Читать книгу Una Ragione per Morire - Блейк Пирс - Страница 7
CAPITOLO UNO
ОглавлениеDue mesi prima…
Mentre Avery Black apriva una delle tante scatole sparse nella sua nuova casa, si chiese perché avesse aspettato così tanto per trasferirsi fuori città. Non le mancava neanche un po’ e stava persino iniziando a pentirsi di tutto il tempo che vi aveva perso.
Sbirciò dentro la scatola, sperando di trovare il suo iPod. Non aveva scritto niente sui cartoni quando aveva lasciato il suo appartamento a Boston. Aveva gettato tutto quello che possedeva dentro una serie di scatoloni e aveva traslocato nel giro di una giornata. Era stato tre settimane prima e doveva ancora finire di aprirli tutti. In effetti, anche le sue lenzuola erano aggrovigliate da qualche parte lì in mezzo, ma tanto di quei tempi preferiva dormire sul divano.
La scatola appena aperta non conteneva il suo iPod, ma c’era qualche bottiglia di liquore di cui si era quasi dimenticata. Prese un bicchiere dalla confezione, lo riempì con una sana dose di bourbon e uscì sul portico d’ingresso. Strizzò gli occhi davanti alla brillante luce del mattino e bevve una sorsata di bourbon. Dopo essersi goduta il suo gusto bruciante, ne prese un’altra. Poi diede un’occhiata all’orologio e vide che erano a malapena le dieci del mattino.
Scrollò le spalle e si lasciò cadere sulla vecchia sedia a dondolo che era stata sulla veranda quando aveva comprato quel posto. Si guardò intorno nel suo nuovo vicinato e si sentì rassicurata, certa che avrebbe potuto vivere lì con serenità per il resto della sua vita.
La casa non era esattamente una cabina ma aveva comunque un’atmosfera rustica. Era un posto semplice, a un solo piano e con un interno moderno. In termini di indirizzo, era vicina a Walden Pond ma abbastanza lontana dai sentieri più battuti da potersi considerare “nel bel mezzo del nulla”. La casa più vicina era a mezzo miglio di distanza e tutto ciò che poteva vedere dal suo ingresso e dalla finestra in fondo alla cucina erano alberi.
Non si sentivano clacson. Non c’erano pedoni frettolosi che fissavano con astio i loro cellulari. Niente traffico. Non aleggiava la puzza costante di gasolio e gas di scarico né si udiva il rombo dei motori.
Buttò giù un’altra sorsata del suo bourbon mattutino e tese l’orecchio. Niente. Assolutamente niente. Beh, non era proprio vero. C’erano due uccellini che cinguettavano e si sentiva lo scricchiolio del legno mentre la fredda brezza autunnale attraversava gli alberi.
Aveva fatto del suo meglio per cercare di convincere Rose ad andare là con lei. Sua figlia aveva passato un brutto periodo e Dio solo sapeva che rimanere in città non l’avrebbe aiutata a guarire. Ma la ragazza si era rifiutata. Si era rifiutata con veemenza. Dopo che la situazione si era acquietata, in seguito all’ultimo caso, sua figlia aveva sentito la necessità di dare a qualcuno la colpa per la morte del padre. E come al solito, quel qualcuno era stata Avery.
Per quanto la ferisse, Avery la capiva. Lei avrebbe fatto lo stesso se i ruoli fossero stati invertiti. Durante il suo trasloco nei boschi, Rose l’aveva accusata di scappare via dai suoi problemi. E lei non aveva problemi ad ammettere che era vero. Era andata lì per fuggire dai ricordi del suo ultimo caso… e degli ultimi mesi della sua vita, se doveva essere completamente sincera.
Erano state così vicine a recuperare la relazione che avevano avuto un tempo. Ma quando il padre di Rose era morto, così come Ramirez, l’uomo che aveva iniziato ad accettare come nuovo interesse amoroso della madre, era tutto finito. Rose incolpava Avery per la morte del padre, e anche Avery stava iniziando a fare lo stesso.
La donna chiuse gli occhi e finì il suo bicchiere di bourbon. Ascoltò i rumori quieti della foresta e lasciò che il calore del liquore la confortasse. Aveva già lasciato che lo stesso calore la rinfrancasse nel corso delle ultime tre settimane, ubriacandosi di tanto in tanto, e una volta era persino rimasta svenuta per diverse ore. Poi aveva passato la notte china sul water a piangere Ramirez e il futuro che era arrivata così vicina ad avere.
