Читать книгу Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV - Botta Carlo - Страница 1

LIBRO DECIMOQUARTO

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SOMMARIO

Nuova confederazione in Europa contro la Francia. Spedizione d'Egitto. Presa di Malta. Buonaparte sbarca, e prende piede in Egitto. Battaglia navale di Aboukir. Accidenti di Napoli. Garat, ambasciadore di Francia presso al re Ferdinando. Suo discorso al re. Effetti prodotti nel regno dalla vittoria conseguita dagl'Inglesi ad Aboukir. Il re Ferdinando si risolve alla guerra contro la Francia: si muove contro lo stato Romano, e se ne rende padrone. Brutta condotta dei Napolitani a Roma. Accidenti in Cisalpina: trattato d'alleanza fra le due repubbliche. Trouvé, ambasciadore di Francia in Cisalpina. Suo discorso d'ingresso al direttorio Cisalpino; riforma violentemente la constituzione data da Buonaparte: mali umori prodotti da quest'operazione. Scritti pubblicati contro di Trouvé, e di Rivaud, che gli era succeduto. Sette, e congregazioni politiche nate in Italia pei cambiamenti fatti in Cisalpina.

Ma tempo è oramai, che ci alziamo a descrivere alcune maggiori cose, per cui mutossi inopinatamente lo stato d'Europa, quel dell'Africa turbossi, le Ottomane spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa combattuta parte d'Europa passò da Francia a coloro, che di nuovo la combatterono. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in pace con tutte le potenze del continente, ed oltre a ciò aveva per alleate la Spagna, il Piemonte, la Cisalpina e la Olanda. Le vittorie conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e costanza dei suoi soldati, avevano dato timore a tutti i principi, massimamente all'imperatore d'Alemagna, che era stato battuto da più forti percosse, ed aveva sofferto maggiori danni. Per la qual cosa, quantunque tutti vedessero mal volontieri confermarsi in Francia, vale a dire nel centro dell'Europa, principj contrari alla natura dei governi loro, contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi, ed aspettavano tempi migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al continente, poteva voltar tutte le sue forze contro l'Inghilterra. A ciò fare ella si trovava molto ben provveduta. Abbondava di navi da guerra proprie, di capitani di mare, e di marinari eccellenti, e di più poteva aggiungere alla sua tutta la marinerìa della Spagna e dell'Olanda, sue alleate. Il pericolo dell'Inghilterra era gravissimo tra per questo, e per le cose tutte di Francia, d'Olanda, e di Spagna tanto vicine che si ritrovavano in potere del suo nemico; i porti d'Italia alla medesima signorìa obbedivano. I soldati di terra, ed i generali dell'esercito, che si potevano imbarcare per la fazione, erano per fama, e per valore egregi. Già si spargevano voci della spedizione contro l'Inghilterra, già si facevano concorrere le navi, sì grosse che spedite, nei porti più vicini, e già Pleville-Leplay, ministro di marina, e ammiraglio di Francia, andava sopravvedendo le coste, che prospettano l'Inghilterra. Era il governo di Francia desideroso di fare questa spedizione per tenere sempre più gli animi sospesi, e per impiegare generali, e soldati vittoriosi, usi alle guerre, e che non avrebbero mai quietato nella pace, e volentieri si sarebbero messi a tentar novità con pericolo dello stato: al che si sapeva, che fra tutti Buonaparte era inclinato; il direttorio aveva avuto sentore dei tentativi fatti presso al vincitore d'Italia dai confederati per rimettere i Borboni, e delle promesse, e delle speranze da lui date su di questo disegno. Nel che si vedeva, che o volesse attenere le promesse ai principi, o le volesse usare per se, era ugualmente pericoloso al direttorio.

In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt principalmente, guida allora, e indirizzatore dei consigli di quel reame, conobbero il pericolo, in cui erano, tra per le forze del nemico, ed ancora per esservi nell'Inghilterra medesima non pochi, che avendo accettato i principj della rivoluzione Francese, e desiderando di porgli in opera nella patria loro avrebbero potuto secondar i Francesi, e cooperare alla ruina, e sovvertimento dell'antico stato. Però avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere un novello incendio di guerra sul continente, con stimolar di nuovo le potenze alle cose di Francia. Ciò amavano meglio, che le speranze incerte e lontane di Buonaparte.

Per commovere adunque novellamente tutto il mondo, comandavano ai loro ambasciatori e ministri presso i potentati d'Europa, e massimamente a quello presso l'Austria, che con efficaci parole esponessero il pericolo, che sovrastava a tutti gli antichi governi, se la repubblica Francese mettesse ferme radici e si confermasse, se quei principj sovvertitori di ogni buon governo prevalessero; allegassero le rovine d'Italia e d'Olanda; rappresentassero la Svizzera recentemente contro ogni fede assalita, con crudeltà invasa, con avarizia spogliata; dimostrassero, già d'ogni intorno, ad onta della pace giurata, romoreggiare all'Austria le armi tiranniche, i principj perturbatori, le grida degli scapestrati libertini. A che dar tempo a chi previene il tempo? questo essere il momento d'insorgere, che le cose erano tenere; l'aspettare, essere eccidio manifesto: però rendersi necessario il fare senz'altro indugio ogni sforzo per ispegnere quei mostri, che minacciavano di voler tutto divorare. Quest'erano le esortazioni dei ministri d'Inghilterra: offerivano al tempo stesso denari, ed ajuti di genti.

A queste instigazioni rispondeva l'Austria, che troppo più che si convenisse, erano state debilitate le sue forze nell'ultima guerra, troppo più esauste le sue finanze, troppo più l'inimico si era fatto grosso, massime in Italia, perchè ella potesse subito, e sola sul continente venire ad un cimento tanto pericoloso colla Francia; che non ostante si offeriva ad insorgere di nuovo, ed a correre all'armi, se la Russia consentisse a voler anch'essa venire efficacemente a parte della contesa e la spalleggiasse con pronti ajuti. Aggiungeva che nell'opera della Russia consisteva tutta l'importanza del fatto.

La Russia tentata rispondeva, perchè ella, così come l'Austria, stimava miglior partito il farsi strada coll'armi proprie che lo stare alle speranze di Buonaparte, che s'accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse della Turchìa: temeva, che muovendo le armi contro la Francia, la Porta Ottomana si muovesse contro di lei. Gl'Inglesi allora, ed a questo fine tentarono il governo Ottomano. Rispondeva il sultano, che per l'antica unione della Porta con quel paese non voleva muovere le armi contro la Francia, nè collegarsi con loro che le muovevano; perchè poco temevano gli Ottomani dei principj Francesi, e che poco loro importava, che la Francia vivesse in repubblica o monarchìa.

