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IL CANE DEL CIECO
RACCONTO
VI

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Una buona notte! Quale scherno!

La luna erasi nascosta di nuovo, e pareva definitivamente. In quella lotta fra la luce e le tenebre, queste sembravano aver vinto, e regnava sulla natura una fitta oscurità. Ma più oscuro ancora era l'animo d'Atanasio. Quali orrende idee gli passassero per la mente, quali spasimi gli torturassero il cuore, fu sempre un segreto fra lui e il Cielo. Non rientrò nella sua povera abitazione che il mattino: ma a chi lo vide, egli ebbe a parere invecchiato di anni.

Da quel giorno egli non fu più visto a ridere e nemmeno a sorridere. Tornò a frequentare l'osteria, ed anzi più assai di prima; il suo umore ridivenne peggiore che non fosse stato mai, rabbioso, maligno, scontroso, insofferente. Sfuggiva tutti: più di tutti gli altri Taddeo, Lucietta, e Pietro medesimo, quando le faccende dell'opificio non l'obbligassero a trovarsi con lui. Costoro, nel colmo della loro gioia, non s'accorsero pure menomamente della nuova selvatichezza d'Atanasio.

Nella fonderia, tra gli operai, nel villaggio e nelle vicinanze fra tutti gli abitanti non v'era più altro discorso che quello del prossimo matrimonio del giovane e ricco padrone delle officine colla povera figliuola del veterano. Tutti lodavano a cielo la generosità del giovane; le ragazze invidiavano un po' indispettite la fortuna della fanciulla. Quando udiva che s'incominciava a parlar di ciò, Atanasio tirava via senza dir nulla. Fu visto, il disgraziato, parecchie volte ubbriaco fradicio – la qual cosa prima non gli capitava mai – correre per la campagna gridando parole incomposte, urlando vaghe minaccie, per cadere poi come morto in un fosso. Aveva bandito da sè ogni nettezza, viveva disordinatamente come il più vizioso degli operai: ogni giorno più sembrava imbestialirsi.

Pietro, nell'eccesso della sua gioia, aveva ben altro a cui pensare, che i diportamenti del suo compagno d'infanzia; ma pure non potè a meno di accorgersi di tanta mutazione, e un giorno, avutolo a sè, glie ne fece amorevoli rimproveri; gli ricordò la sua buona condotta d'un tempo, gli rammentò come coll'economia, colla sobrietà, potesse procurarsi un migliore avvenire.

“Che la vuole?” rispose l'operaio con voce rauca, a testa bassa, senza guardare in faccia il suo principale. “La vita è una cosa tanto breve, e tanto da nulla; io sono così solo e così senza conforti di sorta! La parsimonia, la temperanza, l'economia, la virtù a che cosa mi meneranno? Io non sono fatto per essere stipite d'una famiglia… sono solo, vivrò sempre solo, creperò solo…”

“E perchè?” interruppe il sor Pietro con qualche vivacità. “Un onest'uomo ha il dovere, e ci trova la sua felicità, di mettere al mondo dei figliuoli che saranno galantuomini come lui.”

“E se invece diventassero birbanti?.. Lo so io stesso per sicuro d'essere un onest'uomo?”

“Atanasio!”

“Eh! mi scusi… Ciascuno ha le sue idee… Finchè non faccio male a nessuno mi lasci divertire a mio modo, finchè la duri.”

E s'allontanò senza più voler ascoltare parola.

Era stato quindici giorni senza metter piede alla casetta bianca. La vigilia proprio delle nozze si decise a recarvisi. Taddeo gli fece gentilmente rampogna della sua mancanza; Lucietta, fatta più bella che mai dalla sua felicità, gli venne incontro salutandolo colla medesima cordialità di prima.

“Caro Atanasio,” gli disse, “finalmente eccovi qui di nuovo. Non vi si vede più! E sì che avevo bisogno di dirvi tante cose, di ringraziarvi…”

“Ringraziarmi!” interruppe Atanasio stupito e corrugando le sopracciglia.

“Sicuro!.. Io so quanto siete buono, quanto amate il mio Pietro, di che modo avete preso parte alla nostra felicità.”

