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CAPITOLO OTTO

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Keri aveva nello stomaco un vortice di ansia mentre sedeva nella sala d’attesa dello studio legale di Jackson Cave. L’aveva già fatta aspettare venti minuti, abbastanza per lei da chiedersi ripetutamente se avesse preso una decisione buona.

Stava tornando da San Pedro, calcolando quando le ci sarebbe voluto per arrivare alla casa galleggiante per indossare un abito da sera e poi andare a Beverly Hills per la raccolta fondi dell’associazione Solo Sorrisi. Ma mentre puntava a nord, aveva visto in lontananza i grattacieli del centro di Los Angeles ed era stata colta da un’urgente necessità. Si era ritrovata a guidare verso l’ufficio di Cave, senza un piano su cui fare affidamento.

Per strada aveva chiamato Brody in modo che potessero aggiornarsi. Dopo avergli detto del vicolo cieco che si era rivelato essere Coy Brenner, lui le aveva detto di San Diego.

“L’alibi di Jeremy Burlingame è verificato. È stato in sala operatoria tutto il giorno di ieri. Apparentemente stava supervisionando alcuni dottori di laggiù, gli stava insegnando una nuova procedura per la ricostruzione facciale.”

“Okay, senti, il traffico è davvero uno schifo, qui,” disse Keri. In parte era vero, ma era anche una scusa per fermarsi da Cave. “Perciò se arrivi al galà prima di me, limitati a perlustrare il posto, per favore. Non metterti a parlare con la gente.”

“Mi stai dicendo come fare il mio lavoro, Locke?”

“No, Brody. Sto solo suggerendo che muoversi lì dentro come un elefante in una cristalleria potrebbe essere controproducente. Alcune di quelle donne di mondo probabilmente si apriranno di più con un’altra ragazza vestita bene che con un tizio che la più relazione più duratura l’ha avuta con la sua automobile.”

“Fanculo, Locke. Parlerò con chi mi pare,” disse Brody sdegnato. Ma lei nella voce riuscì a sentirgli nella voce che aveva dei dubbi su quanto buona fosse l’idea.

“Fa’ come ti pare,” rispose Keri. “Ci vediamo lì.”

Ora, una buona mezz’ora dopo, non era ancora riuscita a vedere Cave. Erano quasi le diciassette e trenta. Decise di approfittare della quiete per dare un’occhiata in giro. Andò alla reception.

“Sa quanto ci vorrà ancora al signor Cave?” chiese alla segretaria, che scosse la testa per scusarsi. “Allora mi può dire dov’è il bagno, per favore?”

“In fondo al corridoio a sinistra.”

Keri puntò in quella direzione, con gli occhi attenti verso qualsiasi dettaglio che potesse darle un qualche vantaggio. Proprio davanti al bagno delle donne c’era una porta con su scritto Uscita. La aprì e vide che si apriva sullo stesso corridoio che aveva percorso per raggiungere l’ingresso dello studio.

Dopo essersi guardata in giro per verificare che nel corridoio non ci fosse nessuno, prese un fazzoletto dalla borsa e lo inserì nel buco del chiavistello in modo che non si chiudesse automaticamente. Poi entrò un attimo nel bagno per salvare le apparenze.

Quando tornò nell’atrio, una donna attraente con un impeccabile abito d’affari la stava aspettando per accompagnarla nell’ufficio di Jackson Cave. Mentre seguiva la donna, cercò di evitare che il cuore le saltasse fuori dal petto. Stava per incontrare l’uomo che forse possedeva la chiave per ottenere delle informazioni cruciali sul luogo in cui si trovava Evie, e non aveva un piano di azione.

L’unica altra volta in cui aveva incontrato Jackson Cave era stata alla stazione di polizia di una cittadina di montagna. Ci era venuto per salvare il suo cliente, Payton Penn, il fratello del senatore della California Stafford Penn. In sostanza aveva scoperto che Penn aveva assunto Alan Pachanga per rapire sua nipote, Ashley. Le cose le erano andate bene in quella cittadina di montagna, ma adesso si trovava in territorio nemico, e la cosa si percepiva chiaramente.

Jackson Cave era conosciuto praticamente in tutta la città per la sua reputazione come rappresentante delle maggiori aziende. Ma per le forze dell’ordine il suo lavoro pro-bono come difensore di stupratori, pedofili e rapitori di bambini era una chiara indicazione d’infamia.

