Читать книгу Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio - Страница 4

II.

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Erano passati alcuni giorni da quell'istante che mi rendeva felice, quando incominciai a scorgere una insolita mestizia sul volto della contessa Savina.

Oh come avrei voluto interrogarla, conoscere il motivo del suo turbamento, e consolarla. Impossibile!...

Io leggeva bene ne' suoi sguardi un'espressione d'affanno, ma come decifrarne la causa? Una sera pareva che non potesse staccarsi dalla finestra; il suo sguardo melanconico non prendeva più le precauzioni del solito giro per giungere a me, ma mi colpiva direttamente, e durava a lungo, languido e doloroso. Finalmente l'oscurità succedendo al crepuscolo, gli oggetti apparivano indistinti, io non distingueva più i suoi lineamenti, e solo discerneva la sua graziosa persona, flessibile come il gambo d'un fiore, appoggiata alla finestra; e mi parve di scorgere che mettesse una mano sugli occhi, e un'altra mano sul cuore.... e poco dopo scomparve.

All'indomani tutte le imposte del palazzo erano chiuse, essa era partita. Partita da Milano!... e le carrozze continuavano a circolare nelle vie, la gente andava e veniva come al solito, tutti i negozi erano aperti, il sole brillava sulle aguglie del duomo.... eppure Milano mi pareva morta, le strade squallide, il cielo buio, la folla un assembramento di fantasmi. Mi sembrava impossibile che la vita potesse ancora durare in quel vuoto, mi pareva che le anime dei miei concittadini fossero uscite dalla città, e che i corpi continuassero materialmente il loro giro automatico in un mondo spento. Entro di me era uno sbalordimento, una malattia dell'anima, dalla quale s'era staccata una parte, e la migliore. Vagai tutto il giorno per le vie come un insensato, urtando i passanti, guardando macchinalmente le carrozze, ove mi pareva che sedessero donne di legno cogli occhi di vetro.

Gli organetti mi mettevano in fuga, la musica mi batteva nella testa come un martello, gli uomini che ridevano mi parevano matti, e mi facevano paura.

Mi trascinai a casa per l'ora del pranzo, pensando che un ritardo avrebbe potuto far ricadere malato mio zio, e mi misi a tavola senza poter inghiottire un boccone. Alle sue interrogazioni risposi confusamente accusando un dolore di capo.

Dopo pranzo la Veronica venne a raccontarci come la cosa più naturale del mondo, che i nostri vicini erano partiti per la campagna. I conti di Brisnago lasciavano Milano ogni primavera, e non ritornavano che alla fine d'autunno. Io non ne sapeva nulla. Avevo veduto la Savina per la prima volta nel passato novembre, e avanti quell'epoca ignoravo perfino chi abitasse il palazzo, e non mi accorgevo se fosse chiuso od aperto. Dopo di averla veduta, non vidi altro che lei sola in tutto Milano, e dentro il mio cuore. Non mi ero mai interessato di conoscere la sua famiglia, il padre, la madre, i parenti. Vedevo bene una signora attempata al suo fianco, nel salotto o in carrozza, ma la vedevo come un'ombra, senza arrestarvi sopra nè l'occhio, nè il pensiero.

Le notizie di Veronica mi sbalordivano, come qualche cosa di straordinario, tanto mi pareva impossibile che Savina fosse una donna come le altre.

Alla sera nel mio letto, pensando ai lunghi mesi che avrei dovuto passare nella solitudine, inondai il mio guanciale di lagrime, e durai alcuni giorni trasognato e ingrugnito.

La partenza di mio zio fu il primo diversivo che venne a mettermi nuovamente in comunicazione colle cose volgari della vita. Malgrado l'opposizione insistente di Veronica, il dottore aveva perseverato nella sua opinione, dimostrando la necessità di mandare mio zio ai bagni di Bormio. Essendo molti anni che non visitava la sua casetta in Valtellina, appigionata a un vecchio maestro di scuola, mio zio contava arrestarsi due giorni dal parroco del villaggio di X**, e poi di passare al paese dei bagni.

I preparativi della partenza furono lunghi e laboriosi. Da un mese non si parlava d'altro, mio zio prendeva continue informazioni sulle ore della partenza e dell'arrivo delle vetture, e sulle fermate, i prezzi dei posti, le coincidenze dei battelli sul lago, sul viaggio da Colico a Bormio, sui locali, e il regime dei bagni e le analisi chimiche delle acque. Poi enumerava i beneficii, gl'inconvenienti, i pericoli, i disagi della cura ordinata, le speranze che dovevano sostenerlo all'impresa. Veronica apparecchiava i sacchi da notte con tutte le precauzioni immaginabili, mettendo in ordine i tabarri di varie gradazioni, e tutti gli accessorii occorrenti, le pastiglie per la tosse e la magnesia calcinata, il tabacco da naso e i fiammiferi. Si prendevano note per non dimenticare gli oggetti indispensabili, per ricordarsi le minime precauzioni, per seguire a puntino le raccomandazioni del medico.