Non potendo adunque i ministri d'Inghilterra con questi stimoli, e promesse venir a capo dell'intento loro di seminar nuove discordie, ed importando alla salute dell'Inghilterra, che nascessero presto nuove turbazioni, si voltavano ad altre arti, sperando di ottenere dalla Francia stessa contro di se medesima quello, che non avevano potuto conseguire da' suoi nemici. A questo fine mandavano agenti a posta a Parigi con le mani piene d'oro, i quali dicevano al direttorio, ed a tutti che avevano autorità nelle cose, che per verità e' bisognava trovar nuove occupazioni ai soldati, acciocchè non se ne stessero oziosi con pericolo di novità nello stato; che e' bisognava trovar nuovo pascolo all'ambizione dei generali, massime di Buonaparte, che allora si viveva in Parigi con la mente volta a cose nuove; ma che la spedizione contro l'Inghilterra non era impresa da doversi fare, perchè un generale, e soldati, che acquistassero vittoria di un paese così importante, così ricco, e così vicino alla Francia, qual era l'Inghilterra, avrebbero poscia potuto facilmente farsi padroni del governo stesso di Francia; che perciò ponendo anche l'esito felice della spedizione d'Inghilterra, sovrastava un gran pericolo, anzi il più grande di tutti; che pertanto era d'uopo voltare i pensieri altrove, e verso paesi più lontani, ma però di molta importanza, perchè in questo caso la fama delle cose fatte sarebbe meno pregiudiziale, e ad ogni modo avrebbe il governo tempo di assicurarsi contro i tentativi di generali e soldati vittoriosi: pensassero bene, quanto già loro fosse molesta la fama, e la grandezza di Buonaparte per le vittorie d'Italia, e qual sospetto darebbe loro, se la potente Inghilterra vincesse. A queste cose astutamente soggiungevano, che pareva, che l'Egitto fosse paese, dove acconciamente si potesse mandare l'esercito, contrada ricca, poco dipendente dalla Porta, a cavallo tra l'Asia e l'Europa. Quai vantaggi pel commercio di Francia, quai progressi per la civiltà, quali speranze per le Indie, se a Francia accadesse di farsi padrona dell'Egitto? Speravano gli autori di queste insinuazioni, che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni.

Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma da un'altra parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte con dirgli, che l'impresa d'Inghilterra non era di così facile esecuzione, come forse si aveva concetto nell'animo, e come pareva a prima giunta, per gli ordini antichi, e tanto radicati in quel regno, per la forza del suo navilio, per l'altezza d'animo di tutta la nazione a non lasciarsi così di leggieri conquistare dai Francesi, nazione sua emola; pensasse al lagrimevole fine di Hoche; considerasse, che la conquista dell'Inghilterra ingelosirebbe il direttorio, e lo farebbe facilmente precipitare in partiti pericolosi, e funesti alla fama, ed all'essere suo; che sarebbe in paese più lontano assai meglio posto in propria balìa per operare con più libertà; che pure un tal paese s'appresentava alle menti loro, la cui conquista ecciterebbe tanto grido in Europa, e tanto lustro aggiungerebbe al suo nome, quanto veramente la conquista dell'Inghilterra, e che quest'era, a parer loro, l'Egitto.

Piacque la proposta al giovane capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva ciò non ostante un poco del romanzesco, quando si trattava di guerra, e di gloria militare. Aveva egli già in quel tempo voglia, e proposito di disfar il governo del direttorio, cioè quello degli avvocati, come diceva, e siccome impaziente e subito in tutte le sue azioni, gli pareva ogni momento mille anni, che non venisse all'esecuzione. Nondimeno la guerra d'Egitto gli gradiva molto a motivo del romanzo, ed a questa accomodava finalmente l'animo dicendo, che un governo, che pure aveva di fresco concluso una pace gloriosa, non poteva così facilmente essere distrutto. Sperava, che mentre egli conquistasse l'Egitto, e facesse vieppiù chiaro il suo nome per una impresa tanto straordinaria, sarebbe nata o qualche turbazione in Francia, o qualche guerra fuori, che avrebbe dato occasione ai popoli di desiderarlo, e che intanto la memoria di quel beneficio della pace data così recentemente dal direttorio si sarebbe debilitata.

Ma gli agenti d'Inghilterra, e quelli, che da loro si erano lasciati o sedurre o ingannare, persuadevano con efficaci parole al direttorio, che per l'occupazione dell'Egitto non si sarebbe la Porta tenuta offesa, nè la concordia fra i due stati interrotta. Adducevano, che poca era la dipendenza dell'Egitto dalla Porta; che i Mamalucchi, nemici irreconciliabili del governo Ottomano, ne erano i veri e reali signori; che contro di questi dovevano i Francesi protestare di voler voltar le armi; che si poteva far credere alla Porta, che l'occupazione dell'Egitto sarebbe momentanea, e necessitata solamente dalla guerra, che la Francia aveva con l'Inghilterra; che la provincia sarebbe di nuovo rimessa in potestà della Porta con molta maggior divozione di prima per la distruzione dei Mamalucchi, e che finalmente si potevano rappresentare ai ministri Ottomani molti vantaggi commerciali per la presenza dei Francesi in Egitto.

In tale forma accordate le cose s'incominciava a disporre gli animi in Francia ad un'impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto, come di una terra promessa, della prosperità del commercio, della scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia: perchè la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza. Taleyrand leggeva all'Instituto uno scritto composto con singolare eleganza e maestrìa, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto, e l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per esser mandato ambasciatore straordinario presso alla Porta Ottomana per ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla spedizione d'Egitto, e per mantener tuttavia salva l'antica concordia fra i due stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a Costantinopoli, come se già fosse partito, ed avviato a quella volta.

Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini, navi, armi e provvisioni di ogni sorte a Tolone, dove si era condotto Buonaparte per soppravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato tratto membro dell'Instituto, e con tale qualità ne' suoi dispacci s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati, e dei letterati di Francia, che aveano grande autorità nelle faccende, e si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì, che gli uomini si persuadessero, che quantunque soldato, ed uso alle guerre, era non ostante protettore della civiltà, e di chi la fomenta. Ciò importava anche alla spedizione in un paese, antico fonte del sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de' lati favoreggiando Buonaparte, e sollecitando le sue passioni più vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderj, ed i sospetti del direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di metter discordia tra Francia e Turchìa, d'abilitar la Russia ad unirsi coll'Austria, di aprir l'occasione all'ultima di levarsi a nuova guerra, di sviare da' proprj lidi una gran tempesta, di privar la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari lontani il potente navilio Francese, ed insomma di fare in modo che l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt.

Salpava l'armata Francese, che portava con se tante sorti, avviandosi verso Levante. Pareva ai repubblicani, ed era veramente l'isola di Malta molto opportuna al dominio d'Africa e d'Europa. Massimamente poteva la sua possessione facilitare a chi l'avesse, la conservazione dell'Egitto, ed i traffichi del commercio del Levante, ai quali allora mirava, come a cosa di somma importanza, la Francia. Era oltre a ciò manifesto, che chi fosse padrone di Malta, ed avesse forze considerabili sul mare, poteva facilmente turbare Sicilia e Napoli. Grande fomento, e scala già davano a questo disegno l'essersi i repubblicani fatti padroni di Roma, ed il romoreggiare, che vi facevano con tanto strepito per mezzo di quei principj, coi quali si sforzavano di persuadere che i re fossero detestabili, le repubbliche desiderabili, le rivoluzioni felici.

Da Roma potevano facilmente sommovere con le parole, sovvertire con la forza gli stati di terraferma di Napoli, da Malta la Sicilia. Già fin dai tempi d'Italia aveva Buonaparte applicato l'animo alla conquista di Malta. I suoi agenti, fra i quali il primo in questa macchinazione, e il più principale fu Regnault di San Giovanni d'Angely, uomo d'ingegno vasto, di cuore astuto, e di parlatura molto spedita, l'avevano reso sicuro, che con seicento mila franchi si poteva aver l'isola. Nè è da passarsi sotto silenzio, che i cavalieri di Malta, in ciò molto degeneri dai loro antecessori, attendevano piuttosto al vivere agiatamente, usando le ricchezze loro in mezzo ai cristiani, che al combattere virilmente sulle navi contro i Turchi. Per la qual cosa, oltre l'efficacia del denaro, infame per chi lo dà e per chi lo riceve, si prevedeva, che l'isola non avrebbe fatto una forte resistenza a chi l'assaltasse. Così Buonaparte accostandosi a Malta, tanto forte propugnacolo, e che con tanto valore aveva retto contro tutte le forze di Solimano imperatore dei Turchi, andava ad una impresa certa; che senza dubbio in tanta pressa per la fazione d'Egitto, non si sarebbe, senza una tale sicurezza arrischiato a tentare un fatto, che gli poteva riuscire lungo e difficile.

