Читать книгу La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea - Bertrando Spaventa - Страница 3

PREFAZIONE ALLA PRESENTE EDIZIONE

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Questo libro, che ora si ristampa con note e un'aggiunta di lettere dell'autore e di suo fratello Silvio, utili a illustrarne l'origine e gl'intenti, vide la luce in Napoli nel 1862 col titolo di «Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre — 23 dicembre 1861»[1]. Titolo troppo generico, almeno oggi, e però mutato nella presente edizione in quello suggerito dallo stesso soggetto del libro: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea. Nel '62, infatti, a Napoli, contro i filosofanti giobertiani e nazionalisti, avversarii dell'insegnamento hegeliano inaugurato quell'anno nell'Università, il titolo scelto dallo Spaventa aveva un evidente significato, che s'è andato poi via via oscurando sempre più, mentre quell'Università è diventata quel che è diventata; al punto che esso ora potrebbe forse suonare rimprovero o ironia.

Pure, la situazione spirituale della cultura italiana, nella quale il libro sorse, non si può dire sostanzialmente diversa dalla presente. E però il libro, rispondendo al desiderio di molti, dopo circa mezzo secolo ritorna alla luce. I giobertiani sono tutti spariti; e non c'è più nessuno forse che abbia la fisima della filosofia nazionale. Ma tutti intanto tornano a guardare, — come mezzo secolo fa a Napoli, — con animo tra curioso e ansioso, ad Hegel; e molti, sgomenti delle difficoltà con cui questi si presenta sempre alle menti più solide e più vigorose, invocano uno Spaventa che mostri la via di pervenire all'intelligenza della parte vitale di quella dottrina, e di sperimentarne e gustarne la verità. Al luogo dei giobertiani ci saranno i positivisti, i prammatisti, i neo-spiritualisti e altri e altri sbandati della filosofia, dai quali questa deve ogni giorno difendersi, con la storia alla mano, dimostrando i proprii diritti acquisiti. In vece dei nazionalisti ci sono altri avversarii, che, come quelli pretendevano la marca nazionale, non s'acconciano a prendere sul serio e mettersi a studiare una filosofia se non ci vedono la marca scientifica: rappresentanti questi come quelli della pigrizia e dell'inerzia intellettuale e morale, di cui non v'ha ostacolo più grave a chi voglia rianimare con le intuizioni profonde e sincere della vita gli studi e lo spirito d'una nazione. E così, mutatis mutandis, la questione che importa, oggi come nello scorcio del 1861 quando lo Spaventa si riprometteva, iniziando il suo insegnamento a Napoli, di promuovere di là un profondo risveglio speculativo nel nostro paese, è la stessa: giustificare il punto di vista della filosofia come sapere assoluto. Oggi muterebbe il linguaggio dello Spaventa; ma egli potrebbe tornare a scrivere lo stesso libro, solo inserendovi in mezzo qualche capitolo relativo alle tendenze filosofiche apparse in Italia più tardi, e da lui criticate in altri scritti posteriori.

Giacchè il problema dottrinale preso a trattare in questo libro assume una forma storica, che può parere a molti il lato più importante di esso, poichè ne riesce disegnata in iscorcio una storia — l'unica storia che finora si abbia — della filosofia italiana ne' suoi momenti principali. E realmente l'interesse storico non è qui in seconda linea. Per lo Spaventa, infatti, tutta la storia della filosofia italiana, — da lui già abbozzata un anno innanzi in una prolusione letta a Bologna[2] — si raccoglie appunto nelle dieci lezioni d'Introduzione da lui fatte nel primo mese del suo insegnamento napoletano, condensandovi tutti i suoi studi precedenti su Bruno, Campanella, Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti. La Prolusione precedente è un'introduzione a questa storia. Lo Schizzo d'una storia della logica (da lui denominato nella prima edizione semplicemente: Appendice alla Introduzione) serve di schiarimento ai succosi cenni intorno alla filosofia tedesca più recente, che gli erano occorsi nella storia di quella italiana, rappresentata, com'era giusto, nel suo nesso storico con tutta la filosofia europea.

