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CAPITOLO QUATTRO

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Mackenzie sedeva sul sedile del passeggero con molti documenti sparsi in grembo e Porter dietro al volante che batteva le dita al ritmo di una canzone dei Rolling Stones. Quando guidava, teneva sempre la radio sintonizzata su un canale di rock classico, e Mackenzie alzò lo sguardo, seccata che la sua concentrazione fosse stata interrotta. Guardò le luci della macchina sfrecciare lungo l’autostrada a centotrenta chilometri orari, quindi si voltò verso di lui.

“Potresti abbassarla?” sbottò.

Di solito non le dava fastidio, ma stava cercando di entrare nel giusto stato mentale per comprendere il modus operandi del killer.

Scuotendo la testa e sospirando, Porter abbassò il volume della radio. Le lanciò uno sguardo sprezzante.

“Cos’è che speri di trovare?” le chiese.

“Non sto cercando di trovare niente” disse Mackenzie. “Sto cercando di mettere insieme i pezzi per capire meglio la personalità dell’assassino. Se riusciamo a pensare come lui, avremo molte più possibilità di scovarlo.”

“Oppure” disse Porter, “potresti semplicemente aspettare che arriviamo a Omaha e parliamo con i figli e la sorella della vittima, come ci ha detto Nelson.”

Anche senza guardarlo, Mackenzie sapeva che stava trattenendo a stento qualche commento cretino. Immaginò di dovergli dare un po’ di credito. Quando erano solo loro due in viaggio o sulla scena di un crimine, Porter limitava al minimo sia le battute che il suo atteggiamento umiliante.

Per il momento ignorò Porter e guardò gli appunti che aveva in grembo. Stava confrontando gli appunti sul caso del 1987 con quelli sull’omicidio di Hailey Lizbrook. Più leggeva, più si convinceva che fossero stati portati a termine dalla stessa mano. Tuttavia, quello che continuava a farla sentire frustrata era che non ci fosse un movente chiaro.

Lesse e rilesse i documenti, sfogliando le pagine ed esaminando le informazioni. Iniziò a sussurrare tra sé, facendo domande ed esponendo i fatti ad alta voce. Era qualcosa che faceva fin dai tempi della scuola superiore, una mania che non aveva più abbandonato.

“Nessuna prova di violenza sessuale in nessuno dei due casi” bisbigliò. “Nessun legame ovvio tra le vittime, a parte la professione. Nessuna prova concreta che ci sia un movente religioso. Se c’entrasse la religione, perché si sarebbe limitato ad un palo, invece di usare un vero e proprio crocifisso? I numeri erano presenti in entrambi i casi, però il significato delle cifre in relazione alle uccisioni non è chiaro.”

“Non offenderti” disse Porter, “ma preferirei davvero ascoltare gli Stones.”

Mackenzie smise di parlare tra sé e notò che la luce di notifica sul suo cellulare lampeggiava. Dopo che lei e Porter erano partiti, aveva chiesto a Nancy tramite email di fare delle rapide ricerche tra i casi di omicidio degli ultimi trent’anni usando i termini palo, spogliarellista, prostituta, cameriera, granoturco, frustate, e la sequenza di numeri N511/G202. Quando guardò il cellulare, Mackenzie vide che Nancy, come sempre, aveva agito in fretta.

L’email che Nancy le aveva inviato diceva: Purtroppo non c’è molto, però ti ho allegato i rapporti sui casi che ho trovato. Buona fortuna!

Gli allegati erano solo cinque, e Mackenzie fu piuttosto rapida a esaminarli. Tre di essi non avevano chiaramente nulla a che fare con l’omicidio Lizbrook, né con il caso dell’87. Gli altri due, invece, erano abbastanza interessanti da essere almeno presi in considerazione.

Uno era un caso del 1994, in cui una donna era stata trovata morta dietro un fienile abbandonato in una zona rurale a circa centotrenta chilometri da Omaha. Era stata legata a un palo di legno e si ritiene che il corpo sia rimasto lì per sei giorni prima di essere rinvenuto. Il corpo era rigido e degli animali selvatici – probabilmente delle linci rosse – avevano iniziato a mangiarle le gambe. La donna aveva parecchi precedenti penali, compresi due arresti per adescamento. Anche in quel caso, non c’erano evidenti segni di violenza sessuale e, nonostante sulla schiena ci fossero delle frustate, non erano affatto estese come quelle trovate sul corpo di Hailey Lizbrook. Il rapporto sull’omicidio però non accennava a numeri trovati sul palo.

Il secondo file che forse era collegato riguardava una ragazza diciannovenne, dichiarata rapita dopo che non era tornata a casa per le vacanze natalizie del suo primo anno all’Università del Nebraska, nel 2009. Quando il corpo fu rinvenuto in un campo abbandonato tre mesi dopo, in parte sotterrato, c’erano delle frustate sulla schiena. In seguito giunsero alla stampa immagini che ritraevano la giovane nuda nel mezzo di uno squallido festino sessuale in una casa della confraternita. Le foto erano state scattate una settimana prima della denuncia di scomparsa.

Quell’ultimo caso era un po’ una forzatura, ma Mackenzie pensò che entrambi potessero potenzialmente essere collegati all’omicidio dell’87 e a Hailey Lizbrook.