S'appresentava sul principiar di giugno in cospetto della contaminata Malta la repubblicana armata. Portava forti armi, e corruttele ancor più forti. Aveva Buonaparte condotto con se alcuni antichi cavalieri, che abbandonata l'isola, si erano poco innanzi condotti ai soldi dei repubblicani, e loro ajutavano all'eccidio della loro antica compagnìa. Avevano pratica col cavaliere Bosredon di Ransijat, segretario del tesoro dell'ordine, tocco dalle nuove opinioni. Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di far acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi solamente. Finse di averla per male, e sbarcato nella cala San Giorgio, servendogli di guida i fuorusciti Maltesi, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni. Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le munizioni piene, nè i soldati confidenti; che anzi essendo stata fra di loro seminata discordia da coloro, che s'intendevano coi Francesi, combatterono debolmente e scompigliatamente, temendo di essere traditi. La Valletta poteva ancor tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione, che dalle campagne si erano ricoverati in città all'apparire del nemico, facevano un gran terrore. Convocava Ferdinando Hompesch, gran maestro, la dieta dei cavalieri, ma non piena, perchè nè i più vecchi furono chiamati, senza dei quali nissuna deliberazione d'importanza, secondo gli statuti dell'ordine, si poteva fare, nè i più valorosi, nè i più fedeli; perchè nè il balìo di Tigny, nè Gurgeo, nè Clugny, nè Tillet, nè Bellemont, nè Loras, nè La Torre San Quintino, nè La Torre del Pino con altri di più chiaro nome, comparvero, non avendo avuto invito dal gran maestro. Indotti i più, piuttosto dalle speranze che dai timori, deliberavano di domandar tregua; poi giunto presso il gran maestro Marmont, si risolvevano del tutto alla dedizione sotto la mediazione di Spagna. Convennero le due parti nei seguenti capitoli; i quali chi vorrà considerare, facilmente si persuaderà, che se fu ignobile la resa per le sue cagioni, non fu meno brutta la capitolazione pei premj, che vi si stipularono. Rimettessero i cavalieri dell'ordine di San Giovanni Gerosolomitano ai Francesi la città ed i forti di Malta, rinunziando in favore della repubblica di Francia alla proprietà, ed alla sovranità ch'essi avevano su quell'isola, e su quelle di Gozo e di Comino; usasse la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè il gran maestro, sua vita durante, conseguisse un principato almeno uguale a quello ch'ei perdeva, e di più essa repubblica si obbligasse a dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecentomila franchi annui, e due anni anticipati della pensione per compenso del suo mobile; avessero i cavalieri Francesi dalla repubblica una pensione di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana, e l'Elvetica, perchè i cavalieri Liguri, Cisalpini, Romani, e Svizzeri ottenessero la medesima provvigione; conservassero i beni propri in Malta; procurasse la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si serbasse salva, ed intatta.

Il dì dodici giugno furono posti in poter dei Francesi i forti Emanuele, e Tigny, il castello Sant'Angelo, le opere della Bormola, della Cottonara, e della città vittoriosa. Il tredici, i nuovi signori presero possessione del forte Ricasoli, del castello Sant'Elmo, delle opere della Valetta, e di Floriano. Trovarono due navi da guerra, quattro galere, dodici centinaja di cannoni, munizioni in copia. Fecero il gran priorato di Malta, ed altri cavalieri dell'ordine adunati in Pietroburgo una solenne protesta contro la dedizione, tacciando Hompesch d'improvvidenza, di viltà, e di perfidia, e ritirandosi dall'obbrobrio, in cui affermavano essere meritamente incorsi Hompesch medesimo, Ransijat, San Tropez, ed altri dei loro compagni.

Venuto Buonaparte in possessione di un'isola tanto importante, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon di Ransijat. Poi veniva agli esilj ed alle espilazioni. Bandiva i cavalieri dall'isola, e fra di loro Hompesch, che se n'andò in Germania a vivere una vita ignorata, poichè onorata non la poteva più vivere. Ordinava Buonaparte, usando in questo l'opera del chimico Berthollet, che s'involassero gli ori, gli argenti, e le pietre preziose, che si trovavano nella chiesa di San Giovanni, ed in altri luoghi dipendenti dall'ordine di Malta, eccettuati solo quelli, che fossero necessari alla celebrazione dei riti, e così le argenterìe degli alberghi, e quella del gran maestro; gli ori, e gli argenti si convertissero in verghe, ed ogni cosa si serbasse pei servigi dell'esercito.

Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo s'arrendeva al generale Reynier, mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava ai suoi destini d'Egitto. Lasciava Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo, quanto valoroso soldato. Vi lasciava anche quel Regnault ambidestro, tanto favellatore egregio, quanto amministratore superbo. La più rara suppellettile, e fra questa la spada del gran mastro, e le bandiere dell'ordine, poste sulla fregata la Sensibile, s'incamminavano alla volta di Francia. Ma incontrata la nave dagl'Inglesi, fu presa, e le preziose conquiste condotte in Inghilterra. Erano sulla fregata Baraguey d'Hilliers, ed Arnault: accusò Arnault della perdita della nave la viltà dei forestieri. Nel che è da sapersi, che questi forestieri altro non erano, che galeotti napolitani liberati da Buonaparte dalle galere di Malta, e posti da lui, non so con qual decoro, a governar la Sensibile. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di maraviglia l'Europa, di timore l'Austria, di spavento Napoli. Solo gl'Inglesi, che avevano il navilio intero, e d'invitta fama, non se ne sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il pericolo, si preparavano al gran contrasto.

Giunto Buonaparte sui lidi Egiziani, e con tutta felicità sbarcatovi, s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada. Non è disegno nostro il descrivere l'Egiziana guerra, siccome quella, che troppo è lontana dalle cose d'Italia. Solo ci piace raccontare, poichè per lei si cambiò lo stato d'Italia, e fu avvenimento tanto grave per tutta Europa, la battaglia navale di Aboukir.

