Читать книгу Il Volto della Rabbia - Блейк Пирс - Страница 6
CAPITOLO TRE
ОглавлениеZoe dovette fermarsi due volte mentre camminava in cucina, prendendosi la testa tra le mani e ansimando. Aveva bisogno di reidratarsi. Si voltò verso la parte anteriore della stanza e le finestre, ma se ne pentì immediatamente. Non aveva tirato le tende ieri sera, e ora il sole della tarda mattinata stava filtrando attraverso le vetrate, inondando la stanza con un bagliore tale da farle rimbalzare il dolore in tutto il cranio.
I postumi della sbornia aggiungevano la beffa al danno. Ieri sera aveva consumato circa cinquantasei millilitri di alcol e il suo organismo avrebbe dovuto smaltirlo entro sette ore. Ma lei era andata a letto tardi, senza neanche togliere le scarpe, ed era altamente possibile che avesse continuato a bere una volta tornata a casa, anche se non lo ricordava. In ogni caso, la sua testa stava pulsando e desiderava soltanto tornare a dormire.
Sulla sua scala personale, il dolore era probabilmente un sei. Il rumore era persino peggiore: Zoe odiava la città durante il giorno. Anche rinchiusa nel suo appartamento, con le finestre chiuse, riusciva a sentirlo: il flusso costante di pneumatici e motori sull’asfalto, che le indicava la velocità media del traffico sulle strade più vicine; l’inquilina del piano di sopra che camminava con un tonfo pesante, comunicando a Zoe che si stesse dirigendo verso il frigo, perché la disposizione dei loro appartamenti era la stessa e la donna aveva fatto sette passi verso sud. E poi era tornata indietro, sette passi in direzione nord.
Gli uccelli cinguettavano tra loro, vivendo intere vite in questa città nonostante non ci fossero molti alberi. Il ritmo dei loro richiami prudeva nella testa di Zoe: un richiamo con tre cinguettii, un altro con tre cinguettii e un altro ancora, sempre con tre cinguettii. Sempre lo stesso. Poi un po’ di silenzio prima che ricominciassero da capo. L’unica variazione fu quando uno degli uccelli lanciò un cinguettio un po’ più rauco prima di tornare al solito ritmo.
“Zitti, dannati uccelli,” disse ad alta voce Zoe, coprendosi il viso con le mani. Un delicato miagolio vicino alla porta le fece aprire gli occhi e vide Pitagora, il suo birmano, che la osservava con uno sguardo di rimprovero.
Zoe gemette. Quantomeno le restava la routine della sua vita. I gatti avevano ancora bisogno di mangiare. Tirò fuori la latta dalla credenza e l’agitò, fino a quando il rumore metallico non le fece capire che aveva estratto centoventi pezzi singoli di cibo per gatti essiccato. Pitagora ed Eulero si precipitarono immediatamente verso le rispettive scodelle, aggredendole, mentre lei li osservava e prendeva un antidolorifico con un bicchiere d’acqua.
Zoe si sforzò di bere fino all’ultima goccia, riempiendo subito dopo il bicchiere. Ne servivano altri tre per far sparire il mal di testa, ma si sentiva già meglio.
Un forte rumore alla porta la fece trasalire talmente tanto che le cadde una grossa goccia d’acqua sul pavimento.
Non adesso, dottoressa, pensò Zoe, ma qualcosa non le quadrava. Sembrava che il colpo fosse partito da un pugno più pesante. Era anche più deciso rispetto a quello della dottoressa Applewhite, e non seguiva il solito schema. Toc-toc-toc: mancava il quarto toc ed era stato fatto una sola volta. Zoe pensò che potesse trattarsi di un uomo. Strano.
Forse l’FBI le aveva inviato tutto quello che aveva lasciato al J. Edgar Hoover in un pacco ed era necessario che firmasse. Sì, era probabile. Forse non del tutto, ma abbastanza da indurla a muoversi e andare a dare un’occhiata.