Se non che l'interesse storico, come lo sentiva lo Spaventa, non era diverso dallo stretto interesse scientifico. Il libro pare una polemica, ed è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè vera e propria filosofia. La polemica c'è; ma si riduce al colorito letterario del libro, per intendere il quale bisogna riferirsi alle condizioni della cultura italiana, e specialmente napoletana, dopo il rinnovamento di quella Università operato in quell'anno dal De Sanctis[3]. Ma, guardando alla sostanza delle cose esposte, è facile accorgersi, che quando l'autore cerca nel Risorgimento i primi germi della filosofia moderna, e ne studia i primi lineamenti nel soggettivismo di Campanella e nel naturalismo di Bruno, vedendo anticipati quasi, in Italia, Cartesio e Locke da una parte, e Spinoza dall'altra; e quando scruta in Vico gli oscuri accenni a una filosofia dello spirito, non semplicemente critica, come sarà in Kant, ma metafisica, quale sarà in Hegel, e così vede pronunziato in Italia tutto quasi il nuovo mondo del pensiero moderno, che, formatosi a sistema in Germania, è poi il mondo dei nostri Galluppi, Rosmini, Gioberti; è facile accorgersi che l'autore non pensa più che tanto ai piccoli avversarii tumultuanti nell'aula affollata delle sue lezioni, ma ha innanzi la storia del pensiero moderno europeo, che indaga con tutta serietà di spirito per ricostruirne, a sè prima che ad altri, il procedimento vero e necessario.

Il libro era sorto nella mente dell'autore prima ancora della speranza d'una cattedra lì a Napoli, dove nel 1847 gli era stato chiuso dal Governo uno studio privato; era sorto in un periodo di fervore spirituale in cui egli sentì il bisogno di fare i conti con la filosofia italiana recente, già per molti anni spregiata[4]. In una lettera del 13 maggio 1857, sollevando il fratello dalla noia mortale dell'ergastolo, dove Silvio divideva da otto anni col Settembrini la fiera compagnia degli assassini, gli annunziava[5]: «Mi apparecchio a scrivere qualche cosa di meglio, o di peggio, delle cose scritte sinora». Voleva scrivere un lavoro sulla Fenomenologia di Hegel, che leggeva e rileggeva, vedendoci sempre più addentro. «Una critica della filosofia italiana moderna non mi pare che possa essere veramente utile senza la soluzione, e se non nella soluzione, del problema della fenomenologia. Ciò che ti negano sempre, è il sapere assoluto. Bisogna dunque elevarsi a questo sapere, e mostrare, nel tempo stesso, che i principii delle loro filosofie sono inferiori — e perciò gradi che debbono essere negati — a quello della filosofia hegeliana... Chi sa se potrò riuscire, almeno in parte!». E il 13 luglio dello stesso anno tornava a scrivergli, chiarendo meglio il concetto del suo nuovo lavoro: «Ti ho detto... che lavoravo intorno alla Fenomenologia, e che il difficile non era solamente il comprendere il concetto e il metodo di essa, ma anche il trovare una radice nella nostra filosofia, un punto d'appoggio per tutta la critica. Ora ho tra le mani questi filosofi, compreso il Galluppi, e credo d'aver trovato questo punto... Cos'è la coscienza in generale, che è l'oggetto della Fenomenologia? In Rosmini, Galluppi, ecc. dove posso trovare la coscienza sensibile, che è il punto da cui comincia la Fenomenologia? L'ammettono essi, come l'ammetteva Hegel? Se l'ammettono, a me non fa nulla che da questo punto vadano a risultati diversi; la battaglia e la critica sarà appunto intorno a ciò che bisogna farne di questo punto comune per la soluzione del problema, che più o meno è lo stesso per tutti: la verità del sapere». E si mostrava assai soddisfatto della scoperta fatta dell'identità della certezza sensibile hegeliana (unità di universale e di particolare: ist da) con la sensazione del Galluppi e con la percezione intellettiva del Rosmini. In una lettera successiva, dell'11 ottobre 1857, aggiungeva che la critica, che aveva in animo di scrivere dei filosofi italiani, doveva essere «un saggio da mettere nella introduzione» del suo lavoro sulla Fenomenologia: per «far vedere i vizii delle teoriche sulla conoscenza dei nostri filosofi; come non bastino a se stesse e vogliano un altro modo di soluzione ecc.; quindi la necessità... della fenomenologia».