Riguardandosi indietro, Avery era imbarazzata. Le era venuta voglia di rinunciare del tutto all’alcool. Non era mai stata una gran bevitrice ma quelle settimane erano stati i liquori e il vino ad aiutarla ad andare avanti.
Andare avanti, ma verso cosa? si chiese alzandosi dalla sedia a dondolo e tornando dentro.
Adocchiò il bourbon, tentata di continuare a bere e di distruggersi prima di mezzogiorno solo per superare un’altra giornata. Ma sapeva che sarebbe stato un gesto da codardi. Doveva farcela da sola, e a mente lucida. Quindi ripose la bottiglia insieme agli altri liquori in un armadietto nella cucina. Poi tornò alla sua pila di scatole, di nuovo alla ricerca dell’iPod.
In cima alla prima c’era un mucchio di album fotografici. Dato che sulla veranda aveva ripensato a Rose, li prese subito. Ce n’erano tre in tutto, uno dei quali era pieno delle sue foto dei tempi del college. Lo accantonò per aprire il secondo.
Rose era lì a fissarla. Aveva dodici anni, ed era su uno slittino con una cuffietta coperta di neve. Sotto quell’immagine, Rose continuava ad avere dodici anni. Nella seconda stava dipingendo quello che sembrava un campo di girasoli su un cavalletto nella sua vecchia camera da letto. Avery sfogliò tutte le foto fino ad arrivare a metà dell’album, quando ne trovò una che era stata scattata solo tre Natali prima. Rose e Jack, il padre di sua figlia, stava ballando con aria buffa davanti a un albero di Natale. Entrambi erano sorridenti al punto dell’euforia. Sulla testa di Jack un cappello da Babbo Natale pendeva sbilenco e sullo sfondo brillavano gli addobbi.
Era una pugnalata al cuore, perforante, dolorosa e bruciante. Il desiderio di piangere la travolse come un’esplosione. Non le era ancora capitato da quando si era trasferita lì, anche perché nel corso della carriera era diventata piuttosto brava a soffocare i propri sentimenti. Ma in quel momento la colpì, all’improvviso, e prima che potesse controllarlo, la sua bocca si aprì e ne emerse un gemito agonizzante. Si strinse una mano al petto come se quel pugnale immaginario fosse veramente nella sua carne, e si lasciò cadere sul pavimento.
Provò a rialzarsi, ma il suo corpo era in rivolta. No, sembrava che le stesse dicendo. Ti devi concedere questo momento per piangere. Devi singhiozzare. Devi elaborare il lutto. E chi lo sa? Magari poi ti sentirai anche meglio.
Si strinse all’album fotografico e se lo premette al cuore. Singhiozzò senza controllo, permettendosi di essere vulnerabile per un unico istante. Odiava che lasciarsi andare e crollare così fosse tanto liberatorio. Gemette e pianse, senza dire niente, senza invocare nessuno, né appellandosi a Dio o offrendo preghiere. C’era solo il dolore.
E fu veramente liberatorio. Quasi come un esorcismo.
Non sapeva quanto tempo aveva passato seduta lì sul pavimento, tra le scatole. Tutto ciò che capì, una volta alzata in piedi, era che non sentiva più la necessità di stordirsi con il contenuto di una bottiglia. Aveva bisogno di schiarirsi le idee e di fare ordine tra i pensieri.
C’era una bisogno familiare nelle sue mani, persino più potente del desiderio di nascondere le emozioni con l’alcool. Strinse le dita in deboli pugni e pensò a bersagli di carta e alle lunghe sale dei poligoni di tiro.
Iniziò a sentirsi meglio e le vennero in mente i pochi oggetti che aveva nella camera da letto che uno di quei giorni avrebbe ordinato e decorato. Non c’era molto, ma di sicuro aveva qualcosa di cui si era quasi dimenticata nella nebbia degli ultimi giorni. Lentamente, cercando di farsi coraggio mentre avanzava nel soggiorno pieno di scatole, Avery arrivò alla camera.
Per un istate rimase ferma alla porta e studiò l’arma che aveva appoggiato in un angolo.