Zoe aprì la porta, lasciando che la catenina si allungasse completamente prima di vedere che si trattava dell’Agente Speciale al Comando Leo Maitland, il suo comandante. Era fermo davanti alla porta con le braccia dietro la schiena e un’espressione gentile sul viso. Non era per forza un buon segno. Maitland aveva un sacco di cose da fare e non sprecava il suo tempo in visite a domicilio. Qualcosa in quello sguardo – oltre alla sua istintiva obbedienza nei confronti di un suo superiore – spinse Zoe a chiudere la porta, sganciare la catena e aprire di nuovo per trovarsi faccia a faccia con lui.
Si pentì di non aver scelto un abbigliamento più adatto o di non aver pettinato i capelli, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.
“Agente Prime.” La voce di Maitland era simile a un tuono. Con il suo metro e novanta di altezza la sovrastava di tredici centimetri, una differenza che ora stava sfruttando per guardarla dall’alto, proprio come un insegnante guarda un ragazzino ribelle.
“Signore,” disse Zoe, cercando di parlare con voce ferma. Non aveva voluto occuparsi di nessuna questione di lavoro. Non quando i numeri erano ancora dappertutto: persino adesso stava misurando gli angoli nella postura militare di Maitland, notando che il petto di centoquattordici centimetri e i bicipiti di trentotto centimetri dell’uomo non si erano affatto ridotti dall’ultima volta in cui era stata nel suo ufficio.
Da quando le aveva detto di tornare a casa in licenza, perché aveva visto il cadavere della sua partner e aveva preso a pugni un tizio senza mostrare alcuna intenzione di fermarsi.
“Vengo direttamente dal Quartier Generale. Volevo parlarle di persona,” disse. La sua voce era profonda. “Le dispiace se entro?”
Zoe lo guardò per un istante senza capire. Cosa voleva dire quel tono? Era arrabbiato con lei? Divertito? Deluso? Cosa? Riusciva solamente a sentire i sessantuno decibel, le tredici parole, la cadenza e il ritmo, il flusso di sillabe. Ma si fece comunque da parte e indicò il divano, e Maitland le passò accanto, guardandosi attorno come se volesse fare attenzione a dove mettesse i piedi.
Non per evitare di calpestare qualcosa, ma per non sporcarsi le scarpe.
Maitland si sedette sul divano mentre Zoe chiudeva la porta. Poi tentennò per un istante: visto che di solito non riceveva visite, non aveva mai sentito la necessità di acquistare delle poltrone. C’era soltanto il divano, e questo voleva dire che sarebbe stata costretta a sedersi accanto a lui; imbarazzante e inappropriato, e anche disorientante, perché non sapeva a quale angolazione posizionare il proprio corpo. Si sedette dopo un attimo di esitazione e infine si sistemò a un’angolazione di quarantacinque gradi, una via di mezzo ottimale che le permetteva di prestare attenzione al suo ospite ma senza doverlo guardare direttamente in faccia.
“Agente Prime,” disse nuovamente Maitland, come se stesse cercando di scegliere le parole con molta attenzione. “Cos’è successo ieri?”
“Ieri?” ripeté ottusamente Zoe. La sua mente cominciò a tornare indietro nel tempo. Ieri? Cosa aveva fatto? Era rimasta svogliatamente seduta davanti alla finestra, aveva mandato via la dottoressa Applewhite ancora una volta e poi era andata a fare una passeggiata. Ah. La passeggiata. Forse Harry Rose aveva presentato un reclamo.
Maitland si mosse per trovarsi faccia a faccia con lei. Zoe notò che i suoi capelli rasati erano della stessa lunghezza di sempre, sebbene fossero più grigi rispetto all’ultima volta che l’aveva visto. “Il suo periodo di sospensione si è concluso ieri. Mi aspettavo che tornasse in servizio.”
“Era ieri?” domandò Zoe, sfogliando mentalmente il calendario. Sì, pensò, il numero di giorni era corretto. Ed era anche mercoledì, quindi suppose che la data fosse giusta. Le era completamente passato di mente.