Ma via via che ristudiava questi filosofi, trovava sempre altro. E il 25 gennaio del '58 tornava a scrivere: «Continuo a lavorare sui filosofi nostri, e vedo o credo di vedere tante cose che sarebbe lungo dirti». Finì per addentrarsi in una lunga critica del Gioberti. A un tratto aprì una parentesi «sul problema della cognizione, e in generale dello spirito, senza distinguere l'umano e il divino. Come è possibile lo spirito? Rispondono: è possibile perchè così l'ha fatto Dio. Come vedi, non è una risposta. Io domando da capo: come è possibile lo spirito (cioè Dio)? Questo è il problema nuovo della filosofia: il problema della filosofia tedesca. E mi pare che sinora la migliore soluzione è l'hegeliana... Non so se quello che ho scritto va bene interamente; in certi punti mi sono incontrato con Hegel; in certi altri non so bene ancora se sì o no» (lettera 8 marzo 1858). — Chiusa questa parentesi, che non fu mai pubblicata, ma di cui è facile rintracciare le idee nel presente volume, di nuovo a Gioberti. Ma le Postume di questo filosofo, da poco venute in luce (1856-57), e allora lette dallo Spaventa, giovarono a mutare la sua disposizione spirituale verso questo filosofo e il movimento speculativo, di cui esso era quasi la conclusione; e mutò quindi il suo apprezzamento e il suo concetto di questo movimento. L'8 febbraio 1858, rileggendo il vecchio Gioberti, diceva al fratello: «È inutile che ti ripeta che non mi piace affatto, anzi mi dispiace sempre più. Di filosofico non c'è nulla, meno un contenuto farraginoso, che al far de' conti si trova poi in ogni sistema, anche nella stessa rappresentazione religiosa. E infatti il suo sistema non è che una continua rappresentazione: è una filosofia rappresentativa». Il 2 settembre dello stesso anno, invece: «Mi sono un po' riconciliato con quest'uomo. Negli ultimi suoi scritti (postumi) si spoglia di molte imperfezioni, che trovavo nella prima forma del suo sistema; ed è curioso vedere questo sviluppo come una specie di critica che il suo pensiero fa di se stesso». E, a rifletterci bene, riconosceva che «già qualche germe del nuovo ci è nella prima forma, ma inviluppato e nascosto». Pure, nè anche la nuova forma del sistema del Gioberti poteva bastare. In lui manca sempre la scienza, ossia il vero e proprio sistema. Procede per aforismi. «Ma se ne può cavare gran bene, perchè il contenuto è profondamente speculativo. Bisogna esprimere il suo pensiero nella sua vera forma e mostrare che certe determinazioni estrinseche, che egli stesso ha abbandonato poi necessariamente in gran parte, sono in contradizione cogli stessi suoi principii speculativi».

Questa rivelazione delle Postume giobertiane venne così a modificare il disegno del lavoro, che il nostro filosofo aveva in mente. Lo studio di questo nuovo Gioberti assumeva tale proporzione e importanza, che quella critica dei filosofi italiani la quale doveva essere solo una parte polemica dell'introduzione al suo lavoro, potè diventare atta per se stessa a servire di propedeutica alla scienza, e di propedeutica appropriata all'Italia, quale avrebbe dovuto essere il lavoro sulla Fenomenologia, che non fu più scritto. Poichè la nuova forma del sistema di Gioberti offriva il modo di dimostrare la necessità di tutto il processo fenomenologico, che conduce la coscienza al grado della scienza assoluta, ossia al punto di vista hegeliano, — che era il fine propostosi dallo Spaventa. E raccostati i nuovi studi sulla filosofia italiana del sec. XIX a quelli, che negli anni 1854 e 55 aveva pubblicati intorno al Bruno e al Campanella, egli potè scorgere quasi intera l'immagine del nostro pensiero intrecciato col moto generale della speculazione europea: donde quella formola della circolazione del pensiero italiano, che designa uno dei resultati maggiori e delle più incontestabili benemerenze degli studi di lui. Il quale pervenne, adunque, a questo concetto della filosofia italiana con indagini del tutto spregiudicate e scevre d'ogni preoccupazione polemica.

