Читать книгу Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI - Botta Carlo - Страница 1

LIBRO VIGESIMOTERZO

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SOMMARIO

Guerra di Napoleone col re di Prussia; gran ruina di quest'ultimo. Adulazioni degl'Italiani verso Napoleone. Trattato di Fontainebleau, che toglie il Portogallo ai Braganzesi. Toscana tolta alla stirpe di Spagna, ed unita alla Francia sotto l'autorità di Elisa, sorella di Napoleone. Operazioni della giunta creata in Toscana. Descrizione delle miserie d'Italia. Opere magnifiche di Napoleone. Toglie la Spagna ai Borboni. Giovacchino re di Napoli, Giuseppe di Spagna. Giovacchino va ad assumere il regno, feste che gli si fanno, principj, e natura del suo governo. Setta dei Carbonari, come, quando, dove e perchè nata, e quali erano i suoi riti. Napoleone si volta contro il papa, unisce le Marche al regno Italico, occupa Roma, fa oltraggio al papa: protestazioni fortissime di Pio settimo. Dolorose vicende nelle Marche per motivo dei giuramenti richiesti ai magistrati ed agli ecclesiastici.

Il re Federigo sentiva i frutti delle gratitudini Napoleoniche. Vinta l'Austria per avere la Prussia imprudentemente tenuta la neutralità, insorgeva Napoleone a vincere la Prussia, dopo di aver prostrato l'Austria. Usò le insidie, le insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla. Invase l'Hannover, ed operò ch'ella l'accettasse in proprietà, dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la Germania nel caso del duca d'Anghienna; non risentissi la Prussia. Portò pazientemente il re l'incoronazione Italica, l'unione di Genova, il fatto di Lucca, le non ottenute promesse al re di Sardegna: portò pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorj Germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore Napoleone per la confederazione del Reno: consentiva il re Federigo, ed accettava l'offerta di una confederazione a suo favore della settentrionale Germania; ma Napoleone confortava segretamente i principi, acciò non vi consentissero. Nè più modo alcuno serbando, toglieva Fulda al principe d'Orangia, congiunto di parentela col re, toglieva al re la fortezza di Vesel, e le abbazìe di Essen, Verden ed Elten. Prometteva alla Prussia la Svedese Pomerania, ed al tempo stesso con solenne trattato si legava colla Russia per impedire, che la Prussia della Pomerania s'impadronisse: il dato ed accettato Hannover offeriva al re d'Inghilterra, se pace con lui volesse. Nuovi soldati Napoleoniani marciavano in Germania. Conobbe il re con quale amico avesse a fare, e corse all'armi: corse altresì al ferro Napoleone. Bene il poteva usare, posciachè il re veniva armato contro di lui; ma gl'improperj che fece dire e stampare contro la regina, furono tali, che ogni uomo, che del tutto non sia lontano dalla civiltà, non potrà non sentirne sdegno e fastidio. Io vidi a questo tempo immagini di tal natura nei luoghi pubblici in mostra, che mi pareva aggirarmi, non nell'incivilito Parigi, ma sì piuttosto in una città rozza e selvaggia. Luisa era donna, regina, ed amatrice della sua patria, ed all'armi gli amatori della sua patria incitava: per questo diventò bersaglio agli oltraggi di un barbaro. Queste gravi parole contro Napoleone appruoveranno coloro, che con sì devoto e patrio affetto hanno alzato gli altari alla Domremese vergine; di quelli, che fanno scherno dei difensori delle loro patrie, non è da prender pensiero.

Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Iena, fu prostrata a Maddeburgo ed a Prenslavia. Berlino, capitale dei regno, le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo, vennero in potere del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente mosse dal re Federigo per stimolo proprio, e per quelli d'Alessandro di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in ajuto del vinto amico; ma Napoleone sopravvanzava d'ardire, di forza e di arte. Fu asprissima la battaglia di Eylau, e d'esito incerto. Incrudelita la stagione, ritiraronsi i Francesi di qua della Vistola, i Russi di là della Pregel. Intiepiditosi il tempo al nuovo anno, s'avventavano gli uni contro gli altri Francesi e Russi: vari furono i combattimenti, sanguinosi tutti; infine nei campi di Fridlandia conflissero con ordinanza piena i due nemici. Quivi cadde la fortuna Russa. Napoleone vincitore ai confini di Alessandro sovrastava: addomandava Alessandro i patti. Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete tra di loro si spartissero il mondo: avessesi Napoleone quella parte che è compresa da un lato tra una linea tirata dalla foce della Vistola sino all'isola di Corfù, dall'altro tra le spiagge del Baltico, dell'Oceano, del Mediterraneo e dell'Adriatico: avessesi Alessandro il rimanente. Quale di questo sia la verità, convennero sulle sponde del Niemen in trattato aperto: riconobbe Alessandro il nome e la autorità regia in Giuseppe Napoleone, come re di Napoli, ed in Luigi Napoleone, come re d'Olanda; consentì, che un regno di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di Napoleone, s'investisse, accordò che un ducato di Varsavia si creasse, e che duca ne fosse Federigo Augusto di Sassonia: riconobbe la Renana confederazione: stipulò per articolo segreto, che le bocche di Cattaro si sgombrassero dai Russi, e si consegnassero in potestà di Napoleone. Convenne in fine, che le sette isole Ioniche cedessero in possessione del medesimo, stipulazione enorme, perchè la independenza loro era stata accordata tra la Russia e la Porta Ottomana, nè poteva l'opera di due parti essere disfatta da una sola.

I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti dalle lingue o dalle penne degli uomini siano stati mandati alla memoria dei posteri. L'avere vinto con sì grossa e presta guerra l'Austria, poi poco dopo con sì grossa e presta guerra la Prussia, finalmente con grossa e non lunga guerra la Russia, pareva piuttosto accidente favoloso che vero. Volgevano gli uomini maravigliati nelle menti loro la potenza ed il valore degli Austriaci, la gloria ancor fresca di Federigo, le imprese mirabili di Suwarow con la sparsa fama dell'invincibilità dei Russi, nè potevano restare capaci, come una sola nazione ed un solo capitano avessero potuto soldati tanto valorosi, capitani tanto rinomati quasi prima vincere che vedere. Temeva ed adorava il mondo Napoleone, i principi i primi, anche i più potenti, i popoli i secondi. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per smisurate che fossero, parevano minori pel vero, nè i poeti più famosi, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano arrivare a tanta altezza. I poeti il chiamavano Giove, i preti braccio di Dio, i principi fratello e signore.