“Le ho inviato diverse e-mail al riguardo,” disse Maitland, dopodiché spostò leggermente la testa, dando un’occhiata all’appartamento. Zoe vide l’angolazione del mento dell’uomo e le fu subito chiaro cosa stava guardando: il computer, che era spento; il cellulare, morto; il telefono fisso, staccato. “Ho provato anche a chiamarla diverse volte, e non riuscendo a mettermi in contatto con lei, le ho lasciato numerosi messaggi in segreteria.”
Zoe annuì lentamente, seguendo un determinato ritmo: uno, due, tre. “Mi dispiace,” disse, sebbene non lo sentisse particolarmente. “Non ho controllato molto la mia corrispondenza, ultimamente.”
Maitland sospirò. “Ascolti, Zoe, so che sono stati due mesi difficili per lei,” disse. “Le ho dato una sospensione di sei settimane perché sapevo che avrebbe comunque dovuto prendersi un permesso. È obbligatorio quando un agente perde il proprio partner. Soprattutto nel modo in cui è capitato a lei. È andata dal terapista?”
Zoe scosse lentamente la testa. Di nuovo a ritmo, uno, due, tre. Non aveva senso mentire. Lui avrebbe potuto controllare i registri. Probabilmente l’aveva già fatto. È solo che a lei non sembrava essere utile. Dopotutto aveva già la sua strizzacervelli. Anche se non c’era andata.
“Perché no?” domandò Maitland.
Zoe pensò alla risposta da dargli. Ci pensò troppo a lungo. I secondi passarono, tre, quattro, cinque, e alla fine Maitland si spazientì.
“Ok, mi stia a sentire,” disse, costringendo Zoe a guardarlo negli occhi. Lei cercò di concentrarsi sulle sue parole e non sul raggio della sua iride o su come questa cambiasse ogniqualvolta lui girava la testa da un lato all’altro, colpita in modo diverso dalla luce. “Il motivo per cui oggi mi trovo qui è perché ho bisogno di sapere quali sono le sue intenzioni. Ha scelto di non tornare al lavoro. Dovrei considerarle le sue dimissioni?”
Zoe aprì rapidamente la bocca in modo che lui capisse che voleva rispondere. In fondo non era una domanda difficile. “Sì,” rispose immediatamente. Come avrebbe anche solo potuto considerare di rientrare al lavoro? Come avrebbe fatto a camminare per quei corridoi senza avere accanto la sua partner? Prima di Shelley, l’avevano odiata tutti. Le avevano voltato le spalle. Con la morte di Shelley sarebbe stato anche peggio.
Maitland annuì lentamente, proprio come aveva fatto lei. A ritmo. Uno, due, tre. “Va bene,” disse. “Se ne è sicura. Tuttavia, avrò bisogno che lo metta per iscritto.”
Zoe guardò verso il computer e annuì in silenzio. Avrebbe scritto qualcosa e gliel’avrebbe inviata il prima possibile. Forse già domani.
Maitland si alzò, sollevando la sua imponente figura con una certa cautela, ovviamente riluttante a restare in questa casa ancora a lungo. “Ma prima di scrivere la sua lettera di dimissioni…” disse, porgendole un fascicolo. Zoe era stata talmente concentrata sulle misure di quell’iride da non accorgersi neanche del fatto che fosse posato sul ginocchio dell’uomo. Era marrone e di dimensioni standard, con un sottile bordo bianco di due millimetri che faceva capolino. “Penso che dovrebbe dare un’occhiata a questo. Potrebbe interessarle, e io potrei avvalermi del suo aiuto.”
Zoe lo guardò con diffidenza e Maitland sospirò prima di posarlo sul tavolino.
“Conosco la strada,” disse, dirigendosi verso la porta. Appena prima di raggiungerla, si fermò e si voltò per guardarla. C’era qualcosa sul suo viso, qualcosa che Zoe pensò potesse essere tristezza. “Lei è un buon agente, Prime. Sarebbe un peccato se quel figlio di puttana mettesse fine alla carriera di due dei miei migliori agenti. Ho visto altri agenti subire questo tipo di perdita, e la cosa migliore per loro è sempre stata quella di tornare al lavoro.”