La diligenza per Como partiva alle dieci, e al giorno fissato mio zio mi fece svegliare col lume, prima del levare del sole, per tema di trovarsi in ritardo avendo mille commissioni da darmi. Abbiamo lasciata la casa un'ora prima della partenza; preceduti da un facchino che portava il bagaglio e l'ombrello, e seguiti fino alla porta dalla Veronica, che piangeva raccomandando a Monsignore di guardarsi dalle correnti d'aria, dai cibi pesanti, dal freddo e dal caldo, chiedendogli se avesse in saccoccia la scatola, gli occhiali, il portafogli, i guanti di lana, pregandolo di scriverci subito appena giunto.

Egli voleva fare il disinvolto, ma si vedeva dalla sua fisonomia che sentiva tutta la gravità dell'impresa. Voleva rassicurarci, ed era più agitato di noi e camminava rammentandoci le sue commissioni, la lettera al Cancelliere arcivescovile, il libro a Monsignor Decano, un piccolo pagamento, una mancia, i saluti all'abate X** e a sua sorella.

Finalmente quando piacque a Dio si giunse all'ufficio della diligenza. Colà mille domande calorose agli impiegati che rispondevano freddamente, senza nemmeno alzare la testa dai loro registri. Raccomandazioni iterate ai facchini sul collocamento del bagaglio, che gettavano sulla carrozza col capo ingiù e con tale sguaiataggine da far raccapricciare la Veronica se li avesse veduti. Quando i viaggiatori salirono in carrozza, mio zio mi diede due grossi baci sulle gote, io gli raccomandai di aver cura della sua salute e rimasi fermo sulla via, rispondendo a' suoi saluti, ed ai suoi cenni fino a che la vettura scomparve. Allora mi avvidi che volevo bene a quel povero vecchio, sentendo come un groppo che mi strozzava la gola. Talvolta io lo trovava noioso, ed anche ridicolo; ma tali passeggiere impressioni non mi rendevano ingrato verso colui che mi aveva raccolto come un figliuolo, e mi colmava di benefizi. La vita comune ci avvezza all'affetto, ma le separazioni lo rivelano. Ritornando sui miei passi io faceva caldi voti per la sua salute, e pregava il cielo di rimeritarlo del bene che mi aveva prodigato.

La casa mi parve deserta senza di lui, e la Veronica ed io non eravamo i soli a provare quel vuoto prodotto dall'assenza; anche il suo gatto prediletto lo andava cercando per le stanze, miagolando con affannosa insistenza. Povera bestia! io che prima non lo guardava nemmeno, sentivo il bisogno di carezzarlo, e di dargli qualche bocconcino in ricompensa dell'affezione che dimostrava pel suo buon padrone.

Oh! la vita è tutta un intreccio d'affezioni e di distacchi, di legami e di lacerazioni, di conquiste e di sconfitte, e il cuore invecchia, come il veterano che ha perduto le gambe sui campi di battaglia.

Ho passato l'estate studiando ed apparecchiandomi agli ultimi esami, che ebbi la fortuna di compiere felicemente procurandomi la soddisfazione di annunziare con una lettera a mio zio, che avevo ottenuta la patente di maestro, con attestati di lode.

Finite le occupazioni scolastiche, ripresi con grande alacrità la mia tragedia, per dare qualche sfogo alla passione che mi esaltava.

L'espressione d'un amore represso mi faceva sgorgare dei versi ispirati, e quantunque il palazzo Brisnago fosse sempre chiuso, la divina mia musa mi appariva come in celeste visione; la lontananza aveva idealizzato il mio amore, io la vedeva coll'immaginazione, circondata da un'aureola di luce, mandarmi un pensiero, che attraversando rapidamente lo spazio giungeva nella mia cameretta come un raggio vivificante.

Un giorno divagavo la mente in quel modo fantastico che sorrideva alla mia solitudine come un preludio di gloria e d'amore, quando la Veronica, spalancata violentemente la porta, mi annunziò il ritorno dello zio, correndo precipitosamente giù dalla scala per incontrarlo. Scosso dall'ebbrezza de' miei pensieri, come un uomo destato improvvisamente dal sonno, gli corsi incontro barcollando. Egli si gettò nelle mie braccia e mi strinse affettuosamente sul cuore. Mostrava un aspetto floridissimo. Il dottore aveva avuto ragione, il viaggio e i bagni gli tornarono utilissimi. Mi disse che da principio ebbe a soffrire qualche incomodo per le mutate abitudini, ma poi l'aria dei monti, l'esercizio, il buon regime e la lieta compagnia lo ristabilirono perfettamente in salute.