Un mezzo solo gli restava per accrescere la gloria acquistata; quest'era di usarne moderatamente; che se avesse frenato le lingue dell'età adulatrice, e precipitantesi a servitù, bene avrebbe meritato che le adulazioni lodi si chiamassero; ma amò meglio dilettarsi pruovando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli uomini, che fare generoso se ed altrui. Lascio le adulazioni Francesi, Austriache, Prussiane, Russe, solo parlerò dell'Italiane. A questo fine dell'adulare erano stati chiamati a Parigi i deputati del regno Italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava, introdotto all'udienza nell'imperial sede di San Clodoaldo, con servilissimo discorso al signore. Venire gl'Italiani a far tributo ai suoi piedi dell'ammirazione, dei desiderj, dell'amore, della fedeltà loro; godere per essere i primi a potere questo debito adempire verso l'eroe, verso il principe potente ed amatissimo, nissuno più degl'Italiani amarlo, nissuno con pari gratitudine venerarlo: avere lui redento la Francia, ma creato l'Italia: avere gl'Italiani pregato il cielo per la salute sua nei pericoli, ringraziarlo ora per le vittorie, ringraziarlo per la pace: benignamente udisse le supplichevoli preghiere dei sottomessi ed amorosi Italiani: gisse, venisse, vedesse quell'Italia da tanto bassamento alzata, da tanta abiezione ricompra, a tanto fortunate sorti avviata. Questo desiderare, questo instantemente supplicare, questo sperare dalla paterna benevolenza sua, questo essere la più compita, la più suprema felicità loro.

Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia: con piacere avergli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo: sperare, che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo egli, che aveva contaminato con ischerni una valorosa donna, solo perchè contro di lui la sua patria aveva amato e difeso, venne in sul dire, che le donne Italiane dovevano allontanare da se stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero negl'interni recessi, o comparissero al cospetto loro, se non quando portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia volentieri, sapere quanto i Veneziani l'amassero. Sorse in corte un gran parlar di lode pel discorso di Napoleone: tutti il predicarono per molto bello. Quella parte massimamente che aveva toccato dell'amor dei Veneziani verso di lui, era molto commendata.

Accarezzato dai monaci del Cenisio; festeggiato dai Torinesi testè liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale, il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella reale ed accetta Milano. Le feste furono molte; i soldati armeggiavano, i poeti cantavano, i magistrati lusingavano, i preti benedicevano. Trattò Melzi molto rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio rintanato, il creò duca di Lodi. Dolsimi in queste storie di molte funeste cose, e di molte ancora dorrommi, ma di niuna più mi doglio o dorrommi, che dello aver veduto contaminato dai soffi Napoleonici un Melzi.

Ed ecco che Napoleone arriva a Venezia. Luminaria per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno; la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri, e quel che è peggio, plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto, e contento in volto. Ciò non ostante aveva paura di essere ucciso; Duroc, gran maestro del palazzo, fu più diligente del solito nel visitar cantine e cisterne. Alcuni Veneziani si aggirarono intorno al signore con fronte lieta e serena. L'età portò, che brutto e splendido servire più piacesse, che vita onorata ed oscura.

Tornato a Milano udiva i collegi, ed ai collegi parlava. Accusò gli antenati, parlò di patria degenere dall'antica; affermò molto aver fatto per gl'Italiani, molto più voler fare; ammonigli, stessero congiunti con Francia; ricordò loro, che da quella ferrea corona si promettessero l'independenza. Corsa trionfalmente la Lombardìa, nuovi Italici pensieri gli venivano in mente, e gli mandava ad esecuzione: sotto il suo dominio da ruina nasceva ruina. Aveva, a cagione che il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare contro gl'Inglesi tutto quello ch'egli avrebbe voluto, per un trattato sottoscritto a Fontainebleau con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi. Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del Portogallo tra Mino e Duero, colla città di Porto, cedessero in proprietà e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della Pace con titolo di principe dell'Algarve, che il Beira ed il Tramonti, e l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace; che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Francesi; che un esercito Napoleonico entrasse in Ispagna, e congiuntosi con lo Spagnuolo occupasse il Portogallo. Covava fraude contro Portogallo, fraude contro Spagna per l'introduzione dei Napoleoniani. I Braganzesi, avuto notizia del fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono pel Brasile sopra navi proprie ed Inglesi. Napoleone levò un gran romore della partenza, ed imputò loro a delitto l'essere fuggiti, come diceva, con Inglesi, come se in servitù di lui fossero stati obbligati a restare.

Il dì ventidue novembre i ministri di Spagna e di Francia, nelle stanze di Maria Luisa, regina reggente di Toscana, entrando, le intimarono, essere finito e ceduto a Napoleone il suo Toscano regno, e che in compenso le erano assegnati altri stati da godersegli col suo figliuolo Carlo Lodovico. Fu a questa volta taciuta la parola perpetuamente; il che se indicasse sincerità o dimenticanza, io non lo so. Restava, che ad un comandamento fantastico succedesse una umiltà singolare. Significava la regina a' suoi popoli, essere la Toscana ceduta all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi con diletto del Toscano amore, rammaricherebbesi della separazione, consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù, fra le quali, per servirmi delle stesse parole che usò la regina, dette così com'erano alla segretariesca, fra le quali campeggiava singolarmente la premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina reggente in Toscana le vestigia Leopoldiane, anzi era andata riducendo lo stato a governo più stretto, e più compiacente a Roma. Arrivò il generale Reille a pigliar possesso in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza; cassaronsi gli stemmi di Toscana, rizzaronsi i Napoleonici: arrivava Menou Egiziaco a scuotere le Toscane genti; Napoleone trionfatore, tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa, e di Carlo Ludovico.

L'asprezza di Napoleone, e la natura rotta e precipitosa di Menou mitigava in Toscana una giunta creata dal nuovo sovrano, e composta di uomini giusti e buoni, fra i quali era Degerando, che solito sempre a sperare, a supporre, ed a voler bene, credeva che l'imperatore fosse fatto a sua similitudine. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a forma Francese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili, alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali, amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia senza modificazione: degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace, parendo loro cosa enorme, che dovessero andar alle guerre dell'estrema Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. S'adoperava la giunta, non senza frutto, a far che la nuova signorìa meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse più del quinto, nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio volle tirarvi la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane diede favore al far venir pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia Sanese. Delle berrette di Prato, dei capelli di paglia, degli alabastri, e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali del Toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze, e con premj particolar cura aveva. Domandò a Napoleone, che permettesse le tratte delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile per tener in fiore le manifatture dei drappi, e la coltivazione dei gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore, che concedesse una camera di commercio a Livorno, a guisa di quella di Marsiglia, acciocchè i Livornesi potessero regolare da se, e non per mezzo dei Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo il commercio del Levante con Livorno.