Dopodiché aprì la porta e se ne andò, e Zoe rimase a fissare il fascicolo lasciato sul tavolo, esaminandone le dimensioni e cercando di ignorare tutto il resto.
***
Non era neanche mezzogiorno e Zoe si sentiva già a pezzi. La sua emicrania non era ancora sparita, e in più era stanca morta. Dopo aver camminato per metà della notte e aver bevuto, si sentiva come se fosse stata privata di tutte le forze. Ma non era il primo giorno che si sentiva così. Ultimamente era stata la norma.
Si alzò dal divano e si trascinò verso la camera da letto, gettandosi sulle coperte senza preoccuparsi di spostarle né di spogliarsi. Chiuse gli occhi, appoggiando la testa sul cuscino, e si lasciò avvolgere dall’oblio del sonno.
“Z, devi ascoltare.”
Zoe si voltò, guardandosi attorno e vedendo Shelley, che era in piedi davanti a lei. Indossava un bel vestito, i suoi capelli e il trucco erano ancora più ordinati del solito e il suo fisico era slanciato dai tacchi. Zoe abbassò lo sguardo su di sé, vedendo che stava indossando lo stesso vestito. Si trovavano nel bagno delle donne di un ristorante, mentre i rispettivi compagni le aspettavano in sala.
“Cosa?” domandò Zoe, aggrottando la fronte. C’era qualcosa di strano, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.
“Devi ascoltare,” insistette Shelley.
Zoe aggrottò ancora di più la fronte e fece un passo verso la sua partner, ma Shelley riuscì a restare alla stessa distanza pur senza muoversi. “Ascoltare cosa?” domandò Zoe.
Shelley indicò alle sue spalle e Zoe si girò: vide il riflesso del suo viso allo specchio, senza il trucco e il vestito elegante ma com’era adesso, spettinata e pallida, trasandata e con le occhiaie.
Ma non c’era nient’altro.
Zoe si voltò nuovamente verso la sua partner, ma Shelley era muta e la fissava con una tale concentrazione e una tale forza da smorzare le parole che volevano disperatamente uscire dalla sua bocca. Riuscì soltanto a ricambiare quello sguardo, cercando di comprenderne il significato, ma gli occhi della sua partner si velarono di bianco e smisero di fissare qualsiasi cosa.
Zoe scattò in piedi, ansimando. Era sudata e accaldata, e si accorse di avere i capelli bagnati di sudore quando alzò la mano per spostarli dalla fronte. Ci mise molto a togliersi dalla mente l’immagine degli occhi bianchi di Shelley, e quando si girò di lato vide di fronte a sé un altro enorme paio di occhi. Zoe lanciò un urlo e saltò dall’altra parte del letto, per poi accorgersi che si trattava di Eulero, intento a fare le fusa e a guardarla con timore e con una zampa sollevata verso di lei.
Zoe riprese fiato e allungò la mano per accarezzarlo dietro l’orecchio, in modo che capisse che andava tutto bene. Il cuore continuava a batterle all’impazzata. Eulero scosse la testa e si allontanò, perdendo interesse per lo strano comportamento del suo umano. Zoe contò i suoi passi fino a quando non uscì dalla stanza, dopodiché cercò di contare i propri respiri, rallentandoli il più possibile.
Altro che riposino rigenerante. Zoe portò le gambe fuori dal letto, facendole oscillare brevemente prima di posare i piedi sul pavimento, sentendo con un certo sollievo quella superficie fredda, che le ricordava che non si trovava più in un sogno. O meglio, in un incubo. Cosa stava cercando di dirle Shelley? Zoe non ne aveva la più pallida idea. Era quello il problema del subconscio: forse non significava proprio niente.
Seguì Eulero in cucina, pensando che le avrebbe fatto bene prendere un altro bicchiere d’acqua e fare una doccia. Appoggiata al bancone della cucina per bere, il suo sguardo vagò fino a posarsi sul tavolino da caffè e sul fascicolo. Lo ignorò. Non era il momento giusto. Distolse lo sguardo, desiderando che Maitland non gliel’avesse affatto lasciato.