Avevano gl'Inglesi, come abbiam narrato, notizia anticipata della spedizione d'Egitto, ed avuto anche presto avviso della partenza dell'armata da Tolone, siccome quelli che stavano molto all'erta, con tanta celerità la seguitarono, che arrivarono alle bocche del Nilo prima dei Francesi; nè avendogli trovati, si erano andati aggirando pel Mediterraneo con isperanza d'incontrargli, e di combattergli. Nè ciò venendo loro fatto, tanto sicura notizia avevano dell'intento dei Francesi, di nuovo voltavano le vele verso le egiziane spiaggie. Correva il giorno primo d'agosto destinato dai cieli ad una delle più aspre, e più terminative battaglie, che il furore degli uomini abbia mai fatto commettere, e di cui vi sia memoria nei ricordi delle storie, pieni per altro di tanti spaventevoli accidenti. Viaggiava con l'armata Britannica il vice ammiraglio Nelson, al quale dall'ammiraglio San Vincenzo era stato commesso il carico di cercare, e di combattere l'armata Francese, ed a piene vele solcava il mare verso Alessandria d'Egitto, quando tra le una e mezzo, e le due ore meriggiane del sopraddetto giorno scopriva l'armata di Francia sorta in sull'ancore nella cala d'Aboukir, ed ordinata alla battaglia. Scoversero al tempo medesimo i Francesi la vegnente armata nemica, e questa e quella sollevando gli animi all'importanza del fatto, che stavano per commettere a difesa e gloria delle patrie loro, si preparavano al cimento. Noveravansi nell'armata Inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni, ed erano quest'esse: la Vanguardia, nave capitana, su cui sorgeva Nelson, l'Orione, il Culloden, il Bellerofonte, il Golia, il Zelante, il Minotauro, la Difesa, l'Audace, il Maestoso, il Presto, ed il Teseo. A questi si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni, e la fregata la Mutina di trentasei: insomma mila e quarantotto cannoni. Tutto questo navilio governavano meglio di ottomila eletti marinari.

Erano nell'armata di Francia una nave grossissima, stanza dell'almirante, nominata l'Oriente, tre di ottantaquattro, il Franclino, il Tonante, il Guglielmo Tell, nove di settantaquattro, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, il Felice, il Timoleone, il Mercurio, il Generoso, con la Diana, fregata di quarantotto, la Giustizia, fregata di quarantaquattro, l'Artemisia, e la Seria, ambedue di trentasei: insomma mila e novanta cannoni per armi, circa diecimila e novecento marinari per governo; imperciocchè i Francesi sono sempre soliti ad empiere le loro navi di maggior numero di gente. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo, e d'animo non minore della sua perizia. Si era egli, dopo di avere svernato con parte delle suddette navi nel porto di Corfù, condotto a Tolone per alla fazione d'Egitto, avendo Buonaparte in lui preso somma confidenza. Ma la condizione delle due armate era l'una dall'altra molto diversa. Veleggiava per l'alto mare la Inglese, mentre la Francese sorta sull'ancore sprolungava il lido da maestro a scirocco. Accresceva la sua sicurezza l'isoletta di Aboukir, ma però un po' troppo lontana, per potere con molta efficacia difendere il passo; era posta a capo della fila, e munita di artiglierìe. Alcune più piccole navi provvedute di bombarde, e che fra le altre erano fatte stanziare, davano maggior nervo all'armata. Questo modo di combattere aveva eletto l'ammiraglio della repubblica per non privarsi del tutto degli ajuti di terra, e perchè prevaleva per la grossezza delle navi, e pel numero dei combattenti. Le quali condizioni essendo per lui migliori, non voleva esporsi al pericolo, che in una battaglia a vele, ed in tutto navale, nel qual modo di combattere tra armata ed armata sogliono gl'Inglesi, per la precisione e prestezza delle mosse, avere il vantaggio, si pareggiassero. Poi, usando i Francesi di trarre con le artiglierìe loro nel corpo delle navi nemiche, era manifesto che i tiri meglio sarebbero aggiustati, e maggior colpo farebbero, scagliati da navi sull'ancore, che da navi sulle vele. Così egli si prometteva una probabile vittoria, poichè i suoi soldati essendo animosissimi, non aveva, in tale modo combattendo, cagione di temere che il coraggio loro venisse sopraffatto dalla maggior perizia degl'Inglesi. Spirava il vento da maestro, volgendosi un poco verso tramontana-maestro. Non così tosto l'ammiraglio Inglese scoverse l'armata Francese, che diè il segnale della battaglia, ordinando alle navi, che s'accostassero tutte al nemico, chi più presto, il meglio. Dalla parte sua Brueys fe' salire incontanente i marinari delle navi minori sulle maggiori, e sprofondava un'ancora di più, acciocchè le sue navi fossero più ferme, e i suoi si persuadessero, che quello era il luogo, in cui per loro abbisognava o vincere o morire. Egli poscia si pose co' suoi migliori ufficiali a velettare sulla gabbia dell'Oriente, sito pericolosissimo, perchè gl'Inglesi usano di tirare in alto nelle vele, e nel sartiame. Si scagliavano gl'Inglesi con impeto grandissimo contro l'antiguardo, e contro il mezzo dell'armata nemica, i quali con tutte le artiglierìe di poggia fulminando, ferocemente gli ributtarono, non senza aver loro recato danni gravissimi. In questo primo incontro le artiglierìe dell'isoletta ajutarono non poco l'opera delle navi. Tornarono gl'Inglesi all'urto un'altra volta, e sarebbe stata la battaglia più lunga e più pericolosa per loro, poichè Nelson si ostinava in voler dar dentro al petto dell'armata nemica, che se gli scopriva per poggia, se al capitano Foley del Golìa non fosse avvenuto l'audacissimo pensiero di ficcarsi, girando attorno alla punta dell'antiguardo Francese, tra il lido e l'armata nemica, donde ne avveniva, che i Francesi, perdendo il vantaggio di poter essere assaliti solamente da una parte, cioè da poggia, potevano, fra due tempeste di fuoco e di palle trovandosi, essere fulminati da ambe le parti, cioè da poggia, e da orza. Pensollo, e fecelo anche con ardire, e perizia inestimabile Foley. Consideratasi dagli altri l'importanza di questa mossa, che tanto vantaggiava le sorti degl'Inglesi, il Golìa fu prestamente seguitato dal Zelante, dall'Orione, dal Teseo, dall'Audace, e finalmente dalla Vanguardia, vascello almirante. Nè così tosto erano per tal modo trapassati a orza dei repubblicani, che, gettate le ancore, incominciavano a trarre con una furia incredibile.