Atanasio arrossì fino sulla fronte; egli che, se fosse stato in poter suo, avrebbe fatto spalancare la terra sotto la casa dei Frangia perchè ve li inghiottisse tutti.

Lucietta continuava lietamente:

“Oh! Pietro mi ha detto tutto… Ma egli eziandio vi ama dimolto, e non so che cosa non farebbe per procurarvi del bene.”

“Oh sì,” mormorò l'operaio coi denti stretti. “Lo so!.. Me ne ha già fatto tanto!.. Me ne fa tanto sempre del bene!”

Nè Lucietta nè altri avvertirono la feroce ironia che si nascondeva sotto quelle parole.

“Ed ora,” riprese la fanciulla sorridendo e come per cambiar discorso, “voi siete giunto proprio a tempo, perchè ho da domandarvi un piacere.”

“Che cosa?” disse freddamente Atanasio.

“La nostra cagnetta partorì tre bestioline: due sono morte e l'ultima che ancor rimane, mio padre la vuol sacrificare anch'essa.”

“Uh!” saltò su il vecchio soldato. “Tre brutti mostri da fare schifo… Lei è già brutta da non potersi dir quanto, ma quei suoi piccini riuscirono d'una bruttezza che eccede ogni limite di discrezione. E Lucietta s'è cacciata in capo di conservare sì bella razza? Due per fortuna sono già iti, e il terzo sto per iscaraventarlo giù del burrone.”

“No, no, babbo, non farete ciò:” disse la figliuola con graziosa bizza capricciosetta. “E' son nati quel giorno appunto che tornai qui felice di tanto: vo' che quest'ultimo sopravissuto sia salvo; ed è a voi Atanasio che lo raccomando.”

“A me?”

La cagna, come se avesse capito che si parlava del suo neonato, e giudicato che questo era appunto il momento opportuno di mostrarsi, saltò fuori, accompagnata dal suo piccino veramente orribile.

“Eccola qui,” esclamò Lucietta; “ed ecco Azor. Gli ho posto nome Azor, a questo piccino, e mi farete piacere a conservarglielo.”

“Volete che lo prenda io?” domandò Atanasio di mala voglia.

“Non è vero che me lo farete questo piacere? ve lo terrete per mia memoria… Ecco.”

Il giovane sorrise amaramente. La cagna che eragli venuta fra le gambe lo salutava con amorevole agitar di coda, lo guardava con occhio che pareva supplichevole, ed avreste detto che gli si raccomandava anch'essa. L'operaio si curvò a terra e prese fra le mani il cagnolino.

“Per vostra memoria, Lucietta:” ripetè esaminandolo e con un accento fra di mestizia e d'ira repressa.

Taddeo si cacciò a ridere di buon cuore.

“Bella memoria! Non è vero che è una perfezione di bruttezza?”

La cagna si fregava contro le gambe di Atanasio, e il cagnolino, ch'egli teneva fra le braccia, gli leccava le mani.

“Ebbene sia,” egli disse: “io lo alleverò! Sarà la mia compagnia… – Mia unica compagnia! – soggiunse fra sè con amarezza.

Si portò via il canino. L'uomo ha tanto bisogno di mettere affezione in altrui, che Atanasio il quale, per le sue tristi condizioni, non poteva oramai amare nessun essere umano, prese a voler bene a quel mostricciuolo di cagnolino. E' non si sentiva più così solo sulla terra: aveva una occupazione diversa da quella del suo mestiere, e se ne compiaceva; era uno spasso, una diversione da' suoi usati pensieri che gli faceva del bene; se lo portava seco, quell'animale, perfino alla fonderia; usciva di molte volte, solamente per farlo passeggiare; lo accarezzava, quando nessuno lo poteva vedere, come altri fa d'un bambino.

– Ecco la mia sola famiglia, – dicevasi con pungente amarezza: – ecco il mio solo amore, ecco tutto il mondo per me… un cane! —

In Azor la bruttezza, che invece di scemare veniva aumentando ogni giorno, era compensata da molta intelligenza e superiore ancora l'affettuosità. Pose al suo padrone un amore che nulla più; e come s'ei ricordasse la protezione datagli da Lucietta, dopo Atanasio era colei che prediligeva, e ogni qual volta la vedesse, le andava incontro a farle un'infinità di feste.