Zoe abbassò lo sguardo sul proprio corpo: indossava una felpa e un paio di leggings non abbinati, risalenti al periodo dell’università, ormai consunti e sbiaditi. Non si lavava i capelli da giorni. Avrebbe potuto farlo, quantomeno per far passare il tempo.
Si fermò in bagno, colpita dall’immagine del suo stesso viso allo specchio. Evitava di guardarsi da molto tempo, ma qualcosa, probabilmente il sogno, l’aveva finalmente indotta a farlo. Ora si vide come doveva averla vista Maitland: tutta occhiaie, capelli unti e spettinati e carnagione pallida. Aveva un aspetto terribile.
E in fondo lo meritava. Non aveva forse lasciato che la sua partner venisse uccisa? Zoe chiuse gli occhi per un istante per scacciare il dolore.
Le tornarono in mente le parole di Maitland. Il pensiero che gettarsi nuovamente in un caso potesse renderle più facile lasciarsi alle spalle tutta questa sofferenza.
Magari avrebbe potuto dare un’occhiata al fascicolo. Almeno così avrebbe scongiurato una nuova visita da parte di Maitland, e forse la sua partner morta avrebbe smesso di infestare i suoi sogni. O quantomeno avrebbe potuto dire a se stessa di averci provato.
Zoe si avvicinò al tavolino prima che la sua determinazione potesse svanire e prese il fascicolo. All’interno c’erano quattro fogli di carta, due per vittima. Due vittime. Si sentì male soltanto a tenerli tra le mani, sentendo il bisogno impellente di metterli giù, ma l’immagine del viso di Shelley era ancora ben presente nella sua mente, e così Zoe iniziò a leggere.
Esaminò rapidamente le informazioni che vi erano contenute, venendo subito travolta dalle parole e dalle frasi. Cadaveri ritrovati a nord di New York. Da quelle parti faceva freddo in questo periodo dell’anno, pensò. A prima occhiata, le due donne erano state uccise in modi diversi; persino i loro dettagli erano differenti. Zoe non notò alcun collegamento nelle loro età, nel peso corporeo e nell’altezza, negli indirizzi di casa e, appunto, nel modo in cui erano state assassinate.
In realtà c’era un elemento che le collegava, una ragione per la quale questi due casi erano stati inseriti nello stesso fascicolo e portati alla sua attenzione. Entrambe le donne avevano un simbolo intagliato sull’addome dopo la morte, probabilmente con la punta di un coltello: una linea piatta dalla quale scendevano due gambe perpendicolari. Zoe lo riconobbe immediatamente: era il simbolo del pi greco.
Interessante. Adesso capiva per quale motivo Maitland le avesse lasciato il dossier. Era esattamente il caso che in passato avrebbe seguito. Il genere di caso di cui Shelley avrebbe sentito parlare e per il quale avrebbe proposto i loro nomi, se non ci avesse pensato prima Maitland. Segni e simboli, equazioni, strani indizi che sembravano sfuggire alla comprensione degli altri agenti. Era esattamente la sua specialità.
E in un certo senso quel pensiero era quasi rigenerante. Permettere nuovamente che i numeri lavorassero su qualcosa di davvero importante. Quello che lei aveva reso lo scopo della propria vita. Cercare collegamenti e indizi, risolvere un omicidio. Era bello che i numeri le stessero finalmente comunicando informazioni riguardanti un caso e non soltanto le dimensioni del suo appartamento e di ciò che c’era dentro. Sì, era un vero e proprio sollievo.
Non voleva dire che ci avrebbe lavorato, ma ne era incuriosita. Abbastanza da volerne sapere di più, anche se quello significava doversi recare personalmente da Maitland. Forse avrebbe potuto tenere a bada i numeri ancora un po’, dar loro qualcos’altro su cui concentrarsi. E forse, soltanto per cinque minuti, avrebbe potuto sentirsi nuovamente se stessa.
Ma prima di raggiungere il J. Edgar Hoover c’era qualcosa di più importante da fare.