Читать книгу Raggio di Dio: Romanzo - Barrili Anton Giulio - Страница 4
Capitolo IV.
L’epistolario di Cicerone
Оглавление– Chi dorme si svegli; – gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi fogli, poichè aveva finito il capitolo.
– Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese; – disse frate Alessandro.
– Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una volontà in loro presenza; – aggiunse il cerimonioso don Garcìa.
– Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre; – disse a lui di rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa Juana.
– Avete tutti i voti, capitano; – conchiuse Giovanni Passano.
– Non tutti; – riprese il Fiesco. – Vedo che Ovando e Bovadilla sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che n’avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l’altro che un guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose: come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un’altra mandata per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13 agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant’uomo ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le false proteste d’amicizia dell’Ovando; mentre a costui doveva scusarsi Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell’essersi allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll’anima in soprassalto, per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare, vi ricordate? Cristoforo Colombo non l’ebbe mai peggio in sua vita. Ed anche si può dire che l’Atlantico serbasse i suoi furori solamente per lui, non lasciandogli, salvo nell’approdo a Guanahani, un giorno intiero di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand’uomo, epico e tragico ad un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull’orma, i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d’Ojeda, Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti di ciò, se pure non ho detto già troppo; – conchiuse il capitano Fiesco, prudentemente ammainando la vela. – Volevo dirvi che da San Domingo a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.
– Lo darete alle stampe, speriamo; – disse il Passano.
– Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi; – ribattè prontamente l’autore. – Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.
– Che c’è? – disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.
– Leggi; – rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.
Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:
– Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti. —
Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:
“A messer Bartholomeo Feisco nostro amato parente nec non viro excellentissimo
“Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.
“Genue. Die V Martii A. D. 1506.
“Vostro parente et bon servidore
“Gioan Aloyse.„
Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.
– Andrai? – diss’ella. – Gian Aloise ti prega.
– Andare è presto detto; – rispose Bartolomeo Fiesco. – Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì; – rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro; – io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l’ha ancora vissuta. È giusto che ognuno s’istruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:
Il porto è qui: speme e fortuna addio;
Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco. —
Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.
Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.
– Non vi piace la mia risoluzione? – diss’egli.
– Non dico questo, nè lo penso; – rispose la contessa. – Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.
– Oh, per questo, vedrai che lo potrò; – ribattè egli animandosi. – Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada? —
Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:
– Che c’è? – disse il Fiesco. – Hanno sentito qualche cosa d’insolito?
– Rumore nel cortile; – rispose Polidamante. – Sembra uno scalpitìo di cavalli.
– Visite a quest’ora? – ripigliò messer Bartolomeo. – Vedrete che sarà Filippino.
– Ma che! – disse allora Madonna Bianchinetta. – Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.
– E tre giorni sono qualche volta un secolo; – ribattè egli ostinato. – Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere. —
Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:
– Magnifico signore, è qui messer Filippino.
– Ah, Filippino!.. Ma se lo dicevo io!.. Questo qua veramente mi ha preso a proteggere. —
Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.
– Già… ecco… – balbettò egli allora. – Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà. —
Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.
Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non n’ebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.
– Siete dunque voi, Filippino? – gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz’aria per istendergli le mani. – A quest’ora ci capitate? Di passaggio, m’immagino, e vorrete pernottare da noi?
– No, non di passaggio, vengo appunto per voi; – rispose Filippino, arrossendo un poco. – Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l’occasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.
– Dell’eccelso Gian Aloise? – esclamò il capitano Fiesco. – La seconda in un giorno!
– Infatti, sì; – rispose Filippino. – Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito…
– Di montare a cavallo, non è vero? – interruppe messer Bartolomeo. – E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, s’imbandirà subito per Voi. Polidamante!..
– No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall’oste del Rupinaro. Piuttosto, – soggiunse Filippino con grazia, – l’ho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.
– Allora, faccia Polidamante l’ufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. All’ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle; – conchiuse saviamente messer Bartolomeo. – Ma intanto, – seguitò, volgendosi al Passano, – eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.
– Non l’ho saltato; – rispose il Passano. – Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.