Finiti i reciproci abbracciamenti, e soddisfatta pienamente la curiosità di Veronica intorno ai minimi incidenti dell'assenza e del viaggio, mio zio mi prese per mano con insolita gravità, mi condusse nello studio, chiuse la porta, si sedette sulla sua vecchia e prediletta poltrona di pelle, mi fece sedere vicino a lui, e con accento affettuoso incominciò a parlarmi in questi termini:

— La lettera che mi annunziava il risultato finale de' tuoi studi mi ha portato somma consolazione, e desideravo vivamente di tornarmene a casa per farti a voce le mie congratulazioni. Hai finito lodevolmente la prima parte della vita, quella che apparecchia l'avvenire, quella dalla quale dipende in gran parte tutta la nostra esistenza. L'età matura e la vecchiaia possono considerarsi come legittime conseguenze della gioventù. Le prime impressioni riescono più durevoli; appunto perchè sono le prime esse trovano il campo libero e fresco, la natura ingenua, l'età opportuna a ricevere ogni forma. Nella quiete e nella solitudine di questa casa, tu non hai ricevuto che buone impressioni, e le hai coltivate collo studio assiduo; le lunghe ore passate nella tua cameretta daranno i loro risultati, ne sono sicuro. Ora è giunto il tempo che devi entrare coraggiosamente nella vita sociale, e prendere il posto che ti è destinato dalla Provvidenza. Ci hai tu pensato, Daniele?...

— Ci ho pensato sovente, — io risposi, — e spero, caro zio, che un giorno non avrà a pentirsi di avermi raccolto in casa, permettendomi d'attendere agli studi.

— Ne sono sicuro e spero bene tanto della tua condotta morale, quanto della tua cultura. Ma per giungere ad una meta bisogna mettersi in istrada, e compiere il dovere che il Signore prescrisse ad Adamo: « mediante il sudore della tua faccia, mangerai il tuo pane. »

— Sono pronto, — risposi, — a dimostrarle la mia buona volontà alla prima occasione....

— L'occasione si presenta opportuna, — egli soggiunse, — e appunto la tua lettera ti aperse la porta....

— Come mai?...

— Io la comunicai ad alcune persone influenti, che mi accordarono la loro benevolenza, vivendo in rapporti quotidiani nello stabilimento balneare di Bormio, e mi promisero il posto di maestro appunto nel villaggio di X**, ove andresti ad abitare la mia casetta....

— In Valtellina?...

— In Valtellina! Il vecchio maestro mio locatario ha ottenuta una pensione dal Comune, e si ritira a Sondrio coi suoi parenti. Io pongo a tua disposizione la mia casetta e i pochi campi, una sommetta di denaro pei necessari ristauri, ti raccomando al mio buon amico il parroco don Vincenzo Liserio, ed all'ottima famiglia Bruni, che conosco da tanti anni, e te ne vai a vivere beato e felice in quell'aria elastica delle montagne che stuzzica l'appetito e conserva la salute.... Ecco quanto mi premeva di comunicarti, e credo che sarai contento di così bella notizia!...

Rimasi sbalordito, e senza parole. Pensando alla finestra del palazzo Brisnago, che si sarebbe fra poco riaperta, alla riapparizione della divina fanciulla, alla felicità di rivederla e di riprendere quelle soavi contemplazioni, tanto indispensabili alla mia anima, quanto l'aria ai miei polmoni, Milano mi appariva in tutta la sua bellezza. Io vedevo come in un sogno rapido, intenso, tutti gli splendori della città, il lusso, i corsi, i teatri, una scena spettacolosa irradiata da uno sguardo che animava ogni cosa, mentre le parole dello zio m'indicavano confusamente e lontano un povero villaggio deserto al piede delle Alpi, con un orizzonte di montagne nevose nel fondo.

Mio zio mi guardava in silenzio, aspettando tranquillamente la mia risposta. Io sentiva tutto l'orrore della mia posizione, ed una lotta terribile si agitava nel mio animo. Finalmente, vedendomi esitante, egli soggiunse:

— Io confesso che aspettavo tutt'altra accoglienza alla mia proposta, e mi sorprendo assai della tua esitazione.

— Caro zio... l'idea di abbandonare Milano mi opprime talmente, che forse mi sfuggono i vantaggi della proposta che mi fa. Un collocamento che mi permettesse di continuare a vivere presso di lei sarebbe il mio più ardente desiderio, ma allontanarmi dalla sua casa, e da Milano, io solo, per recarmi in un ignoto villaggio, è un progetto che mi spaventa... le confesso ingenuamente la verità....