Al tempo stesso le altre navi Inglesi, poichè non potevano esser molestate dalle navi del mezzo e del retroguardo nemico, che sull'ancore più dietro erano sorte, si arringavano a poggia delle Francesi, e con furiosi tiri le tempestavano. Così tutto l'antiguardo Francese, e parte della mezza fila, che erano il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, e l'Aquilone, combattuti da ambi i lati travagliavano grandemente, quantunque sulle prime con molto valore si difendessero. Ma sopraffatti da quella prepotente forza, rotti, fracassati, disalberati, ed incapaci di muoversi a volontà, non che mareggiare con disegno, si arrenderono. Il vento in questo, che continuava a soffiare da maestro, sospingeva il fumo di tante artiglierìe sulla mezza schiera, e sul retroguardo Francese, e tutto, qual foltissima nebbia, l'ingombrava, nebbia, che solo era rotta dai foschi lumi delle tiranti artiglierìe. Era lo spettacolo orrendo; i Francesi, che si trovavano in terraferma, ansj del fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola, e le torri d'Alessandria, così i terrazzi, e le logge di Rosetta, e la torre di Abul-Maradur, distante un tiro di cannone da questa città, erano piene di repubblicani, paventosi a quello che vedevano, ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condotti parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano, in sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva, che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierìe. Eppure una nuova scena si scoverse piena ancora di maggiore spavento. S'era fatto notte; il Bellerofonte s'attaccava con l'Oriente. Ma questa enorme mole con un fracasso orribile lo teneva lontano, e tanto lo conquassava, che poco più sarebbe andato a fondo. Sopraggiungeva in questo mentre l'Alessandro, che trovatosi più vicino ad Alessandria aveva tardato ad arrivare, e si metteva tosto a bersagliare ancor esso l'Oriente. Il Leandro, che era stato compagno all'Alessandro, giuntosi col medesimo, assaltava il Popolo sovrano, ed il Franclino. Poi altre navi Inglesi si avvicinavano ai vascelli Francesi, che tuttavia combattevano, poichè, vinta la vanguardia, era fatto loro facoltà di girsene ad assaltare le navi della fila mezzana. Così l'Oriente, ed i suoi due vicini il Franclino ed il Tonante, si trovarono ad un tempo stesso bersagliati da tutte parti. L'ammiraglio Brueys, che in tanto estremo accidente aveva compito tutte le parti di esperto ed animoso capitano di mare, ferito prima nel capo e nella mano, fu finalmente da una palla diviso in due a mezzo il corpo. Casabianca, capitano dell'Oriente, ferito gravemente ancor egli, era stato costretto a lasciare l'ufficio. In mezzo a quel tumulto ecco gridarsi sull'Oriente, ch'egli ardeva. Nè v'era modo a spegnere; le trombe rotte, le secchie fracassate, gli uomini fuor di mente toglievano ogni speranza. La scheggia, e le palle Inglesi continuavano a tempestare. Ardeva l'Oriente, tanto bella e tanto potente nave, ed ardendo spargeva fra quelle tenebre tutto all'intorno un funesto chiarore. Davano opera gl'Inglesi ad allontanarsi, perchè nella finale ruina di quella mole smisurata temevano l'ultimo sterminio. Infatti verso le dieci della sera con un rimbombo, che parve più che di grossissimo tuono, e con un incendio, come quando il cielo di nottetempo pare tutto acceso da non interrotte folgori, scoppiò. Successe a tanto caso, per lo spavento e per lo stupore, per ben dieci minuti un subito ed alto silenzio. Le navi così vicine come lontane, ravviluppate da fumo, da tizzoni, da rottami d'ogni sorte, non si vedevano, nè senza fatica poterono preservarsi dalle circondanti fiamme. Poi le artiglierìe rincominciarono lo strazio, massime dal canto degl'Inglesi, che non volevano, che l'opera della distruzione della flotta Francese restasse imperfetta. Continuossi per tal modo a trarre sino alle tre del seguente giorno, momento, in cui fu forza far tregua, perchè la stanchezza prevalse al furore.

Quando poi incominciò a raggiornare, quanto si scoperse diverso l'aspetto delle cose da quello, ch'era stato prima che la battaglia incominciasse! Due flotte per lo innanzi fioritissime, acconce, preste, piene di gente allegra ed intera, risuonanti di grida liete, e festose, ora rotte, lacere, tarde, sanguinose, arse, piene di morti, di moribondi, di gemiti spaventosi e compassionevoli. Nissuna reliquia dell'arso Oriente; la fregata la Seria gita a fondo mostrava solo la cima degl'infranti alberi; le navi Francesi, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, ed il Franclino disalberate, ed in poter d'Inghilterra; il Felice, ed il Mercurio dato di fianco negli scogli; il Tonante privo di tutti i suoi alberi, l'Artemisia in fiamme, il Timoleone gito di traverso. Solo intere si osservavano le due navi del retroguardo il Guglielmo Tell ed il Generoso, con le due fregate la Diana e la Giustizia. Degl'Inglesi il Bellerofonte casso di tutti i suoi alberi, un altro in pari stato, uno col solo artimone, tutti laceri e fracassati, ma non tanto che non potessero ed armeggiare, e mareggiare. Si scagliavano contro il Felice, il Mercurio, il Tonante, ed il Timoleone naufraghi, e se gli prendevano. Poi facevano forza d'impadronirsi del Guglielmo Tell, del Generoso, e delle due fregate superstiti; ma tutte queste navi, spiegate prestamente le vele, e preso dell'alto, andarono a salvamento, la prima governata da Villeneuve, capitano che era stato della fregata la Giustizia, a Malta, la seconda a Corfù. Quest'ultima, strada facendo, si prese il Cavallo marino, grossa nave d'Inghilterra, e lo condusse con se nel porto dell'isola. Era il Generoso al governo di la Joailles, capitano, se mai alcuno fu al mondo, di estremo valore, e le cose che fece con quel suo Generoso sono piuttosto incredibili, che maravigliose. Pure era di cortese tratto, e di facile e mansuetissima natura. La Giustizia, fregata la più veloce corridora di tutto il navilio Francese e forse del mondo, si salvò facilmente; la Diana, più tarda, difficilmente. Non poterono gl'Inglesi seguitare le fuggenti navi, perchè avevano le proprie rotte, e sdruscite dalla battaglia. Dei Francesi, chi fu raccolto dagl'Inglesi, chi fuggì verso Alessandria sui leggieri palischermi. Ma quelli che si gittarono al lido, venuti in mano degli Arabi, furono con ogni strazio condotti a morte: quegli scogli strani grondavano Francese sangue. Dei Francesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri circa ottomila, fra i quali i morti sommarono a quindici centinaja. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio Inglese, sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambi, liberati, e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra i quali molto desiderarono un Wescott, capitano del Maestoso. Fu accagionato Brueys, come si usa nelle disgrazie, anche da Buonaparte, dello avere stanziato troppo più lungamente che si convenisse su per quelle spiagge infedeli. Scrisse anzi il generalissimo, che questo soprastamento aveva fatto l'ammiraglio contro i suoi ordini, poichè, come allegò, gli aveva comandato, che si ritirasse tosto a Corfù. Altri al contrario scrivono, avere voluto Brueys, che conosceva il pericolo, partirsene per Corfù, ed essere stato impedito da Buonaparte, che gl'impose di restare, perchè non voleva privarsi del sussidio della trasportatrice armata innanzi che avesse fermato con vittorie di momento il piede in Egitto. Ciò non mi ardirò di affermare, non avendone alcuna testimonianza certa. Bene non si può scusare Brueys dello aver lasciato l'adito aperto, perchè gl'Inglesi si potessero recare a ridosso della sua armata; poichè, quando a lui si scoperse il nemico, o doveva, salpando tostamente, e dando le vele al vento, condursi a combattere in alto mare, o se fermo sull'ancore voleva combattere, esplorar bene le acque frammesse tra la sua vanguardia e il lido, e trovatele profonde a dar passo a navi grosse da guerra, mettersi in altro sito, o serrarle con altri avvisamenti; poichè si vede, che l'esser passati per quello stretto ad orza dell'armata Francese, diè del tutto agl'Inglesi vinta una battaglia, che altrimenti sarebbe stata per loro assai pericolosa e dubbia. Dall'esito di lei nacquero altre sorti in Europa.

La rivoluzione di Roma, e la presa di Malta, per cui i repubblicani si erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli, avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di Francia avesse fatto pensieri sinistri anche contro quella estrema parte d'Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello stato Romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo aveva timore, che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto, e qual effetto partorirebbe sui principi d'Europa, e sul governo Ottomano, aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re persuaso, che l'amicizia della Francia, verso di lui era sincera e cordiale. Ma il fatto stesso era contrario alle parole, perchè sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva ciò non ostante molto capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli, che all'ultimo avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare, per cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, o Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto, quello non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene, che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità. Favellava per verità molto tersamente, siccome accademico.

