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Capitolo IV.
La disputa filosofica

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Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L’abito talare scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero, riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che l’arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente al signor Camillo, il miscredente.

Infatti, quell’anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon era vissuto tutt’altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent’anni. Si diceva dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il Rousseau e gli altri Enciclopedisti; desolazione della abominazione. Quella, s’intende, era la chiacchiera d’altri tempi, dei tempi in cui si voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all’altro rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa epigrafe: «Deo erexit Voltaire»; un po’ orgogliosa, per dire la verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti, restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto praticando la religione dei padri; e l’essere andato don Martino, arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che si fosse riconciliato all’ultim’ora. Se ciò fosse avvenuto, l’arciprete non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque… la conseguenza era facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell’anima, fors’anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le apparenze, per chi voleva contentarsene.

Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo fratello maggiore; salvo, s’intende, lo studio sugli enciclopedisti. S’impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e così pensando, la presenza inaspettata dell’arciprete di San Giorgio al castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell’abito talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco, su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell’ingresso, accanto alla gradinata di marmo.

– Venite qua voi a consolarci; – disse il generale, com’ebbe veduto Maurizio. – Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l’odore di scarafaggio? —

Maurizio ebbe l’aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo interlocutore.

– Già, – ripigliò il generale, – voi venite sempre dalle scorciatoie; se foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l’uomo nero che ci ha regalato un’ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno. Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di lasciargli queste quattr’ossa?.. Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non è vero, Dutolet?

– Per quello che mi riguarda, – disse il capitano, senza neanche sorridere, – ci sarebbe troppo poco da rosicare.

– Non dimentichiamo i diritti dell’ospite; – notò il generale, osservando che Maurizio era rimasto silenzioso. – Nè di politica nè di religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la civiltà; e le sue leggi van rispettate. —

Maurizio vide allora la necessità di parlare.

– Se è per me, generale, non vi date pensiero; – rispose. – Non mi fanno paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti della misura, della buona volontà, del rispetto.

– Ah, mi levate un peso dal cuore! – gridò il generale. – In fede mia, non ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

– Scusate, generale, ma allora…

– Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera, quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

– Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato d’emicrania.

– È quello che dice mia moglie. V’intendereste benissimo con lei, almeno nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch’essa li può soffrire. Mio fratello l’ha educata bene, ed io non ho avuto da consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno educate alla colpa.

– Ma il perdono è di Cristo.

– Cristo fu un uomo. Come uomo, lo venero, ho un gran rispetto per lui; non senza riconoscere, per altro, che avrebbe fatto meglio ad essere più severo, insegnando per esempio a non fallire con tanta facilità. Ma che si fa la burletta? Col dirci che il giusto cade sette volte al giorno, non si dà la licenza a tutti di cascar quattordici, o ventotto? Per me, dicano quel che vogliono con la teorica del perdono; non conosco che il dovere, io, e so che il dovere è buono.

– Debbo io dirvi tutto quello che penso, generale?

– Ma sì, per bacco. Non lo dico io liberamente, approfittando della vostra licenza?

– Ebbene, – rispose Maurizio, – vi dirò che il dovere è buono, perchè scende diritto diritto dalla legge morale; e la legge morale è Dio.

– Ah, il gran cavallo di battaglia! Ma siete voi persuaso, caro amico, che Dio non sia una creazione dell’uomo?

– Anche la morale, allora.

– La morale, – sentenziò il castellano della Balma, – è l’utilità bene intesa, per cui solamente si conserva questa povera specie umana. Non fare ad altri quel che non vorresti che fosse fatto a te; fare ad altri quello che vorresti che fosse fatto a te.

– Già, per dare il buon esempio, – replicò Maurizio, sorridendo; – ma gli altri lo seguiranno? ecco il busilli.

– Seguano o non seguano, c’è tutta la morale umana in queste due massime. Conosco degli atei che vi conformano i loro atti assai meglio di tanti credenti.

