Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV
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Botta Carlo. Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV

LIBRO DECIMOQUARTO

LIBRO DECIMOQUINTO

LIBRO DECIMOSESTO

LIBRO DECIMOSETTIMO

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Io sono nel presente libro per raccontare il martirio del re di Sardegna. Nella quale narrazione si vedrà, quanto possa l'abuso della forza contro il debole, e come non abbia incresciuto al più potente, non solo di usare la forza soverchia, ma ancora di aggiungervi la fraude, colorandola con le dolci parole di lealtà, e di santa osservanza dei patti. Si vedrà, come uomini, per ogni altra parte di dottrina e di virtù compiti, si siano fatti, per le illusioni dei tempi, stromenti di sì condannabili eccessi. Racconterò dall'altro lato uomini ridotti all'ultimo caso mostrare più animo, e maggiore virtù, che non quelli ai quali obbedivano quasi tutte le forze d'Europa; e se qualche contentezza si pruova nello scrivere storie, questa è di poter purgare dalle calunnie di tempi perversi gli uomini eccellenti.

Il re di Sardegna serrato da ogni parte dalle armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della sua fede verso il direttorio, non che nel più interno dell'animo non desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami il suo male, ma vedeva, che era del tutto in potestà dell'oppressore il sovvertire i suoi stati, prima solo che l'Austria il sapesse. Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla repubblica, quantunque altri desiderj avesse. Reggeva il Piemonte il re Carlo Emanuele quarto, principe religiosissimo, e di pacata natura, ma che trasportando i precetti della religione nelle faccende di stato, era poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto, e sregolato.

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Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi, l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello, che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro. Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare, come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii. Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di Francia.

I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole, mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené. Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno, che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra del trionfo dei dispoti. Gli agenti, che manda presso a loro per compiacere al loro orgoglio, e per istringere gli empj nodi della loro amicizia, in vece di vestirsi a lutto per la morte degli amici per la libertà, celebrano feste scandalose, e bevono nelle medesime coppe dei tiranni. Il sangue di coloro, che amici della libertà si protestano, scorre a rivi, e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarla. Gli splendori del trono gli rendono spettatori insensibili dell'orribile ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi, che l'oro dei tiranni corrompe! Popoli della terra, ascoltate le voci di un uomo, che è spettatore di tante sceleragini, e che ne pruova un dolore orribile. Ardete le dichiarazioni frodolente dei diritti dell'uomo, ch'eglino vi hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce, che risplende dal tempio della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro, abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non atterra più troni; essa gli difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto fatto alla tirannìa: con una mano opprime i popoli, ai quali per suo proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni, che divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni e ruine».

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