– E perchè non ho detto quello, tu l’hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebb’essere la seconda ai Corinzii. —
Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d’oro, contro l’usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare d’inezie c’è il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d’occhiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d’accento. Ora in quest’arte Filippino era passato maestro.
Gli occhi di Fior d’oro, badando poco agli atti di Filippino, andavano spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone l’animo; cosa facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter le labbra, leggendo, tentennare il capo, e finalmente richiuder la lettera con un atto di grande impazienza.
– Ebbene, ve lo dicevo io, che non si può far sempre quel che si vuole? – gli bisbigliò ella, che già si era staccata dal fianco della suocera, per accostarsi a lui.
– Ma sì! Fior d’oro ha sempre ragione; – rispose egli avvilito. – Questo è più forte dell’altra. Leggila a nostra madre. —
Fior d’oro prese il foglio dalle mani di lui, e come aveva letto il primo sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, così lesse il secondo. Qui Giovanni Passano si mosse per andarsene. Messer Bartolomeo voleva trattenerlo, non vedendoci ragione; ma il suo luogotenente ottenne licenza con una argomentazione invincibile.
– Se quello che scrive Gian Aloise è tale da poterlo sapere ancor io, me lo potrete dire domani, prima ch’io parta; se non è tale, potrete tacerlo, ed io sarò felice di non averlo ascoltato. Voi anche mi avete insegnato a non esser curioso; e i fatti del prossimo sono spesso così poco interessanti! Aggiungete che in ogni cosa io sono vostro, ed altro non mi piace che di obbedirvi. Ora, se permettete, vo a prendere il fresco e a fare un po’ di chiacchiere con quei due, che sicuramente m’aspettano. —
Giovanni Passano aveva fatto un altro ragionamento tra sè, in forma di dilemma. Una delle due, diceva; o messer Filippino s’è fatto aggiungere un poscritto per averne occasione a capitare anche lui, e non bisogna essergli testimoni d’una puerile alzata d’ingegno; o Gian Aloise ha pensato di mandare per un secondo messaggero le cose più importanti o più gelose che non aveva confidate al primo, e non è bene che il primo resti a sentire ciò che porta il secondo. I grandi vanno serviti con discrezione, non mostrando troppa curiosità di capirli. Queste massime il Passano non le avrebbe pensate al Mondo nuovo; ma le doveva pensare e praticare nel vecchio, dove infine voleva far la sua strada, da onest’uomo, sì, ma senza dar nello sciocco.
La lettera di Gian Aloise diceva così:
“A messer Bartolomeo Flisco nostro caro cugino et strenuo cavalliere
“Il nostro Giovan Passano vi avrà data a quest’ora una lettera mia et significata la nicissità grande in che vivemo del vostro consiglio di valente huomo qual siete in così giovine età et forte non manco di braccio. Del quale come del consiglio poderia esser uopo, se Vi parerà esser da ciò, come noi Vi stimiamo. Sappiate ora che non solo è turbamento in città et gran confusione, per li popolari che sempre vorriano mettersi in loco di nobili, con dire che essi son nati in casa soa, di gente municipali romane et noi di fuori et stirpe di barbari: del che non so come possino haver certezza, non leggendosi in carta veruna se non questo, che i loro ascendenti furono gente della plebe arricchiti in vender grasce et navigar trafficando. Nè questo solo; ma ancora vorriano che s’aiutassi Pisa contro l’armi di Firenze, mettendo il Comune in tale impegno che non sia poi sicuro di sopportare. Etiam non possiamo noi dimenticare che per muover con oste a Pisa bisognerà passare per le terre del nostro capitanato; dove ogni grosso esercito che passasse facilmente sarìa tratto da desiderio a mutare quello che ivi è stato stabilito per l’onore de la nostra casata; et contrariamente un piccolo soccorso non bastando per salvezza di Pisa, trarrebbe le vendette di Fiorenza, non già contro il comune di Genoa lontano, ma contro li feudi nostri in val Magra, quali assai ne dee premere di tener fortemente. Ond’io meglio stimo che un potente signore abbia Pisa, il quale ne assicuri et conservi la libertà contra Firenze, potendo misurare gli aiuti al bisogno et non lasciarsi cogliere alla sprovveduta, come senza fallo userebbe il Comune nostro, sempre in tumulti et trambusti et confusione babelica. Il carico di tener Pisa par dunque a noi destinato dal cielo, non ad altro signore che già briga per ottenerlo, mettendosi in vista. Uomo nostro, intendente et valoroso per andar colà, sentir le opinioni et provvedere con pronte risolutioni io non vedo altri che Voi, nostro cugino amatissimo; che se gli animi dei Pisani, come io credo, fussino a noi inclinati, Voi subito di studioso ambasciatore e consigliero potresti mutarvi in capitano di armati, avendone noi già in Lunigiana ammassati quanti basteriano per il primo bisogno, e gli altri sarian pronti a seguire. Meglio di tutto ciò parleremo in Violato, ove è sempre gran desiderio de la vostra persona. Venite dunque; e se non basta a muovervi la nostra amicizia, Vi muova il consiglio di madonna Bianchinetta, orgoglio del nostro parentado, a la quale bacio divotamente le mani, come alla eccelsa sposa vostra incomparabil Fiordoro.