I commodi di terra pressavano nei consigli della giunta, come quei di mare. Supplicava all'imperatore, aprisse una strada da Arezzo a Rimini, brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico; ristorasse quella di Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze a Bologna pel Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella, che insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo e Perugia. Nè gli studj si omettevano; consiglio degno del dotto e dabben Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i sussidj loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento, della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva, dolci compensi di un amaro signore.

Arrivava gennajo intanto: cessava la giunta l'ufficio, dato da Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, gran duchessa nominandola. La quale Elisa o per natura, o per vezzo, simile piuttosto al fratello, che a donna, si dilettava di soldati, gli studj e la Toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la Toscana patria, passata prima da repubblica nei Medici per usurpazione, poi dai Medici negli Austriaci per forza dei potentati, ai quali piacque quella preda per accomodar se medesimi, dileguatasi finalmente e perdutasi del tutto nell'immensa Francia.

Similmente, ed al tempo stesso Napoleone univa all'impero il ducato di Parma e Piacenza, dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.

Non so, se chi avrà fin qui letto queste nostre storie, avrà quanto basta, posto mente alle miserie d'Italia. Il Piemonte due volte repubblica, due volte regno, tre volte sotto governi temporanei, calpestato dagli agenti repubblicani sotto il re e sotto il primo governo temporaneo, straziato dagli agenti imperiali, Russi ed Austriaci sotto il secondo, conculcato dagli agenti consolari sotto il terzo: sorti sempre incerte, predominio di opinioni diverse, interessi rovinati ora di questi, ora di quelli, affezioni tormentate: quando una radice di sanazione incominciava a spuntare in una ferita, violentemente era da maggior ferita svelta: la dolorosa vece più volte rinnovossi; squallido diventato un paese fioritissimo; aspettavasi la libertà; un dispotismo disordinato e sfrenato sopravvenne; molti anni durò, finalmente in dispotismo metodico cambiossi. Parevano più certe le sorti; pure ancora restavano nelle menti i vestigi dei passati mali, e le non riparate rovine attestavano le spesse e violenti mutazioni. Genova tre volte cambiata sotto forma di repubblica, spaventata continuamente dal romore delle presenti armi, conculcata dagl'Inglesi per mare, dai Francesi, dai Russi e dai Tedeschi per terra, ora in nome dei diritti dell'uomo, ed ora in nome del governo legittimo, desolata dall'assedio, desolata dalla pestilenza, obbligata a spendere per violenza quello, che aveva acquistato per industria, non aveva più forma alcuna di corpo sano: dieci secoli d'independenza, dopo quindici anni di martirio si terminarono nella dura soggezione di un capitano di guerra. Milano ricca, prima spogliata dai repubblicani, poi dai loro nemici, prima repubblica senza nome, poi repubblica ora con un nome ed ora con un altro, quindi provincia Tedesca sotto nome di reggenza imperiale, poi provincia Francese sotto nome di regno Italico, sempre conculcata, sempre serva, cedè finalmente in potestà di colui, che credeva il più prezioso frutto delle sue conquiste essere il poter risuscitare la corona di ferro di Luitprando, ed il serpente dei Visconti. Di Venezia poche cose dirò, poichè dopo tante stragi, tanti oltraggi, tante espilazioni, o provincia Francese, o provincia Tedesca, conobbe di che sapessero le due servitù. Perivano ogni giorno più i segni della generosità di Dutillot nella tormentata Parma, che accarezzata sotto il duca in parole pei fini di Spagna, taglieggiata in fatto per un'avarizia indomabile, vessata in fine dai Napoleonici capricci sotto San Mery, e molto più ancor sotto Junot, s'incamminava, da servitù in servitù passando, a sperimentare quanto valessero a sanare le ricevute ferite il concorrere ed il ricorrere al lontano Parigi. La Toscana ebbe più gran miscuglio di correrìe e di saccheggi stranieri, di sollevazioni intestine, di reggimenti temporanei, ora repubblicani tumultuarj, ed ora imperiali tumultuarj, parecchie reggenze sotto vario nome, re giovani e re bambini, ora capitani da guerra con somma autorità, ora principi Austriaci, ora principi Borbonici, ed ora Elisa principessa: soldati Napolitani, Francesi, Russi, Tedeschi, Italiani, incomposta e pestilenziale illuvie: i tempi Napoleonici guastavano i Leopoldiani. Roma rossa di sangue di legati Francesi, rossa di Romano sangue versato a difesa delle patrie leggi, rossa d'Italiano sangue non versato a difesa dell'Italiana patria, saccheggiata, conculcata, straziata da tutti, non sapeva più chi amico, o chi nemico chiamar potesse. Francesi, Tedeschi, Russi, Cisalpini, Napolitani, e, se Dio ne salvi, Turchi, con la cupidigia e con le armi loro a vicenda l'assalirono: i tempj profanati, i sacri arredi involati, i musei posti a ruba, le pitture di Raffaello guaste dalle soldatesche barbare; pure e questi e quelli dicevano volere la Romana felicità. Vide Roma un governo papale servo, una repubblica serva, un governo papale con ingannevoli apparenze restituito: vide un papa vinto, un papa tributario, un papa cattivo, un papa ito all'incoronazione del suo nemico: vide preti adulatori di Turchi, papisti adulatori d'Inglesi, repubblicani veri adulatori di repubblicani falsi, amatori di libertà adulatori di tiranni: fuvvi illusione da una parte, fraude dall'altra, e tra l'illusione e la fraude nacque un inganno, una chimera, un pensare a caso tale che è pur forza il confessare, che sia forte negli uomini l'istinto di star insieme, perchè senza di lui la Romana gente o si sarebbe dispersa a vivere nelle selve o vissuta insieme solo per ammazzarsi con le proprie mani. Credo che più tormentosi sperimenti sopra le infelici nazioni non siano stati fatti mai, come quelli che sopra i Romani furono fatti. L'aver sopravvissuto pare miracolo. Ma se maggiori mali soffrire non potevano, a maggiori scandali erano serbati dai cieli, siccome sarà da noi a suo luogo con dolente e disdegnosa penna raccontato. Pareva che la monarchìa avesse a portar più rispetto ai monarchi, ma fece peggio che la licenza. Così se ne viveva Roma desolata: povero l'erario, poveri i particolari: gli ornamenti perduti, gli animi divisi, ogni cosa piena di vendetta. Non so con quali parole io mi accinga a favellar di Napoli, perchè gli uomini simili al cielo, le benevolenze estreme che toccano la illusione, le nimicizie estreme che toccano la ferocia: congiure, guerre civili, guerre esterne, incendj, rovine, tradimenti, supplizj di gente virtuosa e di gente infame, ma più di virtuosa che d'infame. A questo atti eroici, coraggi indomiti, amicizie fedelissime anche nelle disgrazie, temperanza cittadina anche nella povertà, pensieri dolcissimi di fortunata umanità, desiderj purissimi del ben comune: ora regno ottenebrato da congiure, ora repubblica contaminata da rapine ora regno pieno di tormenti, ora regno pieno di rapine e di tormenti. Ferdinando due volte cacciato, una volta tornato; una repubblica serva dei Francesi, un regno servo degl'Inglesi, una repubblica stabilita a forza da un soldato, un regno restituito a forza da un prete, quella con immensa strage di lazzaroni, questo con immensa strage dei repubblicani: quelli stessi che adulato avevano Championnet repubblicano, o Ferdinando re, adulare Giuseppe re, e da un'altra parte la croce di Cristo sul campo medesimo unita alla luna di Macometto, tutte queste cose fanno una maraviglia tale, che quando saranno chiusi gli occhi e le orecchie di coloro che le videro e le udirono, nissuno sarebbe più per crederle, se non fosse la stampa, che ne moltiplica i testimonj.