Keri era stata immediatamente sospettosa di un uomo del genere. Una cosa era difendere un presunto assassino in un caso da braccio della morte o un disperato che aveva rapinato una banca per mantenere la famiglia. Ma rappresentare esclusivamente e con entusiasmo i peggiori perpetratori di violenze sessuali che la città aveva da offrire, gratis, le sembrava una scelta strana.

Tuttavia Keri sperava di sfruttare il lavoro di Cave a suo vantaggio. Sapeva che da qualche parte quell’uomo doveva avere un codice che avrebbe potuto fornire l’accesso al computer di Pachanga. Se fosse riuscita a trovarlo, sarebbe potuta giungere a informazioni su un’intera rete di rapitori professionisti. Il laptop avrebbe potuto includere anche qualcosa sull’uomo che aveva preso Evie, un uomo che lei credeva si facesse chiamare il “Collezionista”.

Tutto di quel luogo era progettato per intimidire. Lo studio stesso occupava tutto il settantesimo piano della US Bank Tower. Ovunque c’erano finestre che andavano dal pavimento al soffitto, che davano sulla vastità di Los Angeles. Costose opere d’arte coprivano le pareti. Tutto il mobilio era in pelle e mogano.

Finalmente raggiunsero un anonimo ufficio che si trovava alla fine del corridoio e la donna la condusse all’interno. Era vuoto. Keri fu accompagnata a una lussuosa sedia di fronte alla scrivania di Cave, che era immacolata.

Lasciata sola, si guardò intorno, cercando di carpire qualcosa dell’uomo dalle cose di cui si circondava. Non c’erano foto personali sulla scrivania né sulla credenza. Sul muro c’erano alcune foto di Cave con pezzi grossi vari, come il sindaco, molti consiglieri e alcune celebrità. Erano esposte anche la laurea del college (University of Southern California) e quella della scuola di legge (Harvard). Ma nulla dava un’idea dell’uomo né delle sue passioni.

Prima che potesse studiare meglio la stanza, Jackson Cave entrò. Keri si alzò in piedi subito. Lui era esattamente come se lo ricordava dal loro ultimo incontro. I capelli nero carbone erano pettinati indietro come quelli di Gordon Gekko in Wall Street. I denti dal bianco accecante riempivano una bocca ritorta in un sorriso finto e plastico. La pelle abbronzata brillava sotto il vestito Michael Kors blu scuro. E i penetranti occhi blu luccicavano di una fierezza che le ricordava un’aquila che cacciava una preda.

E poi, in un lampo, Keri seppe cosa avrebbe fatto. Jackson Cave, con le sue foto personali insieme a persone potenti e con il suo aspetto e stile immacolati, era un uomo a cui interessava come veniva percepito. Si guadagnava da vivere avendo la meglio sulle persone – i politici, le giurie, i media. E Keri sapeva che voleva avere la meglio anche su di lei. Era la sua natura.

Devo indebolire il suo scopo. Devo attaccarlo subito e velocemente, sovvertire le sue aspettative, sbilanciarlo. L’unico modo in cui riuscirò ad aprire una breccia nella sua corazza per fargli commettere un errore è colpendolo rapidamente in più punti. Forse così dirà per sbaglio qualcosa che potrebbe portarmi a craccare il codice.

Se riusciva a farlo arrabbiare, o anche solo a infastidirlo, magari avrebbe commesso un errore e avrebbe rivelato inavvertitamente qualcosa di importante. Considerando che lei già lo disprezzava, non doveva sforzarsi tanto per trovare argomenti con cui attaccarlo. Doveva solo esagerare e cercare delle crepe nella sua facciata perfetta. Non sapeva esattamente quali potessero essere queste crepe, ma se stava attenta era sicura che avrebbe trovato qualcosa.

“Detective Keri Locke,” disse mentre la superava per accomodarsi alla scrivania, “che sorpresa inaspettata. È stato appena poche settimane fa che ci siamo ritrovati a chiacchierare nella fresca aria di montagna. E adesso ha acconsentito a venire a farmi visita qui nella giungla d’asfalto. A cosa devo l’onore?”

Tracce di Omicidio

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