un senatore, che gli presentava una dama e due gentiluomini, come lei mascherati. Benedetto doge Grimani, a cui le cure dello Stato, nobilmente sostenute dal 1741 al 1752, concedevano qualche onesto sollievo!

Il ponte del paradiso: racconto

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