Nissun ordine buono poteva sorgere da farragine sì dolorosa: perchè ogni fondamento civile era disordinato, ed i soldati si creavano per altri. Narrano alcuni che almeno questo accidente buono nascesse nel regno Italico, che lo spirito militare si risvegliasse, e che buoni soldati si formassero a benefizio d'Italia. Certamente buoni soldati si creavano sotto la disciplina Napoleonica; ma mandati a battaglie forestiere, come amassero l'Italia, e come imparassero a difenderla, io non so vedere; se forse non si voglia credere, che il rovinare i paesi d'altri, ed il distruggere le patrie altrui siano pei soldati salutiferi esempj.

La servitù s'abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto splendore splendeva. La mole dell'Ambrosiano tempio cresceva, il foro Buonaparte si disegnava, e da qualche principio già si conosceva quanto grandiosa opera avesse a riuscire, se fosse stato condotto a termine. Eugenio vicerè fomentava i parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la corte pruomovitrice di servitù, era anche pruomovitrice di bellezza. Nuovi canali si cavavano, nuovi ponti s'innalzavano, nuove strade si aprivano. Nè le rocche, nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata da Napoleone ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il suo dominio, e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi, che da pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono le due strade del Sempione, e del Cenisio, le quali aprendo un facile adito tra le più inospite ed alte roccie d'Italia alla Francia, attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed attività dei Francesi, la potenza di chi sul principiare del secolo decimonono le umane sorti volgeva. Beato egli, se non avesse corrotto il benefizio colla servitù!

Era arrivato il tempo, in cui i disegni Napoleonici dovevano colorirsi a danno del re di Spagna; i mezzi pari al fine. Il mettere discordia nella famiglia reale, il far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo verso il padre, il seminar sospetti sopra la conjugal fede della regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti, e farne stromento alle sue macchinazioni, il contaminar la fama di una principessa morta, l'esser del sangue di Carolina di Napoli rinfacciandole, accusar un principe di Spagna delle Caroliniane insidie, perchè più amava la Spagna che la Francia, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni cosa fosse sospetta di fraudi e di tradimenti, e la quieta e confidente vita del tutto sbandirne, furono arti di Napoleone. La subitezza Spagnuola le ruppe col far re Ferdinando, e dimetter Carlo; ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso di Aranjuez, che pareva dovere scompigliargli la trama, gli diede occasione di mandarla ad effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in sua potestà a Bajona: restava, che vi tirasse il re Ferdinando; e il vi tirò. Rallegrossi allora dell'opera compita. Fe' chiamar dal padre il figliuolo ribelle, fe' chiamar dalla madre il figliuolo bastardo, dalle gazzette meditatore scelerato della morte del padre, costrinse il padre ed il figliuolo a rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a Marsiglia, il figliuolo prigione a Valençay; nominò, ribollendo in lui la cupidità sfrenata dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re di Napoli. A questo fine era stato concluso il trattato di Fontainebleau, promessa grandezza al re di Spagna, introdotti i Napoleoniani in Ispagna. Ma le cose sortirono effetti diversi da quelli ch'ei si era promesso. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite sceleraggini, e combatterono i Napoleoniani. Napoleone e i suoi prezzolati scrittori gli chiamarono briganti, gli chiamarono assassini: quest'infamia mancava a tanti scandali.

Napoleone obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue esortazioni, otteneva, che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt. Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due monarchi potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava della libertà d'Europa, perchè essendo le due volontà preponderanti ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia, abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo nelle faccende d'Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente si contraggono, che si dismettono, ed anche l'ambizione del dominare non si rallenta mai, anzi cresce sempre, ed è insanabile. Rotto era e capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione di temere. Le scene d'Erfurt erano per Napoleone più d'apparato che d'arte, per Alessandro più d'arte che d'apparato.

Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle due Sicilie; due primi e supremi pensieri nudrire, essere grato al donatore, utile ai sudditi: volere conservar la constituzione data dall'antecessore: venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col principe Achille, suo reale figliuolo, venire coi figliuoli ancor bambini, commettergli alla fede, all'amore loro: in esso consistere la contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le Napoletane adulazioni. Il consiglio di stato, il clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una statua equestre rizzata sulla piazza del Mercatello rappresentava Napoleone Augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi colle spade al fianco, chi colle chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando rami d'alloro, e chi d'ulivo. Firrao cardinale col baldacchino, e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono a tal uopo molto ornatamente alzato, cantava la messa, e l'inno Ambrosiano. Terminata la cerimonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel reale palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio, faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina: risplendeva, come lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi l'isola di Capri, la quale, come posta alle bocche del golfo, è freno e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a coloro, che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto pregiudizio dei traffichi commerciali. Pareva anche vergognoso, che un Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte massimamente degl'Inglesi, tanto odiati, e tanto disprezzati. Aveva Giuseppe per la sua indolenza pazientemente tollerato quella vergogna; ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza; andava contro Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di Reale Corso, e di Reale Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacapri, ed il forte Maggiore, con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque andavano Francesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono di Anacapri: vi fecero prigioni circa ottocento soldati di Reale Malta. Conquistato Anacapri, che è la parte superiore dell'isola, restava, che si ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San Michele. Fu forza alzar batterìe sulle sommità per battere i forti, l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi d'uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi dal lido. Il re, che stava sopravvedendo dalla marina di Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio, spingeva in ajuto di Lamarque nuovi squadroni. Gli Inglesi, rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero al vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del nuovo governo.