“Che hai lì?” chiese Porter.

“Nancy mi ha inviato i rapporti di altri casi che potrebbero essere collegati.”

“Trovato qualcosa?”

Esitò, poi però lo aggiornò sui due potenziali collegamenti. Quando ebbe finito, Porter annuì mentre guardava fuori nella notte. Superarono un segnale che annunciava che mancavano trentacinque chilometri a Omaha.

“Io penso che a volte ti sforzi troppo” commentò Porter. “Ti fai il culo, e questo l’hanno notato in molti. Però siamo onesti: per quanto ti impegni, non tutti i casi hanno collegamenti lampanti che ti porteranno a un unico colossale caso.”

“Allora, sentiamo” ribatté Mackenzie. “In questo preciso istante, cosa ti dice il tuo istinto su questo caso? Con che cosa abbiamo a che fare?”

“È solo un criminale qualsiasi con un complesso materno” disse Porter con noncuranza. “Basterà parlare con le persone giuste e lo troveremo. Tutta questa analisi è uno spreco di tempo. Non trovi le persone entrando nella loro testa. Le trovi facendo domande, con i pattugliamenti, andando di porta in porta e di testimone in testimone.”

Mentre tra loro calava il silenzio, Mackenzie iniziò a preoccuparsi per quanto fosse semplicistica la visione del mondo di Porter. Per lui era tutto o bianco o nero, non lasciava spazio alle sfumature, a niente al di fuori di convinzioni prestabilite. Lei riteneva che lo psicopatico con cui avevano a che fare fosse ben più complesso di così.

“E qual è la tua opinione sul nostro killer?” chiese infine lui.

Si avvertiva risentimento nella sua voce, come se in realtà non avrebbe voluto domandarglielo, ma il silenzio aveva avuto la meglio su di lui.

“Io credo che odi le donne per quello che rappresentano” rispose lei a bassa voce, elaborando l’idea nella mente mentre parlava. “Potrebbe essere un cinquantacinquenne ancora vergine che pensa che il sesso sia sporco – eppure in lui c’è anche il bisogno del sesso. Uccidere le donne lo fa sentire come se stesse sconfiggendo i suoi stessi istinti, che vede come sporchi e inumani. Se riesce ad eliminare la fonte di quegli istinti sessuali, sente di avere il controllo. Le frustate sulla schiena indicano che le sta quasi punendo, probabilmente perché sono provocanti. E poi c’è il fatto che non ci sono segni di violenza sessuale. Mi domando se questo sia una specie di tentativo di restare puro agli occhi del killer.”

Porter scosse la testa, quasi come un genitore deluso.

“È proprio come dicevo io” disse. “Una perdita di tempo. Ti sei spinta così in là da non essere nemmeno più sicura di quello che pensi – e questo non ci aiuterà. Non riesci a vedere le cose per quello che sono.”

Furono di nuovo avvolti da un imbarazzato silenzio. Porter, che sembrava aver finito di parlare, alzò il volume della radio.

Durò solo pochi minuti, però. Avvicinandosi a Omaha, Porter abbassò di nuovo il volume, stavolta senza che gli venisse chiesto. Quando iniziò a parlare pareva nervoso, ma Mackenzie intuì che si sforzava comunque di sembrare quello che aveva il comando.

“Hai mai interrogato dei bambini dopo che hanno perso un genitore?” domandò Porter.

“Una volta” disse lei. “In seguito a una sparatoria. Era un bambino di undici anni.”

“Anche a me è capitato un paio di volte. Non è divertente.”

“No, non lo è” concordò Mackenzie.

“Ok, senti, stiamo per fare a due ragazzi delle domande sulla morte della loro madre. Il fatto che lavorasse come spogliarellista è destinato a saltar fuori. Dobbiamo andarci piano.”

Mackenzie ribolliva di rabbia. Porter si rivolgeva a lei come se fosse una bambina.

“Lascia fare a me. Tu potrai offrire una spalla su cui piangere, se ne avranno voglia. Nelson ha detto che ci sarà anche la sorella, ma dubito che possa essere di conforto. Probabilmente è distrutta quanto i ragazzini.”

Mackenzie in realtà non credeva fosse una buona idea, però sapeva anche che quando c’erano di mezzo Porter e Nelson, doveva scegliere con cura le sue battaglie. Perciò, se Porter ci teneva a interrogare due ragazzini in lutto sulla morte della madre, lei gli avrebbe lasciato soddisfare il proprio ego.

“Come vuoi” disse a denti stretti.

L’auto ritornò silenziosa. Stavolta, Porter lasciò la radio abbassata e gli unici suoni erano quelli delle pagine che Mackenzie stava sfogliando. C’era una storia più grande tra quelle pagine e nei documenti che Nancy le aveva inviato; Mackenzie ne era sicura.

Ovviamente, perché si potesse raccontare questa storia, tutti i personaggi dovevano essere svelati. E per ora, il personaggio centrale era ancora nascosto nell’ombra.

La macchina rallentò e Mackenzie sollevò la testa mentre svoltavano in un isolato tranquillo. Avvertì una familiare stretta allo stomaco, e desiderò di trovarsi ovunque tranne lì.

Stavano per parlare con i figli di una donna che era appena morta.

Prima Che Uccida

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