Disse, che era mandato per conservar la pace fra i due stati; che il direttorio della repubblica Francese così trattava con le altre nazioni d'Europa, come reggeva i Francesi; cioè con la giustizia, e che gli alti fatti, di cui suonava l'Europa, ciò dimostravano. Continuava, avere la repubblica Francese, allorchè più era potente e più gloriosa, dato la pace a' suoi nemici, quando già vinti ed inermi offerivano, non più ostacoli, ma frutti; l'independenza, e la libertà (queste cose io rapporto per dimostrare ai posteri o la semplicità, o la illusione di Garat) essere state recate a nazioni tra folgori, che parevano avere a recar loro il giogo della conquista, trattati essere stati fatti con potenze nemiche del nome repubblicano; essere questa tolleranza politica il segno di pace per le attuali generazioni d'Europa; mostrarlo la moderazione nella forza, di quella forza, che di per se stessa s'arresta, dove non è più che una giustizia invincibile, che pianta avanti a se termini, che niuna cosa che al mondo sia, potrebbe opporgli. Poscia l'ambasciadore chiamava il re virtuoso e buono, l'Inghilterra schiava dentro, tiranna fuori, la Francia libera, clemente e felice, la repubblica onnipotente per la libertà, savia per le disgrazie: per tutte queste cose rappresentare averlo mandato il direttorio. Finalmente parlava al re di filosofia, di volcani, di lave, di globi sconquassati in questi termini: «Non già perchè io mi sia andato ravvolgendo sotto i portici, dove si usa la ambizione e si cerca il favore, il direttorio mi ha inviato con mandato straordinario presso di voi; che anzi piuttosto io non vissi mai, che nelle silenziose campagne, ne' licei, e sotto i portici della filosofia; e quando le rivoluzioni, ed una repubblica a voi mi mandano con comandamenti, che possono tornare in pro di molti popoli, la fantasia mi rappresenta quei tempi antichi, in cui dal grembo delle repubbliche della Grecia partendo filosofi, che solo un nome si avevano acquistato, perchè avevano imparato a pensare, su questi medesimi lidi, su questo continente stesso, su queste isole erano venuti recando i desiderj loro per la felicità degli uomini: fecervi parecchi del bene, tutti vollero farvene: nè voti, e desiderj disformi da questi io avere posso, nè il direttorio della Francese repubblica m'intimava. Debbono questi voti, e questi desiderj inspirati essere a tutte le potenze da tutte le voci, che hanno efficacia negli uomini, debbonlo in nome del cielo, debbonlo in nome della natura; e parmi, o re, che in questi luoghi, dove voi regnate, fra gli accidenti più stupendi del cielo e della terra, su questo suolo, ammasso magnifico di reliquie dalle rivoluzioni del globo conservate, vicine a questi volcani, le cui bocche sempre aperte, e sempre fumanti rammentano quelle lave ardenti che buttate hanno, e di nuovo butteranno, parmi, dico, o Sire, che, o che in repubblica si viva, o sotto l'obbedienza di un re, l'uomo dee, più che in altro luogo, amare di raccomandare ai posteri per qualche beneficio fatto agli uomini una vita tanto fugace, e tanto incerta».

Questo così solenne e squisito parlare teneva l'ambasciadore Garat ad un re, che secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca, di caccia, e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste squisitezze accademiche, stava come attonito, e non sapeva come uscirgli di sotto.

Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il nove di maggio, l'ambasciatore a complir con la regina, favellandole dei desiderj di pace del direttorio, dei pensieri buoni, e delle virtù di Giuseppe, e di Leopoldo, suoi fratelli, come se le riforme fatte nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli ammaestramenti pieni di umanità, e di dolcezza dati alle genti dai filosofi Francesi, che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di Francia a quel tempo.

Queste cose sapeva, e queste sentiva Garat, perchè nissuno più di lui ebbe i desiderj volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide, migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un deserto, che comparire, qual messo di tiranni. Intanto si passava dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè, contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna voleva la pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre all'armi: nè il direttorio voleva lasciare quelle Napolitane prede, nè il re di Napoli poteva tollerare, che la democrazìa sfrenata romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio, che il re si era molto sdegnato, dappoichè Berthier, e l'incaricato d'affari a Napoli l'avevano richiesto con insolente imperio, che cacciasse da' suoi regni tutti i fuorusciti Corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo, che volevano occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora, dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo mitigare l'amarezza, e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciar la cosa. Perlochè si venne ad un accordo, pel quale si stipulò, che i Francesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini Napolitani, che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re: ma il re, non si fidando delle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che spontanee, di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza, o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il suo reame. Ordinava, che di cinque regnicoli uno andasse soldato; che ogni cinque frati o monache dessero, vestissero, ed armassero un soldato; che ogni chierico provvisto d'un beneficio di mila ducati d'entrata parimente fornisse un soldato; richiedeva finalmente i baroni del regno, perchè levassero al modo stesso, ed assoldassero un grosso corpo di cavallerìa. Queste provvisioni recate ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazi, e perfino raccolto le argenterìe delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierìe si era mandato a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio, che i soldati Napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri o frodatori, che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati, e del suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re, o che credesse intimorirlo, siccome quegli che aveva la mente molto accesa sulla potenza della sua repubblica, gl'intimava, non senza le solite parole superbe, che disarmasse, e riducesse l'esercito allo stato di pace. Confidava, che Ferdinando sarebbe calato a condiscendere, perchè reggeva allora, fra gli altri ministri, lo stato il marchese del Gallo, che aveva indole propensa pei Francesi, e siccome uno dei negoziatori del trattato di Campoformio, si conghietturava, che avesse pensieri favorevoli alla pace. Dispiacquero e la domanda, e la forma di lei: se ne dolse il Napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat. Aggiunse, o vero si fosse o supposto, che egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse, o stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciadore. Attribuiva verisimile colore alle allegazioni la domanda fatta dall'ambasciadore, perchè si liberassero i carcerati per delitti di stato.

Il direttorio, che non era ancora ben sicuro delle cose d'Egitto e d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe San Michel, repubblicano assai vivo, ma più cupo, e non tanto favellatore, quanto il suo antecessore. Era il suo mandato, che temporeggiasse ed accarezzasse; poi quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse, perchè Napoli cessasse da ogni preparamento ostile, e si rimettesse nuovamente nella condizione di pace. Dal canto suo il re, che non vedeva fra tante cupidigie e tante fraudi altra salute per lui, che le armi, non solo non cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle d'Egitto, tanto più volentieri, e più pertinacemente si risolveva, quanto più gli era ignoto, che la Francia era contro di lui molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Aboukir. Parve, che Napoli tutta, e tutto il regno in quel trionfo Inglese trionfassero, tanti furono i rallegramenti e le feste. La nappa stessa Inglese in tanto ardore fu inalberata da quei popoli comunemente, e tutti esclamavano, essere giunto il tempo della vendetta Napolitana, e della rovina Francese. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia, ed il condusse al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare, viva Nelson, viva l'Inghilterra! Poi gli fece copia, a racconcio delle navi, delle sue armerìe ed arsenali. Come queste cose sentisse la Francia repubblicana, ciascuno sel può pensare. Pure se ne stava aspettando, serbando l'ira e la vendetta a tempi più favorevoli; ed anche l'infortunio di Aboukir l'aveva se non intimorita, fatta più cauta. Così era in Napoli volontà di guerra, ed era anche in Parigi, ma più coperta.

In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina.

Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se, coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana, e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi, avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane.

Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza, ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi, accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria, spegnessero ogni desiderio di vendetta, imitassero la reale comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente interessava la sua regia potestà.

Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei faceva sopra di loro poco fondamento.

Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane, che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse, che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese, e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava, lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore, gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza.

Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno per noi raccontati nel progresso di queste storie.

Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale. Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa, questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto, ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire. Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse il trattato.

Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse, sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta.

Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia. Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori.

In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava, che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi. Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta, unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero; congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la debolezza degli animi, la servitù dello stato.

Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago, ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino: gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche, essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio, e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava, contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora di governo libero era quello che la secondava.

Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano, indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio, introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi, antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto.

Certamente questa riforma era da lodarsi, e sarebbe piaciuta ai buoni, se al tempo medesimo si fosse data la independenza alla Cisalpina; ma con la servitù ogni legge è cattiva, e le peggiori sono le buone, perchè portano con se la menzogna, e fan credere che vi sia ciò che non v'è. Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi rappresentante, che chiamato alle congreghe segrete, nè appruovandole, aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il romore fu grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non ancora frenate, furono in gran numero. Grande impressione massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco Ferri, fu composta, data secretamente alle stampe, e sparsa copiosissimamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane Piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave, e forte orazione era questa: «E donde in te, uomo da nulla (sclamava rivoltosi al giovane Trouvé il giovane Piacentino) donde in te, piccolo straniero, barbaro per l'Italia, la podestà di tante e sì gravi cose a dispetto nostro operare nella nostra repubblica? Dal tuo direttorio? Ma come mai il direttorio Francese munito ti avrebbe di così tirannica autorità, di una autorità, che in nessun tempo, in nessun caso mai non fu delegata ad ambasciadore presso popolo amico? Come potrebb'ei contraddire a se stesso, e detestare nella Cisalpina quello statuto, cui con tanto fervore, con tanta severità protegge, e difende nell'ampio recinto di sua giurisdizione? Come vorrebbe rapire in un istante a repubblica sorella l'independenza, che, pochi mesi sono, le ha guarentita con solenne trattato, e che tu, pochi dì fa, con sue patenti lettere, e in apparato quasi trionfale a salutar sei venuto? Chi oserà mai accagionare quei gravissimi quinqueviri dell'atroce e vile perfidia d'avere occultamente preparata la violazione di un trattato nell'atto medesimo, che di adempirlo fan pubblica testimonianza; di un trattato, che ottenuto avendo la sanzione dei legislatori di Francia, non può senza il loro consenso essere alterato, come non senza il previo concerto coi direttori Cisalpini? Chi potrà mai credere, che quel tuo governo, il quale non ha ricevuto che la delegazione di eseguire le leggi in terra Francese, e sopra cittadini Francesi, usurpar voglia in paese straniero, ed alleato l'autorità elettorale, legislativa, esecutiva, tutta insomma la sovranità nazionale? Li Cisalpini sono troppo giusti per recare a que' supremi governanti sì grave ingiuria. No, non è vero, che fidata abbianti la missione di rovesciar lo statuto, per cui esistono eglino medesimi: l'hanno difeso contro Europa tutta: come nol faran trionfare di pochi oscuri oligarchi?

«Sei tu, novello Lisandro (benchè solo in male, e peggio a te s'attagli siffatto nome) che vuoi poterti dar vanto di avere ricostituita una repubblica in estranio paese, tu, che nel tuo proprio non meritasti mai di sedere fra i settecento cinquanta, che le ordinarie leggi sanzionano. Che altro infatti dimostra il giro tortuoso de' tuoi clandestini maneggi? Per riverire, qual inviato di Francia, l'independenza Cisalpina, ti recasti con pubblica magnifica pompa al palagio nostro direttoriale, e il dì venti pratile andrà chiaro nei fasti della nostra repubblica; per colpire oggi di morte questa independenza, ti rintani nella più secreta parte del tuo alloggiamento; vi chiami un ambizioso, e ribelle congedato ministro, un deputato adolescente, e tal altri da te compro o ingannato; e con questi soli tenti, e disponi il tenebroso lavoro. Nè sa nulla il supremo governo, nulla li ministri, nulla il senato legislatore, nulla il popolo. Ma la patria vigilanza s'adombra e bisbiglia, va in traccia dell'ambasciadore, e il cospiratore ritrova.

«Questa è dunque la fede, l'amicizia, la fraternità, che di Francia ne apporti? questi li modi e le forme, onde la prima ambascerìa Francese presso la novella repubblica condisci, ed onori? Questa la libertà, la prosperità, che in Italia pretendi? Qual vasta materia di dire per que', che mai non posero ne' tuoi fidanza! Diranno, che voi non prometteste libertà agli Italiani, che per più agevolmente dominargli e spogliargli; che oggi sotto pretesto di riforma, gli caricate di nuove catene, onde viemmeglio continuare ad ismungergli, a dissanguargli; che l'oro, non la libertà, è l'unico idolo vostro; che quella, d'ogni virtù maestra e fonte, non è fatta per voi, nè voi per ella; infine, che la libertà Francese sta tutta nelle parole, e negli scritti, negli ululati di furibondi tribuni, e nelle declamazioni di perversi impudenti sofisti. Ma v'è di più. Quei cangiamenti, che di tua despotica possanza, e con tanta leggerezza effettuare intendi nello stato politico della Cisalpina, saranno l'infallibil segnale della caduta della stessa repubblica. Questo primo funesto esempio ne trarrà altri dopo di se. Ciò sta in principio, ma sta molto più, se si badi al carattere dei dominatori di una nazione. Nulla è durevole in Francia, dove signoreggiano soltanto foga di novità, ambizione di dominio, furore di parti, disorbitanze. Offeso in tal guisa l'Italiano nell'opposto suo carattere, insultato così, ed isvilito, non avendo potuto ancora riconoscersi, ordinarsi come a lui si conviene, sviluppare il suo genio, e le sue forze, non potrà che abbandonarsi al primo conquistatore, che si parrà a lui d'innanzi. Non è nei modi, che tu, di frivoli maestri più frivolo allievo, apparasti sulla Senna, che le antiche repubbliche Italiane stabilite, ed assodate si sono. Giudicane, se capace ne sei, dalla loro durata a traverso dei secoli. Più di quattordici ne contava la Veneta. Che è ella divenuta in due giorni nelle mani de' tuoi? Ti vanta adunque di poter tu fortificare la repubblica Cisalpina…! Per indole natìa, per l'esempio de' tuoi, per la forza pretoriana onde sei cinto, forse potrai distruggere; edificare, consolidare non mai: non si consolida distruggendo».

Sentì molto gravemente Trouvé il fatto, e condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gli fu risposto, non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero, farebbero, non dubitasse: ma se la passarono con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari, e faceva professione di amatore ardente di libertà.

Tutto fu indarno; Trouvé, al quale il direttorio, massimamente Lareveillere-Lepeaux, per cui passavano principalmente le faccende d'Italia portavano molta affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte dei trenta agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la nuova constituzione, e le nuove leggi. Le appruovarono, chi per amore, chi per forza, perchè aveva intimato loro, che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettassero di buon grado, l'avrebbe eseguita per forza. Nonostante alcuni ricusarono, e sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli, ributtavano con le bajonette i rappresentanti non eletti dalla riforma; cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; vi surrogavano Sopransi e Luosi: i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, amatori vivissimi di libertà, e capi degli altri, posti in carcere. La forza predominava. Fece Trouvé la nuova constituzione, e finalmente dichiarò, parendogli di avere operato abbastanza, e bene solidato l'imperio Francese in Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli ordini della Cisalpina, buona in se, viziosa pel modo. Ed ecco una scena: una gran turba seguitava Ranza gridando, che vuol Ranza, che scartafaccio è quello? Lo scartafaccio era la constituzione disfatta da Trouvé, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del Lazzaretto.