Erano nel regno baroni, repubblicani, e popolo. I baroni al nuovo re volentieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè stavano senza speranza di avere, od a ricuperare gli antichi privilegi, perciocchè malgrado delle dimostrazioni contrarie i Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne dei nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano, che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome feudatario. Per questo temevano, che ad un bel bisogno gli desse in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se gli conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo, che non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe, si sarebbe facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle violenze dei magnati, ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino tutto intento a vezzeggiar i baroni, trascurava il popolo, il quale vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno che volesse governare con assoluto imperio, il tacere della constituzione, che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi le provincie non quietavano, e che massimamente le Calabrie secondo il solito imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato, era obbligato a portarle come guardia non pagata. Veramente, quand'io considero gli ordini d'Europa, mi maraviglio; perchè mi pare che negli stati, in cui la metà e più della rendita pubblica va nel pagar soldati, gli stati debbono guardar i cittadini, e che un cittadino che paga in tasse ed in figliuoli soldati quanto lo stato gli domanda, perchè lo guardi, debb'esser guardato dallo stato: pure veggo, che dopo avergli dato e tasse, e figliuoli, è ancora obbligato a cingersi la sciabola per guardarsi da se. Queste sono le libertà e le felicità europee.

Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite, come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete, nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte, nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non solamente barbaro, ma ancora pericoloso.

I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre, e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Francesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica propria, e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro pazientemente tollerare, che in cospetto loro, non che di Ferdinando, di Giovacchino, non che di Giovacchino, di regno si favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odj loro contro i re e contro i Francesi fra immense solitudini continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati, ed alla spartita vivendo, nissun comune vincolo gli congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi, che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare il regno contro i Francesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni, e creassero nuovi seguaci. Per accendergli promettevano gl'Inglesi qualche forma di constituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine, e si mostrò la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie, dove si fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarj sapevano, ed esercevano veramente l'arte del carbonajo. Siccome poi non ignoravano, che a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà persuasiva, che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi muratori, che gli ammessi passavano successivamente per varj gradi fino al quarto; che celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai erano diversi i carbonari dai liberi muratori; conciossiachè, siccome il fine di questi è il beneficare altrui, e di banchettar se stessi, così il fine di quelli era l'ordine politico degli stati. Avevano i carbonari nel loro procedere assai maggior severità dei liberi muratori, perchè non mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò consisteva, che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re, che con niun altro nome chiamavano, se non con quello di tiranni. Se stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca, sotto il quale vivevano. Opinavano altresì che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i liberi muratori intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori rappresentando la passione, e la morte di Cristo, e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto in quelle Napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano ed in tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello, che i liberi muratori chiamano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee loro col nome di vendite distinguevano, ai carbonari veri alludendo, i quali scendendo dalle montagne andavano a vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento volevano, che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco, che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Francesi, acerbissimamente Murat per essere Francese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando, perchè piuttosto non volevano re. Nati prima nell'Abruzzo e nelle Calabrie, si erano propagati nelle altre parti del regno, e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro, e creato consettarj. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni della secreta lega erano consapevoli e partecipi.

Vedendo Ferdinando, che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza, si deliberava, a ciò massimamente stimolato da Carolina sua moglie e dagl'Inglesi, di fare qualche pratica acciocchè se possibil fosse, concorressero co' suoi proprj aderenti al medesimo fine, che era quello di cacciar i Francesi, e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste pratiche era il principe di Moliterno, che, tornato d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo, che dichiarasse l'unione e l'independenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto contro i Francesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire, non fidandosi del principe, per essere stato repubblicano, si era in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava efficacemente dell'unione e independenza dell'Italia, ed in queste dimostrazioni era ardentemente secondato dalla regina, che si persuadeva di potere con questo allettativo, non solamente ricuperare il regno, ma ancora acquistare qualche altra parte importante. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e sì perchè finalmente molto si soddisfacevano di quella unione e independenza d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe e della regina. Ciò non ostante stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regj. Per vincere una tale ostinazione, il governo regio di Palermo dava speranza ai carbonari, che avrebbe loro dato una constituzione libera a seconda dei desiderj loro. Per questi motivi, e massimamente per questa promessa, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione del regno dai Francesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella, che ordinò quella repubblica di Catanzaro, che abbiamo sopra nominato.

L'unione dei carbonari coi regj diede maggior forza alla parte di Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle terre murate, cooperando alla difesa i soldati Francesi guidati da Partonneaux, i soldati Napolitani, e le legioni provinciali. Ogni cosa in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando nè del re Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra disordinata e civile, incendj, ruine, saccheggi, stupri, e non che uccisioni, assassinj. I fatti orribili tanto più si moltiplicavano, quanto più per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal affare di ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava nè di repubblica, nè di regno, nè di Ferdinando, nè di Giovacchino, nè di Francesi, nè d'Inglesi, nè di papa, nè di Turco, ma solo al sacco ed al sangue intenti, dai più segreti ripostigli loro uscendo, commettevano di quei fatti, dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento in poi, e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente sparso, finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le ridusse a più tollerabile condizione.

Le ruine si moltiplicavano; la Spagna ardeva, l'Italia, e la meridional parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria spaventata, la Prussia serva, la Russia divota, la Turchìa aderente, la terraferma Europea tutta obbediente a Napoleone o per forza, o per condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuore d'Italia, debole per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà. Napoleone spinto dall'ambizione, ed acciecato dalla prosperità aveva messo fuori certe parole sull'imperio di Carlomagno, suo successore nei dritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia, che da lui traevano gli stipendj, avessero potuto, imperatore dei Francesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva possessione, non che della Francia, di tutta l'Italia, di tutta la Spagna, di tutta la Germania, di quanto insomma componeva l'impero d'Occidente ai tempi di quel glorioso imperatore.

Adunque con quell'insegna di Carlomagno in fronte s'avventava contro il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà. Gli pesava, che ancora in Italia una piccola parte fosse, che a lui non obbedisse. Dal canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in quella condizione servile, nella quale erano caduti chi per debolezza e chi per necessità quasi tutti i principi d'Europa. Così chi aveva armi cedeva, chi non ne aveva resisteva. Pio settimo, non che resistesse, fortemente rimostrava al signore della Francia acerbamente dolendosi, che per gli articoli organici, e pel decreto di Melzi fossero stati i due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche a violazione manifesta dei decreti dei concilj, e del santo vangelo stesso. Si lamentava che nel codice civile di Francia, introdotto anche per ordine dell'imperatore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto contrario alle massime della Chiesa, ed ai precetti divini. Rimproverava, che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la Francia, con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica, e le dissidenti, non esclusa anche l'ebrea, nemica tanto irreconciliabile della religione di Cristo.