– Pur troppo, generale, pur troppo. Ma permettete, non scendiamo alle applicazioni; stiamo nel campo dei principii. Fare o non fare, secondo quelle due massime, è facile, ed anche può essere piacevole all’uomo incivilito. Ma come potete voi credere che l’uomo primitivo, l’uomo della selva, facesse ad altri quello che avrebbe voluto che si facesse a sè? —

La domanda piaceva poco al generale; e dalla breve pausa che egli fece prima di rispondere, Maurizio potè credere che l’avversario si trovasse impacciato. Ma non era così; proprio allora il generale metteva in posizione le artiglierie.

– Io non vi parlo dell’uomo primitivo; – disse egli, non potendo trattenere un’alzata di spalle. – Che c’entra qui l’uomo della selva? Buon padrone di aver fatto come gli sarà piaciuto, o tornato più comodo. L’uomo primitivo, per vostra norma e regola, era un antropopitèco. Vi maravigliate di sentirmi parlare con tanta asseveranza di quel grazioso animale? Nel fatto, io non ne so nulla; vi parlo con la scienza alla mano. Ho letto Darwin, mio caro; ho letto Huxley, Buchner, Mortillet, Spencer, tutta la scuola dei liberatori. L’antropopitèco non si è ancora trovato negli strati del terreno terziario; ma si troverà, non dubitate. E una necessità in terra, come certi corpi in cielo, per l’equilibrio del sistema planetario. Nella scala progressiva degli esseri, l’antropopitèco ha il suo posto: animale d’istinti maravigliosi, già dotato di qualche intelligenza, come sono del resto tanti animali meno progrediti di lui, egli ha fatta la sua strada, e nessun calendario gli ha misurato il tempo necessario alla sua legittima evoluzione. Il bisogno lo ha fatto industrioso; l’industria lo ha fatto civile; la civiltà lo ha fatto morale. Vi capacita?

– Eh! – disse Maurizio, stringendosi nelle spalle, mentre in cuor suo si maravigliava forte di trovare sotto la spoglia di quell’uomo d’armi un lettore dei moderni evoluzionisti; – vuol esser dunque morale indipendente, la nostra?

– Non mi spaventano i nomi; – replicò il generale.

– Ebbene, – ripetè Maurizio, – non vi spaventino dunque le mie povere argomentazioni.

– No davvero, sentiamole. —

Qui fu una piccola interruzione nel dialogo. Dall’alto della gradinata, appariva la contessa Gisella, col suo cappellino di paglia in capo, l’ombrello da sole in mano e una borsa ad armacollo, che le dava un’aria graziosissima di pellegrina. La bella signora dagli occhi fosforescenti vide Maurizio, e scese lesta i gradini per venirlo a salutare.

– Vado per affari, – diss’ella, porgendogli la mano. – Spero di ritrovarvi ancora al ritorno.

– Oh, lo troverai; – gridò il generale. – Siamo affondati in una disputa che non finirà tanto presto.

– Di che si tratta? – chiese ella, nell’atto di aprire il suo ombrellino.

– Dell’antropopitèco; – rispose Maurizio, che in verità lo masticava male. – M’immagino che vi sarà noto, questo grazioso tipo di progenitore.

– Ah sì, – diss’ella, sorridendo, – l’unica cosa brutta nella teorica di mio marito.

– Ma necessaria; – soggiunse il generale; – necessaria come un anello nella catena. Se tu mi levi quell’anello, dov’è la continuità dell’evoluzione? dov’è la dottrina? —

Maurizio non aveva da rispondere ad una argomentazione che non pareva fatta per lui. Nondimeno, ne prese appiglio per rivolgere una frase alla contessa Gisella.

– Fortunatamente, – diss’egli, – nessuna dottrina mi farà credere che la contessa derivi da un antropopitèco. Passi per noi ominacci!

– Ed ecco, ora puoi andare, bambina; – ripigliò il generale, mezzo burbero e mezzo faceto. – Il vicino è cavaliere, e il tuo complimento l’hai avuto. Accettalo come premio anticipato all’opera buona che fai.

