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I.
L'opera in Italia — Suo carattere popolaresco.

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Ogni paese ha la sua lingua musicale, le cui peculiarità di concezione e di costruzione si formarono a poco a poco e furon tramandate più o meno fedelmente dai musicisti. Così, più o meno interrottamente ebbe ed ha tuttora una lingua musicale originale la Francia, così l'ebbe l'Italia e l'ha tuttora sebbene un poco modificata da veri e propri barbarismi, di cui la sorgente è o la musica francese o, se non sempre direttamente, la musica tedesca e, meglio, la musica wagneriana. E per linguaggio musicale moderno dell'Italia intendo di necessità il linguaggio del melodramma, poichè da quando comparvero i grandi compositori di musica strumentale in Germania, questo genere di musica in Italia divenne fatica di retori plagiari e pesanti. Abbiamo infatti noi dei quartettisti da mettere a paro con Haydn Mozart Beethoven? Può un sol quartetto del nostro accademico Bazzini sostenere il confronto d'un qualunque quartetto dei classici tedeschi? E di tutti gli scrittori di musica per pianoforte e di musica sinfonica non teatrale, chi è riuscito ancora a dire agli Italiani una parola sua, a farci scordare l'instante tirannia di Beethoven di Schumann di Liszt di Wagner? Non è, anzi, senza una ragione profonda il contegno indifferentissimo del pubblico italiano verso i così detti scrittori di musica seria. Infatti il buon pubblico innocente e ignorante sente istintivamente che sotto quelle dotte polifonie ben imitate da chi ne seppe più ed ebbe cuore più nuovo e più sensibile, c'è un silenzio inutile, c'è il triste vuoto di colui che non ha forza fantastica tale da plasmare spontaneamente una nuova forma sinfonica veramente latina.

Mancando dunque i grandi lirici personali, le grandi individualità musicali che si esprimano ciascuna con un glorioso linguaggio che sembri assorbire e contenere tutto il vocabolario musicale d'un'epoca o di un popolo, in Italia risponde moltissimo al gusto popolare l'opera. E non l'opera quale Wagner aveva concepita: altissima tragedia musicale, profonda di poesia e di pensiero; ma il semplice melodramma popolaresco, in cui il libretto, generalmente, invece di essere un'intuizione poetica del mondo quale la Dannazione di Faust, o il Tristano e Isotta, non ha altro ufficio che prestare al compositore dei personaggi senza articolazioni, forniti di ottima gola per cantare. Sicchè, sieno pure tali personaggi vivi, indovinati, oppure astrazioni irreali, cadaveri ambulanti per sola virtù di retorica, ciò non importa. L'essenziale è di situarli e d'aggrupparli in modo che essi possano cantare molte melodie. Chè di queste sono gravidi i compositori italiani, e di queste ghiotti gli ascoltatori italiani.

Tuttavia anche la melodia italiana ha subito delle trasformazioni sebbene esteriori. Non più l'accurata lasciva cantilena della scuola napoletana; non più i gai gargarizzi dell'opera buffa, fra i quali talora zampillava qualche larga monodia d'una dolcezza impreveduta. Verdi l'agitatore di popolo, come Garibaldi fu creatore di eroi, sembrò avere scosso l'inerzia molle e l'allegra indifferenza in cui amava esser cullata e illusa l'animula italiana. O meglio, era il popolo italiano che, risuscitato dai soffi primaverili del risorgimento, esigeva un'arte melodica nuova: la melodia della passione sfrenata e cieca, della passione che ricordasse la ribellione, che sapesse un po' di polvere e di sangue. Verdi fu la voce del nuovo bisogno. I libretti si popolarono di situazioni drammatiche irte di spasimo e di ferocia. E alle tenui cantilene, agli affetti leziosi e di poco palpito, subentrarono modi di canto dalla tessitura più audace, dalla struttura ritmica più marcata e violenta, e forti effetti corali e strumentali, e finali «allegro furioso» atti ad ubbriacare i loggioni avidi di commozioni rapide e brutali.

Se non che anche l'arte Verdiana rimase nella sostanza simile a quella dei predecessori; arte, cioè, sempre primitiva nel contenuto sebbene spesso perfetta nella forma, profondamente sensuale, di tinte accecanti, di un sentimentalismo un po' barocco, ma spesso franco e sincero; arte che, prossima forse ora al suo tramonto, non è destinata del tutto all'oblio, ma è meritevole di esser frammentata da una critica spassionata e rigorosa in una specie di florilegio contenente le più belle ispirazioni dei nostri ottocentisti, delle quali dobbiamo, e a ragione, esser gelosi, se non altro per non interrompere le più pure tradizioni del nostro linguaggio musicale[1].

Ora, Pietro Mascagni appunto è un continuatore degli operisti popolari. Non ostante la preparazione più accurata, il possesso d'un'orchestra più ricca, più colorita e più flessibile, egli rimane un melodista fresco, facile, talvolta futile, ma quasi sempre trascinante per la esuberante ed ingenua passionalità. Egli, pur avendo una personalità diversissima da quella di Rossini e di Verdi e, come Rossini e Verdi, impersonando la nuova mediocrità mentale della terza Italia, non è che un continuatore in linea retta di Verdi e di Rossini; prezioso, ammirevole per questa sua bella italianità (che a dir vero non possiede molto Puccini forse meno ingenuo, ma d'una sentimentalità troppo infranciosata, sul tipo del buon Massenet); colpevole, come quelli, di essere così al disotto della vasta cultura e della profonda coscienza dello spirito umano che hanno avuto i grandi d'ogni tempo.

Pietro Mascagni, con nota delle opere e ritratto

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