Di tutte queste cose ammoniva l'imperatore, dell'esecuzione delle sue promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone vincitore dell'Austria, della Prussia e della Russia, non era più quel Napoleone ancor tenero ne' suoi principj. Per la qual cosa volendo ad ogni modo venir a capo del suo disegno del farsi padrone di Roma, o che il papa vi fosse, o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo egli il successore di Carlomagno, gli stati pontificj, siccome quelli che erano stati parte dell'impero di esso Carlomagno, appartenevano all'impero Francese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli ne era l'imperatore; che a lui, come a successore di Carlomagno, il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al pontefice la doveva nelle spirituali, che uno dei diritti inerenti alla sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma a far con lui, e co' suoi successori, una lega difensiva ed offensiva per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo soggetto all'imperio di Carlomagno, non si poteva esimere dall'entrare in questa lega, e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la donazione di Carlomagno, di spartire gli stati pontificj e di dargli a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice qualità di vescovo di Roma.

Quest'estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta l'autorità sua l'aveva ajutato a salire sul suo seggio imperiale, dimostrava in chi le faceva, una risoluzione irrevocabile. Rispondeva il pontefice, esser caso maraviglioso, che il sovrano di Roma, dopo dieci secoli di possessione non contestata, fosse necessitato a far le sue difese contro colui, che pocanzi aveva consecrato imperatore; sapere il mondo, che il glorioso imperatore Carlomagno, la cui memoria sarà sempre benedetta nella chiesa, non aveva dato alla santa Sede le province di dominio pontificio: sapere che già dai tempi molto anteriori a Carlomagno, erano esse state possedute dai pontefici Romani per la dedizione libera dei popoli abbandonati dagli imperatori d'Oriente; sapere, che nel progresso dei tempi l'esarcato di Ravenna, e della Pentapoli, che queste medesime province comprendeva, essendo stato invaso dai Longobardi, l'illustre e religioso Pipino, padre di Carlomagno, lo aveva loro tolto dalle mani per un atto di donazione solenne a papa Stefano attribuendolo; che quel grande imperatore, l'ornamento e l'ammirazione dell'ottavo secolo, non che avesse voluto rivocare il pietoso e generoso atto di Pipino suo padre, l'aveva anzi confermato, ed appruovato sotto papa Adriano; che, non che avesse voluto spogliare la Romana Sede delle sue possessioni, non altro aveva fatto, nè voluto fare che restituirgliele ed aumentargliele; che tant'oltre era proceduto, che aveva comandato espressamente nel suo testamento a' suoi tre figliuoli di difenderle colle armi; che a' suoi successori nissuna potestà, nissun diritto aveva lasciato di rivocare quanto Pipino suo padre aveva fatto a favore della cattedra di San Pietro; che solo ed unico suo intento era stato di tutelar i pontefici Romani contro i loro nemici, e non obbligargli a dichiararsi contro di loro; che dieci secoli posteriori, che mille anni di possessione pacifica rendevano inutile ogni ricerca anteriore, ogni interpretazione posteriore; che finalmente supponendo eziandìo che i pretesi diritti di Carlomagno non fossero senza fondamento, non aveva l'imperator Napoleone trovato nè la santa Sede, nè il papa in quella condizione, in cui gli aveva trovati Carlomagno; conciossiachè avesse l'imperator Napoleone trovato la santa Sede libera, suddita a nissuno, in piena ed intiera sovranità di tutti i suoi stati fin da dieci secoli addietro senza interruzione alcuna, e che inoltre le sanguinose vittorie da lui acquistate contro altri popoli non gli davano il diritto d'invadere gli stati del pontefice, poichè sempre il pontefice era vissuto in pace con lui.

Troppo seriamente rispondeva il pontefice alle allegazioni di Napoleone, perchè niuno meno le stimava, che Napoleone stesso. Certamente se a quel modo si rivangassero tutte le ragioni antiche, o vere o finte, ma consumate dalla vecchiezza, nissuna possessione certa più vi sarebbe, ed il mondo andrebbe tutto in un fascio. Instava adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella confederazione Italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no, lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma conquisterebbe. La condizione proposta, non che migliorasse, peggiorava quella del pontefice; perciocchè solo scopo della confederazione fosse l'unirsi contro gl'infedeli, e contro gl'Inglesi, mentre la lega difensiva ed offensiva importava, che il papa dovesse far guerra a qualunque principe o stato, che fosse in guerra coll'imperatore; dal che ne poteva nascere nel papa la necessità, non solamente di far guerra ad un principe cattolico, ma ancora di unirsi ad un principe non cattolico per far guerra ad un cattolico, condizione del tutto insopportabile alla Sedia apostolica. A questi motivi aggiungeva il pontefice, che se si videro papi far leghe e guerre contro principi cattolici, non si leggeva però nelle storie, ch'eglino si fossero obbligati perpetuamente ad incontrar nimicizia e ad aver guerra con chiunque, a cui piacesse ad altri intimare nimicizia e guerra, senza che dei motivi potessero giudicare, e solo perchè ad altri piacesse assumersi nemicizie e guerre. Sclamava poscia papa Pio, sentire l'animo suo orrore e dolore, ricordandosi essere stato richiesto dall'imperatore di un trattato d'alleanza, pel quale avrebbe egli dovuto obbligarsi a tener per nemici tutti i suoi nemici, e a dichiarar la guerra a quanti l'imperatore, od i suoi successori, in perpetuo dichiarata l'avessero. Non esser questo armare il padre contro i figliuoli? Non i figliuoli contro il padre? Non mescolare in infinite questioni la chiesa di Dio, in cui come in proprio santuario, seggono la carità, la pace, la dolcezza, e tutte le virtù? Non volere, che il sommo pontefice non più Aaron sia, ma Ismaele, uomo crudo e selvaggio? Non volere che alzi la mano contro tutti, e che tutti l'alzino contro di lui? Non volere che drizzi le nimichevoli insegne contro i suoi fratelli? A questo modo forse nella chiesa di Dio introdursi la pace? A questo modo la pace che il divino salvatore lasciò agli apostoli, ai pontefici loro successori, ed a lui? Cercasse l'imperatore questa pace, che è la pace dei savj, pace migliore delle armi dei guerrieri: la pace dei savj cercasse, dei savj, che sono la salute del mondo: quella sapienza cercasse, per cui un re prudente è il sostegno del suo popolo, che se cercare non la volesse per se, lasciassela almeno, quale eredità propria, ai pontefici, ai quali l'aveva data Cristo redentore. Essere il pontefice padre comune di tutti i fedeli, a loro obbligato di tutti i sussidj spirituali, nè potere più continuargli a coloro che fossero sudditi di un principe, contro il quale in virtù della lega fosse stato tirato a guerra. Doppia qualità nel Romano pontefice risplendere, sovranità temporale, e sovranità spirituale, non potere per motivi temporali offendere la primaria sua qualità, la spirituale, nè recar pregiudizio a quella religione, di cui egli era capo, propagatore, e vindice.

