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NOTA.

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Con questo dramma, io tento — ancora — un'arte che sembra troppo vaga a chi non ha voglia di concedermi una percezione acutamente alacre e a chi, pur essendo disposto a concedermela, non ha la facoltà di acuire il suo pensiero nell'esercizio della trasmigrazione verso il pensiero altrui. Gli elementi essenziali, che compongono, in quadri brevi, la mia nuova opera scenica, non hanno quasi mai una diretta e consona espressione, perchè risiedono nel fondo della esistenza di creature le cui parole e i cui atti non corrispondono alla loro psiche se non molto oscuramente e ambiguamente o addirittura ne divergono come i rami dal fusto. Il dissidio continuo, che si determina, or più or meno profondo, or più or meno inconsciamente, fra la psiche delle creature da me immaginate e le loro manifestazioni, costituisce l'invisibile filo conduttore dello sviluppo drammatico ed implica l'impossibilità assoluta di esporre il doloroso contenuto del dramma nella esteriorità dell'azione. E appunto questa impossibilità, che sùbito mi si parò innanzi quando la novella visione cominciava a sorgere, mi ha attratto cimentandomi e mi ha indotto a non destinare l'abbozzo della mia fantasia al limbo delle opere che pensai e cautamente non scrissi. Ahimè!... Il mio povero Piccolo Santo non poteva aspirare a un simile destino....

Però che gente di molto valore

Conobbi che in quel Limbo eran sospesi.

Io ho, dunque, celato in parte l'anima di alcuni personaggi ed ho quasi tutta celata quella del protagonista (ugualmente si celerebbero esse nella vita reale) sperando di lasciarle indovinare a traverso parole e atti che ne tramutano le essenze psicologiche come la luce tramuta certe combinazioni chimiche preparatesi nel buio.

Mi è stato detto e ridetto che il teatro non consente il proposito di far comprendere ciò che non sia espresso dalle parole e dagli atti dei personaggi. Questo proposito — mi hanno ripetuto con assiduità parecchi dei miei autorevoli giudici, che hanno voluto avere la cortesia di essere anche i miei... insegnanti — non è presumibile che nel novellatore e nel romanziere. Costoro, difatti, con opportuna sagacia, intervengono fra personaggi e lettori spiegando e commentando, ovvero coloriscono, ricalcano, analizzano. Il commediografo, invece, dispone di mezzi molto limitati. Se i suoi personaggi non spiegano essi medesimi ciò che pensano, ciò che sentono, ciò che vogliono, ciò che li agita, non c'è modo di conoscerli, nè d'intendere che cosa fanno. Questo è, in sostanza, il monito dei miei cortesi insegnanti e io non saprei negarne la prudente saggezza. Tuttavia, mi ostino a credere — imprudentemente — che un complesso sintetico di segni significativi possa bene conferire alla scena la trasparenza necessaria a rendere comprensibile anche quello che non è veramente espresso.

Non di rado sento definire artificio la raffigurazione artistica che io chiamo complesso sintetico di segni significativi. Nulla è più comodo di questa spiccia definizione che dispensa da troppo sottili discernimenti i cervelli un po' pigri o un po' frettolosi. Ma, intanto, un tale «artificio» è il riscontro, perfettamente analogico, della sintesi d'impressioni che s'incide nell'intelletto di un ipersensibile osservatore di fatti umani. Come i raggi solari si riflettono e si riuniscono nel fuoco di uno specchio concavo, le linee apparenti del vero si riassumono nel centro cerebrale di questo osservatore commosso con quel tanto di più che la sua intensa sensibilità scorge oltre la parvenza delle cose, delle persone, degli ambienti. E tutto quanto la sua sensibilità produce, riproducendo, per così dire, sè stessa, è precisamente... un complesso sintetico di segni significativi che racchiude la realtà sostanziale nascosta dietro la realtà della superficie.

Ecco quel che vorrebb'essere l'arte che — talvolta — io tento.

Roberto Bracco.

Il piccolo santo: Dramma in cinque atti

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