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ATTO SECONDO

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Lo stesso salotto

SCENA I

RAIMONDO e I SUOI DISCEPOLI

(Raimondo è seduto tuttora sulla poltrona accanto alla tavola. Attorno a lui, ma non troppo dappresso, in piedi, sono i suoi discepoli. Una dodicina. Il più discosto è Luciano, la cui figura, appartata, accasciata, immobile, con la faccia bianca, con gli occhi che di sbieco guardano Raimondo senza mai volgersi altrove, si distingue sùbito fra quelle degli altri. Essi hanno atteggiamenti vari, tra di angoscia e di attenzione intensa. Sui loro volti giovanili nessun lume di sorriso; e quel loro aspetto grave e triste contrasta con la gaiezza dei loro abiti primaverili, sui quali spiccano i ciuffetti d'erbe e di fiori pratensi messi all'occhiello o cacciati nelle saccocce delle giacche un po' in disordine.)

Raimondo

(ha già parlato con vivacità, ed ora tace per riprendere lena.)

(Tutti tacciono con lui, in attesa ch'egli continui.)

Raimondo

Concedetemi qualche altro momento di riposo.

Paolo

(mite e premuroso) Voi non dovreste parlare tanto, professore. Vi nuoce.

Raimondo

Vi assicuro di no.

Roberto

(ai compagni, con voce discreta) Ma quest'aria rarefatta gli fa mancare il respiro. Siamo in troppi qui dentro.

Almerico

Si potrebbe aprire la finestra.

Raimondo

E sì: aprite la finestra. Fate che mi prenda anch'io un poco di questa primavera. (Girando lo sguardo sui discepoli) Voi ve ne siete già fregiati.

(Qualcuno, senza far rumore, apre la finestra.)

(Il silenzio si protrae sulla immobilità e sul raccoglimento di tutti.)

Raimondo

(respira allargando il torace. – Quando si sente ben rinfrancato, continua.) Vi dicevo, dunque, che, per mia volontà, voi sarete i miei eredi…

Manlio

(osando d'interrompere) Ma perchè occuparvi oggi di queste cose? Siete ancora così energico! Siete ancora così vivo! Basta guardarvi in faccia per vedere che la vostra energia non sarà esaurita nè domani, nè fra un mese, nè fra un anno…

Raimondo

Credo assai prossima, caro Manlio, una crisi mortale. So bene ciò che dico. Questo deve essere il giorno del commiato. Oggi, nel perfetto dominio della mia ragione, posso disporre lucidamente del mio piccolo tesoro scientifico. Domani, forse, non potrei. Lì (indicando l'uscio a destra), nella mia stanza di lavoro, troverai sulla scrivania un voluminoso manoscritto. Portalo qui.

Manlio

Obbedisco. (Esce, quasi lentamente, a destra. Poi ritorna, e, in atto devoto, porge al professore il grosso manoscritto. – Quindi, si ritrae.)

Raimondo

(mostrando ai discepoli, col braccio un po' levato, lo scartafaccio) Ecco! (Lo pone sulla tavola. Si passa la mano sulla fronte.) Ascoltatemi, ragazzi miei. Un medico che ha modo di studiare sulla propria persona una delle malattie più gravi che affliggono l'umanità, è un medico privilegiato. Questo privilegio è toccato a me, e credo di averne attinto un grande profitto. Lo spirito di conservazione e il bisogno di difesa, che sono insiti nella nostra natura, in me hanno raggiunto proporzioni formidabili. Nessun uomo ha sentito quanto ho sentito io la necessità di prolungare la sua vita, e nessun uomo, per ritardarne la fine, ha mai combattuto con tanto accanimento! Io debbo a questo accanimento le preziose ricerche che ho fatte e la scoperta dei rimedii sperimentati. Per molto tempo, io sono riuscito a vincere il male che tornava all'assalto con un impeto singolare. Vi dico in coscienza che, se non avessi dovuto lottare contro quella violenza a dirittura eccezionale, la vittoria del medico sarebbe stata completa! (Breve pausa) E, chiuso in questo manoscritto, io conto di affidare a voi il frutto dei miei bizzarri studi. (Riflettendo tristamente) Così, sulle mie rovine sarà fiorita un'opera di salute per gli altri. (Indi, con balda animazione) Volete voi assumere il còmpito di utilizzare a pro dei sofferenti la mia eredità con la vostra vigoria giovanile, col vostro ingegno e col vostro fervore? (Dopo avere aspettata invano la risposta) Nessuno risponde?!.. Questo silenzio mi addolora.

Manlio

Questo silenzio, professore, non è che una protesta del nostro affetto. Io sono uno sciamannato a cui non dovrebbe essere permesso di chiamarsi vostro discepolo: tuttavia, ciò che sento io non è certamente diverso da quello che sentono i miei compagni, ed io ve lo esprimo alla meglio, per me e per loro. Il nostro affetto non crede, non può credere che voi dobbiate davvero abbandonarci per sempre. Voi ci parlate già con la serenità con cui ci parlano da un mondo lontano i morti che ci sono più cari; e invece noi vi siamo vicini e vediamo e ascoltiamo un uomo del quale non sapremmo negare la perfetta vitalità e da cui non ci sembra verosimile di doverci separare tra poco. Ma, certo, ogni parola detta da voi, appena uscitavi dalla bocca, diventa il pensiero migliore del nostro cervello, quasi che in noi realmente si trasfondesse qualche cosa di vostro. Questa, professore, è la risposta che possiamo darvi.

I fantasmi: Dramma in quattro atti

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