Brune, che era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio, che lo voleva mitigare, richiamava Trouvé, dandogli scambio con Fouché. Attribuiva anche facoltà al generale di far mutazioni, non negli ordini stabiliti dall'ambasciatore, ma nelle persone impiegate. Rimetteva in carica i democrati più vivi; fora lungo e fastidioso il raccontare come e quali. Le assemblee popolari, che chiamavano i comizi, accettavano la constituzione di Trouvé. I democrati non se ne potevano dar pace. Ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza, la forza forestiera reggeva lo stato. Non piacquero al direttorio nè Fouché nè Brune, l'uno e l'altro, come credeva, troppo ardenti in quelle bisogne, e già si vedeva apparire la nuova confederazione contro Francia. Mandava a Milano Joubert in vece di Brune, Rivaud in vece di Fouché, strano inviluppo d'uomini e di leggi tante volte mutate in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza, e la forza col capriccio. Non si mescolava Joubert nelle riforme; perchè da uomo generoso e magnanimo com'egli era, rispettava la independenza altrui, ed aveva grandi pensieri sopra l'Italia. Rincominciava Rivaud l'opera di Trouvé. La notte dei sette dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina le bajonette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da Brune, rimettevano in carica di direttorio Adelasio, Luosi, e Sopransi cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti, frenata la stampa, serrati i ritrovi: minacciaronsi i fuorusciti Napolitani di espulsione, i democrati Cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue, e gli scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo volevano ammazzare, e pingevano sui loro scritti contro di lui non so che coltello di Bruto; ma e' non fu nulla. In questa guisa la Cisalpina tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati, la prepotenza delle soldatesche forestiere, il timore di tutti, se ne stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria.

Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento levarono un grandissimo romore in Francia coloro, che o sedendo nei consigli legislativi, o con le stampe addottrinando il pubblico, contrastavano al direttorio. Luciano Buonaparte, fratello del generale, servendosi dei principali pensieri dell'orazione di Marco Ferri, ne fece una al consiglio dei cinquecento, la tirannide del direttorio, e la violenza da lui usata in Cisalpina con gravissime parole detestando. Questi discorsi si tenevano dagli opponenti piuttosto per odio del direttorio che per amore della libertà, per la maggior parte di loro, e fra tutti il primo Luciano, macchinavano già fin d'allora di mutare lo stato, cambiar la constituzione, spegnere il direttorio, e chiamare alla somma delle cose il generale Buonaparte. Così costoro, che per amore della libertà, come dicevano, odiavano e laceravano di continuo gli avvocati sedenti in direttorio, non avevano poi paura di un soldato arbitrario e vittorioso, al quale tanto volentieri concorrevano tutti i soldati di Francia.

Rispondevano per parte del direttorio Merlin, e Lareveillere-Lepeaux a fine di giustificare le sue opere in Cisalpina, che la Cisalpina non aveva mai avuto una constituzione legittima, perchè quella, che le aveva dato Buonaparte, non era mai stata accettata dal popolo; ch'ella era solamente un'ordinanza militare, non una vera e legittima constituzione; che i Cisalpini si dovevano solamente riputare magistrati militari instituiti col solo fine di governar il paese a tempo, e fino agli ordini definitivi; che del rimanente la Francia aveva conquistato col suo sangue la Cisalpina, e però aveva il diritto di farne il piacer suo. Erano certamente queste risposte vere, ma sarebbero state più sincere, e non meno oltraggiose per la Cisalpina, se fossero state confessate prima, e quando la necessità non stringeva; perchè se la Cisalpina era mera conquista, governata solamente alla soldatesca, e sottoposta ad un espresso dominio militare dalla parte della Francia, non si vede che cosa volessero significare le voci d'independente, che le si davano dal direttorio, i saluti fatti alla independenza Cisalpina dall'ambasciatore Trouvé, quel mandare e ricevere ambasciatori a quasi tutti, e da quasi tutti i potentati d'Europa, come la Cisalpina faceva, e quel lamentarsi del medesimo direttorio Francese, che l'Austria non l'avesse voluta riconoscere, nè da lei accettato, nè a lei mandato ambasciatori.

I cambiamenti fatti per forza di soldatesche nella repubblica cisalpina ai tempi del supremo dominio di Trouvé, di Brune e di Rivaud, così comandando il Direttorio di Francia, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra cosa voleva piuttostochè l'independenza loro, e che dalle parole in fuori, che erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù o d'Austria o di Francia. Allora s'accorsero che era per loro diventato necessario, seppure liberi e independenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e por mano essi stessi a quello che per opera dei forestieri non potevano sperar di acquistare. Surse in quel punto principalmente una setta la quale, contraria del pari ai Francesi che ai Tedeschi, dagli uni e dagli altri voleva liberare l'Italia, col fine di darle un essere proprio e independente. Perlochè si unirono i capi in Milano, i principali dei quali erano i generali Lahoz, Pino e Teuillet, e con questi Birago di Cremona, con alcuni altri sì di Cisalpina che di altre parti d'Italia. Restarono d'accordo che a questo scopo s'indirizzassero tutti i pensieri. Deliberarono che le voci d'independenza si spargessero fra i popoli, che si tirassero nell'unione quanti corpi di genti assoldate si potessero; che a questo medesimo fine si facesse una intelligenza coi Romani e coi Napolitani, e che ad ogni caso si formasse un'accolta di genti in Romagna, perchè quindi, o nei circonvicini e piani paesi si spargesse, o sul dorso degli Appennini si ritirasse, secondochè gli accidenti richiederebbero. Per nutrire il disegno, ordinarono adunanze segrete, che fra di loro corrispondevano, e la cui sede principale era in Bologna; e siccome da Bologna, come da centro, queste adunanze si spandevano, a guisa di raggi, tutto all'intorno negli altri paesi d'Italia, così chiamarono questa loro intelligenza Società dei Raggi.

Questo tentativo era contrastato da coloro fra gli amatori della libertà e dell'independenza, i quali, memori dei servigi fatti loro dai Francesi che gli avevano liberati, alcuni dal carcere, altri dall'esilio, ed altri anche da peggio, e persuasi che senza l'aiuto di Francia era impossibile resistere ad un tempo stesso alla parte che in Italia desiderava l'antico stato ed all'armi austriache, mal volentieri sopportavano che, per acquistare un'independenza dubbia, si volesse non solamente scostarsi dai Francesi medesimi, verso i quali protestavano gratitudine, ma anche voltar l'armi contro di loro, ove le occorrenze dei tempi il volessero. Fra questi ultimi più di tutti insisteva Cesare Paribelli, il quale era stato mandato da Milano in Romagna ed a Napoli per consultare su di queste faccende coi novatori del paese. Pure, essendosi col tempo viepiù scoperto che il Direttorio di Francia aveva l'animo troppo contrario alla libertà ed all'independenza d'Italia, questi medesimi, e Paribelli principalmente, erano venuti a volere l'independenza contro e a dispetto di tutti. Queste cose si tramavano, e già i semi se ne spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Francesi, per le quali, soprabbondando una estrema forza di genti settentrionali, tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno le operazioni di Lahoz, che in progresso si racconteranno, furono come immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione. A questo modo, independenti misti con servili, novatori con perseveranti, repubblicani forestieri, che desolavano le terre italiane, uomini boreali, che s'apprestavano a desolarle, componevano a questo tempo i dolori ed i terrori della miseranda Italia.

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV

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