Il fucile era un Remington 700 che aveva sin da quando si era diplomata al college. Durante l’ultimo anno, aveva progettato di trasferirsi in un posto remoto per dare la caccia ai cervi durante l’inverno. Suo padre lo aveva sempre fatto e, anche se lei non era particolarmente brava, se lo ricordava con piacere. Le sue amiche l’aveva spesso presa in giro per la sua passione per la caccia e probabilmente aveva anche spaventato un possibile fidanzato o due al liceo con il suo affetto per quello sport. Quando suo padre era morto, la famiglia l’aveva supplicata di prendere il fucile, convinta che l’uomo avrebbe voluto lasciarlo a lei.
L’oggetto aveva viaggiato molto, in un trasloco dopo l’altro, di solito nascosto in un armadio o sotto un letto. Due giorni dopo essersi trasferita lì, lo aveva portato a un rivenditore locale d’armi e gliel’aveva fatto pulire. Quando lo aveva ritirato, aveva anche acquistato tre scatole di cartucce.
Immaginando che fosse meglio battere il ferro finché era ancora caldo, si spogliò fino alle mutande e indossò un paio di pantaloni termici. Non era troppo freddo quella mattina, qualche grado sopra lo zero, ma non era abituata a stare fuori nei boschi. Non possedeva niente di mimetico, quindi si decise per un paio di pantaloni verde scuro e un maglione nero. Era consapevole che non fosse l’abbigliamento più sicuro per andare a caccia di cervi, ma per il momento se lo sarebbe fatto bastare.
Si infilò un sottile paio di guanti (dopo aver cercato dentro l’ennesimo scatolone per ritrovarli), si allacciò le scarpe più robuste che aveva e uscì. Salì in auto e guidò per due miglia fino a una strada sterrata che conduceva a una zona del bosco di proprietà dell’uomo da cui aveva acquistato la casa. Le aveva dato il permesso di cacciare nel suo terreno, come clausola aggiuntiva o una specie di bonus per averlo pagato diecimila dollari più del prezzo richiesto.
Trovò un punto a lato della strada che era stato ovviamente usato per anni dai cacciatori come parcheggio o spiazzo per svoltare. Lasciò lì l’auto, con la portiera del lato del guidatore a pochi centimetri dal sentiero. Poi prese il fucile e si addentrò nel bosco.
Si sentiva sciocca, a marciare tra gli alberi. Non cacciava da almeno cinque anni, dal weekend in cui aveva ricevuto il fucile. Non aveva l’attrezzatura, gli stivali giusti, l’odore di cervo da spruzzare sugli alberi, il cappello né il gilè arancione brillante. Ma sapeva anche che era mercoledì mattina e che il bosco era praticamente vuoto. Le sembrava di essere la ragazza timida che giocava a basket da sola e che si allontanava quando quelli bravi arrivavano in palestra.
Camminò per venti minuti fino a un rialzo nel terreno. Si mosse in silenzio, con la stessa cautela sviluppata lavorando come detective della omicidi. Il fucile tra le mani era piacevole, anche se un po’ strano. Era abituata ad armi molto più piccole, la sua Glock in particolare, quindi il fucile le sembrava più potente. Arrivata in cima al rialzo, notò una quercia caduta a una certa distanza. La usò per ripararsi un minimo, sedendosi sul terreno e poi scivolando in avanti con la schiena contro l’albero rovesciato. In quella posizione reclinata, si appoggiò di fianco il fucile e alzò lo sguardo verso le cime degli alberi.
Rimase sdraiata tranquilla, sentendosi più a suo agio con il mondo di quanto non fosse stata sulla sua veranda poco prima. Sorrise immaginando Rose là fuori insieme a lei. La figlia detestava qualsiasi cosa c’entrasse con l’aria aperta e le sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che sua madre in quel momento era seduta in mezzo ai boschi con un fucile, per dare la caccia ai cervi. Pensando a Rose, Avery riuscì a schiarirsi la mente e a concentrarsi su ciò che la circondava. E fu a quel punto che gli istinti sviluppati nel corso della sua carriera presero il sopravvento.
Sentiva il fruscio delle foglie per terra insieme a quelle sugli alberi, le ultime che si ostinavano testardamente ad opporsi all’inverno in arrivo. Udì qualcosa che si muoveva in alto a destra sopra di lei, probabilmente uno scoiattolo uscito a controllare il vento. Non appena si fu abituata all’ambiente, chiuse gli occhi e si permise davvero di lasciarsi andare.