Tuttavia, tra le prime mosse del pensiero nel Risorgimento e l'ultima sua tappa nel sec. XIX, restava nella solitudine del decimosettimo e decimottavo secolo, — che allo Spaventa apparivano quasi il periodo dell'esilio del pensiero dal nostro paese, — restava, torreggiante, misteriosa, la Scienza Nuova. Ma, quando per la prolusione di Bologna, egli volle rappresentare in un quadro completo il carattere e lo sviluppo della filosofia italiana dal Risorgimento in poi, e ristudiò con nuova intensità d'attenzione il suo Vico già lungamente meditato, questi gli parve irraggiare una gran luce in quel momento critico del pensiero europeo, in cui il vecchio dommatismo (l'antica metafisica dell'essere) privo com'era del concetto di sviluppo, fatte le ultime prove con la monadologia, stava per dissolversi esausto nello scetticismo di Hume, per cedere quindi il campo a quel criticismo, che doveva iniziare una metafisica, non più dell'essere che è immediatamente se stesso (natura), ma dello spirito che si fa gradualmente da sè e per se stesso. Fu allora che il Vico gli apparve il precursore di questo nuovo mondo col suo concetto dello spirito come sviluppo, insieme con quello dell'unità della Provvidenza divina e dell'umana, oscura affermazione dell'esigenza moderna d'una metafisica, per cui la natura, opera di Dio, non fosse altro dalla storia, opera della mente, e unico fosse perciò lo sviluppo, e la natura grado dello spirito. — La storia della filosofia italiana fu così per lo Spaventa conchiusa: ed era una storia che confortava, con la forza d'un procedimento razionale, ineluttabile, ad abbracciare il risultato principale della filosofia tedesca moderna, come l'effetto di un'opera a cui tutte le nazioni europee avevano collaborato.

Ma era questa una semplice conclusione storica? Posto che l'interpretazione che lo Spaventa faceva dei nostri filosofi fosse esatta, ne seguiva per ciò che l'ultima loro conclusione fosse vera? Può insomma la storia essere addotta ad argomento di verità d'una filosofia? O voleva la ricostruzione dello Spaventa riuscire una revisione di titoli per stabilire l'esatto albero genealogico della filosofia italiana? — Certo, la storia, come semplice fatto, non prova nulla. Ma è mai la storia un puro e semplice fatto? Ecco una vecchia questione, la quale è però tutt'altro che chiusa, e può, male intesa e mal risoluta, impedire l'esatta intelligenza dell'indole e del valore di questo libro. Intanto giova ricordare che lo Spaventa si trovava innanzi la Fenomenologia hegeliana, che è anche una storia della filosofia, anzi, nel suo complesso, una filosofia della storia, o dimostrazione della razionalità dell'intero processo storico dello spirito umano (Weltgeist): onde tutti i sistemi, come tutti i momenti della civiltà, son presentati quasi gradi necessarii, attraverso i quali lo spirito è passato (o meglio passa eternamente) per conquistare la piena coscienza della propria assoluta attività creativa. Ma, poichè non c'è storia della filosofia che possa assumere la forma d'un registro delle opinioni succedutesi nelle teste dei pensatori (anche nei cataloghi dei vecchi dossografi c'era un disegno e una critica); la stessa legge intrinseca della storia della filosofia doveva condurre lo Spaventa a concepire la sua costruzione storica come una dimostrazione scientifica di quello che gli pareva il principio definitivo raggiunto dalla storia. La legge è che la filosofia e la storia della filosofia sono, astrazion fatta dalle accidentalità letterarie e dal peculiare interesse degli autori, la stessa cosa; così come il razionale è lo stesso reale, e viceversa. Attraverso la storia, e attraverso il divenire (la guisa del nascimento) non possiamo non veder sorgere ed affermarsi la natura dello stesso reale. E per quanta poca fede si abbia nella razionalità della storia, non si può a meno di rappresentarcela, questa storia, secondo quel tanto di razionalità che siamo disposti ad attribuirle, cioè appunto secondo la razionalità della nostra filosofia. Lo scettico, si sa, è dommatico a suo modo; e se fa la storia, ci mette dentro quel suo duro arido dommatismo, che è scetticismo, nè più nè meno del dommatico. In breve, a questa legge, poichè è una legge, nessuno può sottrarsi: e l'eccellenza dello storico, il suo vigore speculativo, la sua mente animatrice e ricostruttiva si scorgono dal grado in cui egli riesce a realizzare tal legge. Orbene: in questo libro dello Spaventa, se si cancellassero i nomi de' varii filosofi menzionati, e si considerassero le rispettive posizioni progressive come ipotetiche, si avrebbe, anche nella forma, un'opera filosofica libera d'ogni carattere storico. Soltanto del Bruno la commozione suscitata nell'animo dello scrittore dal destino dell'eroe del pensiero, dell'araldo e martire della nuova e libera filosofia, move la sua penna a sbozzarne con pochi tratti da maestro il carattere morale. Pure anche quello, più che il ritratto di una persona realmente vissuta, lo diresti l'ipotiposi dell'ideale del filosofo vagheggiato da Bertrando Spaventa nella ricchezza della sua vita morale.