Pietro e Lucietta, frattanto, vivevano felici. Si amavano proprio sul sodo, non solamente per trasporto giovanile, ed erano affatto degni l'uno dell'altra a vicenda. Atanasio li fuggiva con cura. Un anno dopo il cielo mandava alla giovane coppia un bel bambino. Tutte le felicità!

L'operaio era diventato sempre più misantropo; fuori dell'officina, non lo si vedeva più in nessun luogo mai, fuor che all'osteria: colà beveva da solo, non permetteva che nessuno sedesse alla sua tavola, respingeva bruscamente ogni tentativo di accostarlo, e quando cominciava a sentirsi ubbriaco, balbettava parole inintelligibili e partiva barcollando, accompagnato dal suo indivisibile cane, per andarsi a nascondere, non si sapeva dove.

Un giorno, Lucietta e Pietro, ai quali molto rincresceva il degradamento di questo valente giovane, ebbero la infelice ispirazione di volerlo ritornare quel di prima. Cercavano di lui, lo chiamavano sovente in casa loro; e Lucietta principalmente, colta ogni occasione per averlo a sè da sola, si pose a trattarlo con assai amorevolezza, nell'intento di fargli scorgere il torto della sua vita presente e destargli la voglia di ammendarsi.

Atanasio da prima si schivò, parve anzi fuggire con più cura tutti, e la moglie specialmente del suo giovane principale; poi si lasciò cogliere alla dolcezza di quei momenti in cui si trovava solo con lei e n'era trattato con tanta amorevolezza; finì per accarezzare le più pazze illusioni, che sapeva essere illusioni, ma nelle quali cercava e trovava una morbosa soddisfazione. Pareva rinata fra Lucietta e lui la famigliarità d'un tempo, quando Atanasio, lassù alla bianca casetta, andava ad attinger acqua per lei, col secchiello ch'ella faceva le mostre di contrastargli.

Le rimostranze e i consigli di Lucietta parevano aver ottenuto un felice successo. Atanasio tornava ad essere più pulito, meno misantropo, non allegro, ma meno scontroso, non mite, ma meno permaloso ed irascibile: lavorava con più ardore ancora, teneva condotta più regolata. Solamente, il vizio onde non si era guarito era quello del bere. Però se ne nascondeva accuratamente. Non si frammischiava più alla frotta dei beoni; penetrava di soppiatto nell'osteria a notte inoltrata, quando ogni altro n'era già partito, si faceva recare in una stanza un numero di bottiglie, e là, rinserratosi col suo Azor, beveva, beveva, finchè ne smarriva completamente la ragione; allora parlava, e diceva a sè stesso, al cane, alle pareti, alle bottiglie, le mille cose, che non avevano senso, che parevano il delirio d'un pazzo, cose tali che se egli avesse mai sospettato che un altr'uomo le avesse udite, lo avrebbe strozzato colle sue mani. Al mattino si riscuoteva dal pesante letargo, in cui aveva finito per cadere; si versava in capo tutta una brocca d'acqua gelata, pagava l'oste e correva all'officina dove lavorava più indefesso che mai. Ci volevano i muscoli di ferro e i nervi d'acciaio che gli aveva dato madre natura per resistere ad una tal vita.

E ad Azor Atanasio voleva sempre più bene. Spesse volte quando era solo nella sua camera, lungi da ogni occhio ed orecchio umano, egli se lo prendeva fra le braccia, quel brutto aborto di cagnuolo, e lo stringeva, e lo accarezzava, e lo baciava!.. dicendogli coll'accento, con cui altri parlerebbe ad un amante:

– Caro il mio Azor, voglimi bene almeno tu. Io, a te, ti voglio tanto bene!.. È lei che ti ha dato a me; e lei… sappilo, ricordatene, ma non dirlo a nessuno veh!.. lei, io l'amo sempre, e sempre più… e furiosamente! —

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