Continuava a sentire tutto ma allo stesso tempo percepiva la propria mente che faceva ordine tra i pensieri. Jack e la sua ragazza, entrambi morti. Ramirez, morto e sepolto. Pensò a Howard Randall, caduto nella baia e probabilmente morto anche lui. E alla fine vide Rose… e come il suo lavoro l’avesse costantemente messa in pericolo. Rose non se l’era meritato, non era quello che aveva voluto per lei. Per tutto quel tempo aveva fatto del suo meglio per esserle di supporto, ma aveva raggiunto il suo limite.
Ad essere sincera, Avery era colpita che avesse resistito così a lungo. Specialmente dopo l’ultimo caso, nel corso del quale era stata letteralmente in pericolo di vita. E non era stata la prima volta.
Il rumore di un rametto che si spezzava interruppe i suoi pensieri. Spalancò gli occhi e ancora una volta si trovò a fissare gli alberi ormai quasi senza foglie sopra di sé. Lentamente allungò una mano verso il Remington, mentre dietro di lei qualcosa continuava a fare rumore.
Strinse a sé il fucile e lo preparò lentamente. Si mosse con abilità e grazia, sollevandosi sui gomiti. Espirò e inspirò, accertandosi di non muovere nemmeno una foglia con il respiro. Scrutò con attenzione l’area sotto il piccolo dosso dietro cui era nascosta e notò un cervo ad ovest, a circa settanta iarde di distanza. Era un maschio, con otto corna da quello che riusciva a vedere. Niente di esaltante, ma almeno era qualcosa. Ne vide un altro poco più avanti, ma era in parte coperto da due alberi.
Si sollevò un altro po’, appoggiando il fucile sul lato della quercia caduta. Flesse il dito sul grilletto e strinse la presa sul calcio. Prese la mira e lo trovò un colpo leggermente più difficile del previsto. Quando riuscì a trovare la posizione perfetta attraverso il mirino, sparò.
Il rimbombo del fucile riempì tutta la foresta. Il rinculo fu percettibile ma leggero. Non appena ebbe sparato si rese conto di aver mirato troppo a destra, perché le si era spostato il gomito quando aveva premuto il grilletto.
Non vide mai la fuga del cervo.
Mentre il suono dello sparo le riempiva le orecchie e i boschi, qualcosa dentro di lei sembrò tremare e paralizzarsi. Per un doloroso momento non riuscì a muoversi. E in quell’istante non fu più tra gli alberi, intenta a cacciare con poco successo un cervo. Invece era nel soggiorno di Jack. C’era sangue ovunque. Sia lui che la sua ragazza erano stati uccisi. Lei non era riuscita a impedirlo, e si sentiva come se fosse lei stessa la loro assassina. Rose aveva ragione. Era colpa sua. Avrebbe potuto fermarlo se fosse stata più veloce… se fosse stata più brava.
Il sangue brillava rosso acceso e gli occhi di Jack la fissavano, morti e supplicanti. Ti prego, sembravano dire, ti prego, devi impedirlo. Aiutaci.
Avery lasciò cadere il fucile. Il rumore dell’arma a terra la riportò alla realtà e ancora una volta si ritrovò a piangere apertamente. Le lacrime erano calde e inarrestabili, come lame infuocate sulle sue guance altrimenti gelate.
“È colpa mia,” disse rivolta alla foresta. “È stata colpa mia. Tutto quanto.”
Non solo Jack e la sua ragazza… no. Anche Ramirez. E chiunque altro non fosse riuscita a salvare. Avrebbe dovuto impegnarsi di più, essere più brava.
Ripensò alla foto di Jack e Rose davanti all’albero di Natale e si accartocciò a terra vicino alla quercia caduta, cominciando a tremare.
No, si intimò. Non ora, non qui. Ricomponiti, Avery.
Lottò contro quell’ondata di emozioni e le ricacciò indietro. Non fu troppo difficile. Dopo tutto aveva fatto molta pratica nel corso dell’ultima decina di anni. Si rialzò lentamente in piedi, riprendendo il fucile da terra. Quasi non si guardò nemmeno alle spalle, dove erano stati i due cervi. Non provava niente per il colpo mancato. Non le importava più di nulla.
Ritornò nella direzione da dove era venuta, portando il Remington su una spalla e dieci anni di senso di colpa e fallimento nel cuore.