Si dirà perciò che questa storia, — succinta, quasi scheletrica, perchè rimasta nella forma primitiva di appunti per le lezioni; ma sicura, felice e definitiva nel disegno e nelle singole caratteristiche, — non sia propriamente una storia, anzi una costruzione ideale? — Qualche volta infatti questa storia è stata giudicata così: ma è un giudizio che si può ritenere a priori per falso, poichè muove, in fondo, dal disconoscimento della suddetta legge della storia della filosofia. Pure contiene anch'esso una parte di verità, di cui bisogna rendersi conto. Ed è questa: che di storie della filosofia ce ne ha, almeno, due: una che pare abbia ad oggetto, come questa dello Spaventa, soltanto le idee dei filosofi, anzi dello spirito filosofico, unico attraverso il tempo e lo spazio; l'altra che pare abbia ad oggetto anche i filosofi diversi con le loro rispettive biografie connesse con le cangianti condizioni della civiltà, in mezzo a cui essi si formarono. Ma ho detto «pare»; perchè nel primo caso le idee dei filosofi si sa bene che sono i filosofi, la cui vera individualità storica consiste appunto nel pensiero che son riusciti a pensare; e se la loro individualità già è connessa con tutta la civiltà concomitante, le loro idee sono in sostanza considerate quasi tutta la realtà storica dell'epoca relativa, assommata e come fusa nel loro pensiero. Nel secondo caso poi le condizioni sociali e biografiche entrano nella considerazione dello storico in quanto presupposti della disposizione spirituale, in cui a volta a volta il problema filosofico sorge: e però non mirano a chiarire nient'altro che la successione, lo scoppiar dei problemi l'un dall'altro, e cioè la pura storia delle idee.

In altri termini, una storia delle idee comprende implicitamente una storia della civiltà in tutte le sue determinazioni, e si regge sul valore di questa storia che essa presuppone. Ora la storia dello Spaventa è mera storia d'idee, in cui non apparisce quasi mai quell'altra. Non già che egli avesse a sdegno l'altra; ma il suo interesse lo traeva alla prima; e, obbedendo al proprio interesse, egli esercitava un diritto proprio d'ogni storico, e inalienabile. La limitazione della sua ricerca diventerebbe illegittima se desse origine a una falsificazione delle dottrine, intese in corrispondenza a bisogni spirituali anacronistici o comunque inesistenti. Ma, se lo Spaventa non ebbe mai occasione o voglia di scrivere una storia circostanziata della filosofia, fu sempre guidato da una cognizione profonda delle condizioni spirituali de' varii periodi e da un acuto senso storico. Basti ricordare la sua critica del lavoro del D'Ancona sul Campanella.