Avendo papa Pio con sì gravi querele esposto l'animo suo a Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio l'imperatore volesse consumar le sue minacce, impossessandosi degli stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua santità a tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione violenta ed iniqua. Dichiarerebbe inoltre, che non già l'opera del genio, della politica e dei lumi (imperciocchè di queste parole appunto si era servito Napoleone, favellando degli ordinamenti della Romana sede) sarebbe distrutta, ma bensì l'opera dello stesso Dio, da cui ogni sovranità procede: adorerebbe sua santità profondamente i decreti del cielo, consolerebbesi col pensiero che Dio è il padre assoluto di tutti, e che tutto cede al suo divino volere, quando arriva la pienezza dei tempi da lui preordinata. Queste profetiche parole diceva Pio a Napoleone. L'imperatore perseverò nel dire, che a questo principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del sovrano, sotto il dominio del quale e' sono nati, e che intenzion sua era, che tutta l'Italia, Roma, Napoli e Milano, facessero una lega offensiva e difensiva per allontanar dalla penisola i disordini della guerra. Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione non doveva e non poteva essere interrotta, nè in pace, nè in guerra per uno stato intermedio, che a lui non s'appartenesse, tra i suoi stati di Napoli e di Milano. Inoltre voleva e comandava, che i porti dello stato pontificio fossero, e restassero serrati agl'Inglesi. Alle quali intimazioni aveva il pontefice risposto, oltre che se Napoleone si aveva preso Napoli, Toscana e Milano, non era certamente colpa del papa, che nelle guerre anteriori tra Francia, Austria e Spagna lo stato pontificio era sempre stato intermedio senza che queste potenze se ne dolessero, e prendessero pretesto per torre lo stato ai sovrani di Roma, e nel caso presente la interruzione non sussisteva, essendo lo stato Romano occupato dai soldati dell'imperatore, che con ogni libertà, e con intollerabile aggravio della camera apostolica andavano e venivano dal regno d'Italia al regno di Napoli, e così da questo a quello: che quanto al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della concordia, all'imperatore.

Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse manca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello, che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e d'Italia e del mondo. Perchè poi la forza fosse ajutata dall'inganno, accompagnava le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la potestà secolare. Non esser buoni i preti, diceva, per governare: immersi nei loro studj teologici non conoscere gli uomini: avere Roma abbastanza turbato il mondo: non comportare più il secolo le Romane usurpazioni; avere i lumi fatto conoscere a quale stima debbano esser messi i decreti del Vaticano: ad ognuno oggimai esser noto, quanto assurda cosa fosse il mescolare l'imperio col sacerdozio, il temporale con lo spirituale, la corona con la tiara, la spada con la croce: avere Gesù Cristo detto, che il regno suo non era di questo mondo: non dover essere di questo mondo il regno del suo vicario: pel bene della cristianità, non perchè vi seminassero discordie e guerre, avere Carlomagno dato ai papi la sovranità di Roma: poichè ne volevano abusare, doversi la donazione annullare: non più sovrano, ma solamente vescovo di Roma fosse Pio: a questo modo, e nel tempo stesso provvedersi ai bisogni della religione ed alla quiete universale. Così Napoleone si era servito della religione contro la filosofia per farsi imperatore, poi si servì della filosofia contro la potenza pontificia per farsi padrone di Roma, stimolando a vicenda, secondochè le sue ambizioni portavano, i preti contro i filosofi, i filosofi contro i preti. Prevedendo che un gran numero di fedeli in Francia, abbracciando la giustizia della causa del pontefice, avrebbero sentito mal volentieri le sue risoluzioni contro di lui, e che le avrebbero chiamate persecuzione, parola di molta efficacia fra i cristiani, si voltava a lusingare secondo l'arti sue, i Francesi, con pruovarsi di accrescere la dignità e l'autorità della nazione nelle faccende religiose. Pensava che i Francesi, avendo il predominio temporale, avrebbero anche amato lo spirituale. Perciò instantemente richiedeva, anche colla solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa, che riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti cardinali, quanti bastassero, perchè il terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali Francesi. Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi: se ricusava, avrebbe paruto alla nazione Francese che egli le negasse ciò, che per la sua grandezza credeva meritarsi. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda, che vulnerava la libertà della Chiesa, ed offendeva la sua più intima constituzione: a chi non era noto, essere i cardinali la più principale, e la più essenzial parte del clero Romano? Il primo dover loro essere il consigliare il sommo pontefice. A chi appartenersi, a chi doversi appartenere la elezione degli uomini atti a tanta dignità, atti a tanto carico, se non a colui che da loro debb'essere consigliato? Hanno i principi della terra i loro consiglieri, da loro eletti; alla sola Romana Chiesa, al solo Romano pontefice fia questa facoltà negata? Essere i cardinali non solamente consiglieri, ma ancora elettori del papa. Ora quale libertà poter essere nella elezione, se un principe secolare un numero sì grande d'elettori potesse nominare? Se a Napoleone si consente, gli altri principi non la pretenderanno eglino? Non sarebbe allora il pontefice Romano posto del tutto in balìa dei principi del secolo? Convenirsi certamente, che di ogni cattolica nazione siano eletti cardinali, ma la convenienza non esser obbligo: sola norma, sola legge dover essere al papa il chiamar cardinali coloro, che più per virtù, per dottrina, per pietà risplendono, di qualunque nazione siano, qual lingua parlino. Sapere il pontefice, che il suo rifiuto sarebbe volto dai malevoli a calunnia, come se il santo padre non avesse nella debita stima il clero di Francia; ma chiamare Dio e gli uomini in testimonio de' suoi affetti diversi: conoscergli il clero stesso, conoscergli l'imperatore, conoscergli il mondo, che già vedeva sedere nel sacro collegio, oltre due Genovesi ed un Alessandrino, sei cardinali Francesi; un altro dotto e virtuoso prelato volervi chiamare; di ciò contenterebbesi chi contentabil fosse; ma non poter il santo padre contentar altri di quello, di cui non si contenterebbe egli stesso.

Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato, e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale, segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa! Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusava Napoleone dello aver dato asilo ne' suoi stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori contro lo stato di Murat; per questo affermava, aver occupato Roma: il papa stesso accagionava di connivenza. Alquier gliene fece querele, quasichè non sapesse, che i soldati di Napoleone già da lungo tempo erano padroni dello stato ecclesiastico, che di propria autorità, e contro il diritto delle genti vi avevano arrestato e carcerato uomini sospetti, o non sospetti, e che il governo pontificio stesso, ogni qual volta che ne era stato richiesto, aveva ordinato arresti, e carcerazioni d'uomini sospetti a Francia. Del rimanente voleva Alquier, non so se per pazzìa, o per ischerno, che il papa avesse, e trattasse ancora, come amiche, le truppe, che violentemente avevano occupato la sua capitale, e la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello, che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto non potè più contenere se medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse all'ambasciadore Napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati, che rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario, e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva, che essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più, nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante Napoleonico intimava ai cardinali Napolitani Ruffo-Scilla, Pignatelli, Saluzzo, Caracciolo, Caraffa, Trajetto, e Firrao nel termine di ventiquatt'ore partissero da Roma, e tornassero a Napoli. Se nol facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima, termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali nati nel regno Italico, che furono quest'essi: Valenti, Caradini, Casoni, Crivelli, Giuseppe Doria, Della-Somaglia, Roverella, Scotti, Dugnani, Braschi-Onesti, Litta, Galeffi, Antonio Doria, e Locatelli. Risposero, stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto ordinasse.

A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà d'altri già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, si ricordassero degli obblighi e dei giuramenti loro verso la santa Sede, imitassero il suo esempio, sofferissero piuttostochè contaminarsi, non potere sua santità permettere che partissero; proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. Raccomandava, e comandava loro, prevedendo che la forza gli avrebbe indegnamente divulsi dal suo grembo, che se a qualche distanza di Roma fossero lasciati, non continuassero il viaggio; vedesse il mondo che la forza altrui, non la volontà loro, gli sveglieva da Roma.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati Napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le guardie pontificie, ogni cosa recarono in poter loro. Postovi poscia soprantendenti e spie, non solamente s'impadronivano degli spacci, ma ancora, secondochè loro aggradiva, aprivano e leggevano le lettere, enorme violazione della fede sì pubblica che privata, e del diritto delle genti. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse. Quindi nasceva che nelle scritture che ogni giorno si pubblicavano, massimamente nelle gazzette, le adulazioni verso Napoleone, e gli scherni contro il papa erano incessabili. Il papa stesso non potè pubblicare colle stampe una sua allocuzione ai cardinali del mese di marzo, e fu costretto a mandarne le copie attorno scritte a penna, ed autenticate di suo pugno.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo al torgli la militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le Napoleoniche glorie e la felicità degl'imperiali soldati magnificando. Esortavansi instantemente i papali ad abbandonar le insegne della chiesa, ed a porsi sotto quelle dell'imperio. Pochi consentirono; i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza; l'atto cattivo fu accompagnato da parole peggiori. Parlava Miollis il dì ventisette marzo ai soldati del papa: essere l'imperatore e re contento di loro, non esser più all'avvenire per ricever ordini nè da femmine, nè da preti; dovere i soldati esser comandati da soldati; stessero sicuri, che non mai più tornerebbero sotto le insegne dei preti; darebbe loro l'imperatore e re generali degni per bravura di governargli. Questi erano scherni molto incivili. Del rimanente, che le femmine ed i preti abbiano comandato a soldati, in quel modo che il diceva il generale Napoleonico, poichè nè il papa, nè i cardinali, nè alcuna donna di Roma erano generali, o colonnelli, si è veduto (il che però io non sarò mai per lodare) in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche in Francia, e nel regno ultimo d'Italia. Miollis stesso vide peggio, poichè vide Elisa principessa, e Carolina regina, Napoleonidi, far rassegne e mostre, e comandar mosse d'imperiali soldati. Un Frici colonnello, mancando nella fede, si accomodò coi nuovi signori: fu accarezzato. Un Bracci colonnello ricusò: fu carcerato, poi bandito. Carcerati altri tre, e mandati, per aver conservato la fede loro, nella fortezza di Mantova. A questo modo stimavano e ricompensavano i Napoleoniani gli uomini fedeli ai loro principi ed alle loro patrie. I soldati furono per forza costretti alle insegne Napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno Italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie, piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Napoleoniani che quest'ultimo suo ricetto fosse turbato dalle armi forestiere, non contenti, se non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano il dì sette aprile all'impresa del prendere il pontificale palazzo; s'appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrar gente armata, ma solamente l'uffiziale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano Napoleonico: fatto fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu lo sportello aperto e l'ufficiale entrato, che aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono: volte le baionette contro lo svizzero, occuparono l'adito. S'impadronirono, atterrando romorosamente le porte, delle armi delle papali guardie; i più intimi penetrali invasero. Intimarono al capitano della guardia Svizzera, sarebbe ai soldi e sotto le insegne di Francia: ricusò costantemente. Le medesime intimazioni fecero alle guardie delle finanze, e perchè ricusarono, le condussero carcerate in castello. Intanto altri corpi di Napoleoniani giravano per la città: quante guardie nobili incontrarono, tante arrestarono.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis; ma le sue querele non muovevano il generale Napoleonico; che anzi negli eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidobono Cavalchini, governator di Roma, ordinando che fosse condotto a Fenestrelle, fortezza alle fauci dell'Alpi sopra Pinerolo, che fondata dai re di Sardegna a difesa d'Italia, era ora per volontà di Napoleone divenuta carcere degl'Italiani, che anteponevano la fede alla fellonìa. Accusarono Cavalchini dello aver negato di ministrar giustizia secondo le leggi e regole del paese; del quale fallo, se era vero, il papa solo, non i forestieri, doveano giudicare. I napoleoniani portarono il prelato dentro i cavi sassi dell'orrido Fenestrelle.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di se medesimo, in istile grave e profetico a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio, che è cagione, che il sole levante venne dall'alto a visitarci, esortiamo, preghiamo, scongiuriamo te, imperatore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti: sovvengati, che Dio è re sopra di te: sovvengati, ch'ei non eccettuerà persona; sovvengati, ch'ei non rispetterà la grandezza d'uomo che sia; sovvengati, ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile, poichè quelli che comandano agli altri, saranno da lui con estremo rigore giudicati».

Napoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile, che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantechè l'interesse dei due reami, e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il dì undici maggio prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per esecuzione del decreto.

Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.

Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.

Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato.

Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi.

La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene.

Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici. Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece, con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.

Pubblicava Pio una solenne protesta:

«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone, che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti, durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto, non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui, che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto, abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo, ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre. Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto, quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci, come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca d'Ancona.

«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta, acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle: dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica».

Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San Vincenzo per accarezzarlo.

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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