“Genoa, li V martio del 1506.
“Sempre al vostro servitio et bon cugino
“Gio: Aloixe.„
E indirizzo e firma apparivano un po’ diversi dall’una lettera all’altra. Ma così erano gli uomini di quel tempo, che all’ortografia badavano poco, anche per il fatto di non averla troppo sicura. Per altro, come si riconoscerà dal contesto di quest’ultimo messaggio, vedevano chiaro in quel che volevano, e non si lasciavano tirare nè di qua nè di là da pericolose incertezze.
Madonna Bianchinetta e la sua bellissima nuora erano rimaste sopra pensiero. Proponeva gran cose, l’eccelso Gian Aloise, e per accettare, come per ricusare il partito, bisognava meditarci su. Messer Filippino frattanto aggiungeva di suo, commentando l’epistola:
– Siamo in famiglia, e si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo, che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale della Meloria. Potrebbe Genova accettare l’invito, e noi di casa Fiesca goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte, preponderandovi con l’aiuto del re Cristianissimo, a cui siamo d’aiuto pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior sicurezza la Riviera di Levante, quanta n’è dall’Appennino al mare tra la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di Pisa. Ma c’è qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo. Quest’altro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar dell’impresa, ma di quell’uomo che in Genova è più potente e a Pisa più prossimo per l’ampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata. —
Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.
– È cortesia lo andare; – disse madonna Bianchinetta. – Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto. —
Si volse egli allora a sua moglie, e n’ebbe queste parole:
– Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tant’uomo, non andando alla chiamata.
– Ah! siate lodata, madonna Juana; – gridò Filippino giubilante. – Sarete voi la fortuna di casa Fiesca. —
Fior d’oro non potè trattenersi dal ridere.
– Vedete, – diss’ella, – da che distanze doveva ella venire!
– Eh! – rispose Filippino. – Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina; – soggiunse. – Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi! —
Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.
– Voi mi mettete d’un viaggio che io non farò certamente; – rispose Fior d’oro. – È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne l’assenza.
– E se durasse di più? – domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.
– Allora… allora, si vedrebbe; – rispose conchiudendo Fior d’oro.
Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:
– Filippino mi annoia.
– Annoia anche me; – rispose Fior d’oro. – Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.
– Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori d’Italia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.
– Vedi? – gli disse sorridendo Fior d’oro. – Bisogna andare, perchè non n’abbia a scrivere altrettante.
– Andare, – riprese Damiano, più Damiano che mai in quell’ora, – e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?
– Non è certo, – replicò la bellissima donna, – che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse l’utilità della casa e l’onor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato l’asprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza all’invito. —
Damiano guardò Fior d’oro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.
– Bella bocca! – le mormorò. – Bella bocca, che parla così bene!
– Bella! – ripetè ella con accento malizioso. – E non cara?
– E bella e cara, – gridò Damiano, con uno de’ suoi impeti di passione, – e, se vi piace di saper tutto, adorata. —