In un solo punto forse, passando dalla esposizione della logica delle idee, quale si venne realizzando nella storia, alla considerazione delle attinenze che le sorti di questa logica ebbero con lo stato generale degli spiriti in Italia, non s'appone, secondo me, alla verità: dove ritiene che la ragione del «vuoto» rimasto nella filosofia italiana tra Campanella e Vico, e poi tra Vico e Galluppi, — vuoto da riempire con la storia della filosofia europea[6], — sia da cercare nella mancanza di libertà degl'italiani, oppressi dalla chiesa cattolica che avevano in casa. «Non ci hanno lasciato fare», egli dice. Ragione inesatta o, almeno, insufficiente; perchè la condanna di Galileo non impedì che questi si lasciasse dietro anche in Italia, nella scienza naturale, una scuola fiorente lungo il sec. XVII e il seguente. E la paura della chiesa, di cui si hanno indubbie prove, non impedì d'altra parte a Descartes di iniziare quell'intrepido naturalismo, che doveva produrre Spinoza; nè le preoccupazioni religiose, sincere e profonde, valsero ad arrestare il divino intelletto di Vico sulla via di quella ispirata speculazione, che con la quasi incoscienza e sicurezza dello spirito fanciullesco uccise — per dirla con lo Spaventa — in un sol colpo, il Dio del vecchio teismo, e il naturalismo, il materialismo e l'ateismo. E Rosmini, filosofo della restaurazione, che finisce nel kantismo, e nella Teosofia s'accosta all'Hegel abborrito? E Gioberti, il neoguelfo Gioberti, che comincia assoggettando la filosofia alla religione, e finisce anche lui nell'assoluto razionalismo? — La verità è che il movimento internazionale della cultura nei secoli XVII e XVIII deviò la maggior parte degli ingegni italiani dai problemi filosofici. Furono le scienze naturali, furono le matematiche, furono gli studi storici, che attrassero le maggiori intelligenze. Per la filosofia della cultura generale e dei professori e dei piccoli scrittori bastavano, ed eran d'avanzo, le celebrate novità oltremontane o le onorate tradizioni scolastiche non mai interrotte nelle nostre università lungo tutti interi quei secoli.

Questo però è un punto appena accennato nel nostro libro, che s'attiene d'ordinario al solo filo logico delle idee svolgentesi da un capo all'altro della storia della filosofia europea, pur mirando sempre in modo speciale all'Italia. E riesce, in conclusione, una storia della filosofia moderna e insieme una dimostrazione del principio della filosofia dello Spaventa, ossia della soluzione data da Hegel al problema fondamentale della sua logica: e in questo senso, un'introduzione allo studio della filosofia hegeliana.

Con quale spirito e con quale intendimento questa introduzione fosse scritta, non si potrebbe dir meglio dello stesso autore in una delle ultime pagine del libro[7] che giova anticipare qui come suggello a quanto s'è detto dell'indole del libro, e insieme ritratto vivo dell'atteggiamento del nostro filosofo rispetto a Hegel: «Prima di Hegel nessun filosofo ha spiegato il conoscere, e così risoluto il problema della logica (il sistema delle categorie).

«Con ciò non voglio dire, che la logica di Hegel sia la logica perfetta, assoluta; che la sua filosofia sia l'ultima parola dello spirito speculativo; che dopo Hegel noi non dobbiamo far altro che ripetere o commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formole sacramentali.

«Può darsi, che ci sia chi pensi così. Per me, se ci è cosa che io abborro — mi pare di averlo detto già tante volte — è appunto la riproduzione meccanica delle altrui dottrine. Nei filosofi, ne' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita. Ripetere macchinalmente i filosofi, è soffocare questo germe, impedire che si sviluppi e diventi un nuovo e più perfetto sistema. Se Platone non avesse fatto altro che ripetere Socrate, non avremmo avuto il mondo delle idee. Se Aristotele avesse ripetuto Platone, non avremmo avuto il primo concetto della sostanza, della individualità. Se Spinoza non avesse fatto altro che ripetere Cartesio, non avremmo avuto il primo concetto di Dio come semplice causalità, come identità che è causa. Se Fichte avesse ripetuto Kant, non avremmo avuto il concetto dell'autocoscienza, della mentalità. Se Schelling avesse ripetuto Fichte, non avremmo avuto il concetto della identità [di essere e di pensiero], come mentalità, come ragione.

«Quel che io voglio dire, è questo: posto Fichte, — cioè che il conoscere sia impossibile senza l'autocoscienza; e posto Schelling, — cioè che il conoscere non sia reale senza la identità come autocoscienza o mentalità, — l'unica via di risolvere il problema del conoscere, il problema della logica, sia quello di provare la identità.

«Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo: provare la identità».

Giovanni Gentile.

La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea

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