– Vado, vado; – rispose la bella signora, avviandosi. – E voi, conte, lasciatevi persuadere. La teorica della evoluzione richiede quell’anello. Ammasso quello, tutto il resto va da sè. —

Ciò detto, si mosse leggera, lasciando la luce del suo sguardo celestiale e la fragranza della sua maravigliosa persona nell’aria. Un istante dopo, era sparita alla svolta del sentiero campestre, per cui soleva venire ogni giorno il signor di Vaussana.

– Vedete quella donna, Maurizio; – disse il generale, continuando ad alta voce un discorso che era venuto facendo tra sè. – Ella è tutta bontà, tutta previdenza per la povera gente. Non c’è tugurio per queste montagne, dov’ella non porti una buona parola, e qualcosa di più, se bisogna. Ha sentito quest’oggi dal prete che è ammalata la moglie del pastore, lassù al Martinetto; e sùbito ha deciso di mettersi in campagna. Il prete non è andato; non andrà che chiamato, per portare tant’olio quanto ne sta sul polpastrello dell’indice, o del medio. Lei porta dell’altro; se le riesce, farà risparmiare al prete la sua trottata, alla chiesa la sua ditata d’olio. E notate, non crede alla morale dei vostri uomini neri. —

Quel «vostri» non era un po’ troppo? Maurizio si sentì toccato sul vivo.

– Che importa? – diss’egli, contenendosi ancora. – Crede alla santità del dovere, alla divinità della compassione, alla immortalità dell’anima umana.

– No, sapete, crede semplicemente alla bontà della vita; obbedisce ad una legge di natura, intendendola un po’ meglio di tanti e tanti. E notate ch’io non ho avuto da istruirla. Era così, quando divenne mia moglie. È una testa forte.

– Permettete ad una testa debole d’inchinarsi; – replicò Maurizio, facendo l’atto per l’appunto.

Ma il generale era avviato, e non voleva fermarsi così presto.

– Ecco, – diss’egli, – ora v’inalberate.

– No, generale.

– Allora, perchè vi tirate da banda, come se voleste uscire dal giuoco? Mi avevate pure promesso una argomentazione serrata!

– Vero, ma siamo stati fortunatamente interrotti; ed ora che ho perso il filo… Nondimeno, per non parervi battuto e contento, vi dirò brevemente ciò che penso. Voi considerate la morale come l’effetto di una convenzione. Ora la morale per convenzione, dato che possano giungere a stabilirne una dei figli o nipoti di antropopitèchi, sarebbe una morale senza ragione in sè stessa. Vedetene la conseguenza. Se io so che la legge morale non ha nessuna sanzione, che non c’è nessun premio a chi segue, nessun castigo a chi viola la legge, non me ne farò più nè di qua nè di là, baderò al mio interesse, e buona notte al prossimaccio mio.

– Signor Maurizio, i miei complimenti. Fate voi dunque il bene per un premio che ne sperate? vi astenete dal male per un castigo che ne temete?

– No, generale, per dovere; per un dovere che la mia coscienza intuisce. Del resto, ecco già un certo numero di volte che voi mi venite dicendo: il bene. Il vocabolo induce la cosa; la cosa induce l’idea. Perchè si dice il bene? che cosa s’intende di dire, dicendo: il bene? chi mi assicura, se non c’è sanzione alla legge del bene e del male, chi mi assicura che il bene non è il male, e il male non è il bene?

– Il bene è un concetto ereditario; – sentenziò il generale. – Si è visto e riconosciuto a poco a poco l’utile generale, e questo è stato chiamato il bene.

– Sia pure; ma quanto più leggero, sulla bilancia del nostro raziocinio, quanto più debole dell’utile particolare! Infatti, il bene degli altri, ne sia pure ereditario quanto si vuole il concetto, non è in molti casi il mio bene, è spesso il mio danno, il mio pericolo, il mio sacrifizio: e di questo sacrifizio, di questo pericolo, di questo danno io non vorrò a nessun patto saperne. —

Il generale stette un istante sopra pensiero.