*
Sulla strada del ritorno, Avery rifletté che era stata una fortuna non aver ucciso il cervo. Non aveva idea di come avrebbe potuto portarlo fuori dal bosco. Trascinandolo all’auto? Legandolo con una corda sul tettuccio della macchina e guidando molto piano verso casa? Sapeva abbastanza di caccia da essere consapevole che era illegale lasciarlo a marcire nel bosco.
In qualsiasi altro momento, avrebbe trovato esilarante l’immagine mentale di un cervo attaccato sopra la sua auto, ma in quel momento era solo un’altra svista. Qualcos’altro su cui non aveva riflettuto abbastanza.
Proprio mentre stava per svoltare sulla sua strada, il trillo del cellulare la riportò con i piedi per terra. Lo afferrò dalla console e lesse un numero che non riconobbe, ma un prefisso che aveva visto per quasi tutta la sua vita. La chiamata arrivava da Boston.
Rispose con una sana dose di scetticismo, avendo imparato, grazie alla sua carriera, che spesso i numeri sconosciuti portavano guai. “Pronto?”
“Pronto, parlo con la signora Black? La signora Avery Black?” domandò una voce maschile.
“Sono io. Chi è?”
“Mi chiamo Gary King. Sono l’affittuario dell’appartamento dove vive sua figlia. Lei è segnalata come parente più stretto nei suoi documenti e…”
“Rose sta bene?” Lo interruppe Avery.
“Per quel che ne so, sì. Ma la sto chiamando per qualcos’altro. Tanto per iniziare è in ritardo con l’affitto. Di due settimane ed è la seconda volta in tre mesi. Ho cercato di andare lì per parlargliene ma non mi ha mai risposto alla porta. E neanche al telefono.”
“Sono sicura che non ha bisogno di me per risolvere la faccenda,” disse lei. “Rose è una donna adulta e può sopportare una sgridata del suo padrone di casa.”
“Beh, non è solo questo. Ho ricevuto delle chiamate di una sua vicina che si lamenta di grida e pianti che vanno avanti tutta la notte. La stessa vicina dice di essere piuttosto amica di Rose e che ultimamente non è stata molto bene. A quanto pare continuerebbe a parlare di quanto tutto faccia schifo e di quanto la sua vita sia priva di senso. È preoccupata per lei.”
“E chi sarebbe questa amica?” volle sapere Avery. Era difficile opporsi, si sentiva già scivolare in modalità detective.
“Mi spiace, non posso dirlo. La privacy e tutta quella roba lì.”
Avery era abbastanza certa che avesse ragione, quindi non insistette. “Capisco. Grazie per la chiamata, signor King. La chiamo subito e farò in modo che abbia il suo affitto.”
“Va bene e grazie… ma sinceramente sono più in ansia per Rose. È una brava ragazza.”
“Sì, lo è,” disse Avery, e chiuse la chiamata.
A quel punto, era a meno di mezzo miglio dalla sua nuova casa. Trovò il numero di Rose e lo chiamò, premendo con più energia il piede sul pedale del gas. Credeva di sapere cosa sarebbe successo di lì a poco, ma provò un pizzico di speranza ogni volta che il telefono le squillò all’orecchio.
Come si era aspettata, la chiamata finì nella segreteria telefonica. Rose aveva risposto a una sola delle sue telefonate da quando suo padre era stato assassinato, e quando era successo era stata incredibilmente ubriaca. Avery preferì non lasciare un messaggio, sapendo che la figlia non l’avrebbe ascoltato, né tantomeno l’avrebbe richiamata a sua volta.
Parcheggiò nel proprio vialetto d’ingresso lasciando il motore acceso, e corse dentro per indossare una tenuta più presentabile. Fu di ritorno all’auto tre minuti più tardi, e si mise in viaggio verso Boston. Era certa che Rose sarebbe stata furiosa scoprendo che la madre era tornata in città per controllare come stava, ma Avery non vedeva altra possibilità, dopo l’appello di Gary King.
Non appena la strada si fece più facile e con meno curve, prese velocità. Non sapeva bene cosa le avrebbe portato il futuro in termini di lavoro, ma c’era una cosa che le sarebbe mancata della sua carriera in polizia: l’abilità di superare il limite di velocità ogni volta che voleva.
Rose era nei guai.
Lo sentiva.