– Sentite, – diss’egli poscia, – io non la intendo così: senza badare a questi danni, a questi pericoli, io ho sempre fatto il mio dovere.

– Lo credo, e lo so, – si affrettò a rispondere Maurizio. – Ma questo, con vostra buona pace, non lo avrete fatto per omaggio alla morale indipendente.

– E per che cosa, secondo voi?

– Per avanzo di vecchie idee, generale. Qui davvero il principio di eredità vi soccorre. Avete infatti la eredità di un complesso di conseguenze legittime che l’umanità ha tratte via via da parecchie religioni e da parecchi sistemi filosofici, di cui è vissuta, con cui e per cui è progredita. Ecco perchè uno spirito forte dei nostri giorni può andare avanti, più avanti di molti altri nel sentiero della filantropia, del disinteresse, del sacrificio di sè, immaginando di aver spogliata per sempre la morale della sua antica sanzione. Ma non si andrà molto lontano, io ve ne avverto, non si andrà molto lontano, con questo piccolo viatico. Anche le eredità più vistose si consumano. E la morale indipendente andrà fin che potrà senza Dio; poi, di attrito in attrito, vi sfumerà tra le mani. Temete, mio generale, temete che quando ne avranno assai meno le classi civili, non ne abbiano più affatto le rozze.

– Già, l’argomento politico! Ma non è filosofico.

– Lo so; m’è venuto alla mente, e l’ho aggiunto alla mia dimostrazione. Dopo tutto, la vostra doppia massima del non fare e del fare, è frutto della morale all’antica, non già della morale indipendente che oggi si predica. Tutte le religioni l’hanno per canone indiscusso.

– È di tutte, e perciò non appartiene in proprio a nessuna; – osservò il generale.

– Che importa? Le religioni son sante.

– Tutte? Da parte vostra è una dichiarazione ben grave, signor Maurizio. Per caso, le ammettereste voi tutte per buone?

– Storicamente, perchè no? Nella vicenda delle cose umane sono i varii modi di cercar Dio; e come io credo fermamente che il progresso umano sia a questa condizione di cercar Dio nella vita, così credo che Dio si sia in tutte riconosciuto. —

Il generale diede in uno scoppio così fragoroso di risa da far rizzare la testa al capitano Dutolet, che involontariamente cominciava ad appisolarsi sul canapeino di ferro.

– Che larghezza di comprensione! Lasciatevi ammirare, caro mio. Vi avverto per altro che l’arciprete di San Giorgio non vi assolverebbe.

– Lui no, forse; ma un altro, di qui a cent’anni, sicuramente.

– Possiate voi campar tanto! E credete poi che quell’arciprete del ventesimo secolo riconoscerà l’elemento del divino anche nella religione di Moloch?

– No, egli troverà che quella non era una religione, ma un pervertimento di religione. Le religioni, tra i popoli rozzi, girano facilmente alla superstizione, e la superstizione alla ferocia o alla stupidità sua compagna. Ma questi pervertimenti uccidono una religione nel tempo, come l’edera sgretola il muro a cui si abbarbica; Dio si allontana, e passa in un’altra.

– Chi può saper quando, e come? – esclamò il generale. – Io dico invece: fare il bene, qualunque cosa ne avvenga.

– È da stoici; – rispose Maurizio. – Ma presuppone almeno l’imperativo morale. Perchè faccio io il bene? Per appagare la mia coscienza. Perchè la mia coscienza sceglie la sua felicità nel bene? Per averne un piacere. Ma è un piacere ideale, se il più delle volte porta danno, sofferenza, pericolo, sacrificio e morte. È dunque un ideale. L’ideale suppone l’idea, l’idea suppone un mondo intellettuale che non è quello della cieca natura. Cercate, generale, indagate, troverete Dio necessario.

– Dove? non si è mai visto, ch’io sappia. Nel roveto, forse?

Tra cielo e terra: Romanzo

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