— Ma come vuoi che un giovane appena ottenuta la patente di maestro trovi il modo di collocarsi a Milano? questa è davvero una strana pretesa! Bisogna che ciascheduno percorra la propria strada, incominciando dai primi passi; quando avrai acquistati dei titoli maggiori potrai ottenere degli avanzamenti, e coi meriti e il tempo ritornare anche a Milano. Ma dovendo incominciare con un posto modesto, dimmi ove potresti essere più felice che in un villaggio, nel quale trovi una casa e dei campi che ti vengono ceduti gratuitamente, e dei vecchi amici della nostra famiglia disposti ad accoglierti colle braccia aperte, come un'antica conoscenza?... Tutti non hanno di queste fortune... ma nessuno sarebbe così difficile di contentare... e devo dirtelo francamente, nessuno tanto ingrato verso la sorte!...

Il malcontento di mio zio era evidente, e d'altronde l'obbligo di lasciare Milano mi sembrava che corrispondesse ad una sentenza di morte. Tuttavia per rinunciare ad un impiego, con l'aggiunta di eccezionali vantaggi, ci volevano delle ragioni importanti. Diventava inevitabile la necessità di manifestare il vero motivo che metteva ostacolo alla mia riconoscenza per questo nuovo benefizio offerto con tanta cordialità. E mi parve che l'amore irresistibile che accendeva il mio cuore dovesse giustificare pienamente la mia condotta, e spiegare la fede che animava i miei lavori letterari, i soli che potessero aprirmi la strada della fortuna. Pensai dunque che fosse giunto il momento d'aprire sinceramente il cuore a chi mi teneva luogo di padre, pensai che la mia ingenua confessione l'avrebbe commosso e convinto, e che avrei trovato nel suo cuore generoso un consiglio e un aiuto. Deciso a tale rivelazione, ruppi il silenzio colle seguenti parole:

— Zio!.. la mia gratitudine per tutte le bontà che mi ha prodigato avrà fine colla vita.... Ma io non posso lasciare Milano; la mia partenza è impossibile. Un vincolo superiore alla volontà decide del mio destino!... Io non sono più padrone di me stesso!...

Il povero canonico cogli occhi spalancati dalla sorpresa, colla bocca semichiusa, mi fissava in volto attentamente senza pronunziare parola, ma il suo sguardo doloroso e severo m'interrogava con ansiosa inquietudine. Sentii la necessità di abbreviare le sue pene, e soggiunsi:

— Non tema nulla per la mia onestà, non ho commesso veruna azione malvagia, la coscienza non mi rimprovera alcuna colpa... ma io amo, amo teneramente una fanciulla, e tutte le mie aspirazioni tendono a meritarmi la sua affezione.... abbia pietà del mio cuore....

Mio zio si alzò in piedi, e fece un giro per la stanza, come se volesse acquetare l'animo esagitato, prima di rispondermi. Io pure m'ero alzato da sedere, e diritto in un angolo della stanza, rivolto verso il mio giudice, colle mani giunte e con voce commossa, andavo ripetendo queste parole:

— Abbia pietà del mio cuore.

Dopo alcuni giri, egli mi si arrestò dirimpetto, esclamando con parole interrotte:

— Non me l'aspettavo... così presto!... Ah gioventù, gioventù! che non sa mettere freno alle sue passioni, che si lascia trasportare facilmente in balìa del pericolo... che non diffida dei precipizii!... mah!.. fragilità dell'umana natura!...

E continuava i suoi giri. Dopo qualche sospiro che parve sollevarlo da un peso, raddolcendo a poco a poco la voce, come un uomo rassegnato che ha preso una determinazione decisiva, soggiunse:

— Ebbene... pazienza!... pazienza!... vedremo di accomodare anche questa.... Sei molto giovane... ma privo di famiglia... e talvolta una buona compagna può salvare un giovane da pericoli gravi... Iddio benedice le buone famiglie... e il mio desiderio è di vederti contento.

A tanta bontà caddi ginocchioni ai suoi piedi, io sentiva la riconoscenza fino all'entusiasmo, la vita mi sorrideva, presi le mani di mio zio e le ricopersi di baci, e vidi due grosse lagrime che scendevano sulle guance rugose del povero vecchio, commosso dalle mie dimostrazioni affettuose. Io mi sentiva rinascere.

Poi dopo breve sosta, guardandomi con occhio benevolo,

— Su via, — mi disse, — ora puoi completare la confessione, e dirmi senza altre ambagi il nome della tua innamorata!

Mi alzai, e sorrisi ingenuamente, ma esitavo a pronunziare il suo nome. Egli mi fece coraggio dicendomi:

— Su via, sbrigati... andiamo alla fine.

Allora io dissi balbettando:

— È la contessa Savina Brisnago....

Non mi è possibile descrivere l'effetto prodotto sullo zio dalle mie parole.

Dapprima rimase come istupidito dall'impreveduta sorpresa, poi diede in uno scroscio così impetuoso e violento di risa, che temetti per un istante che gli avesse dato di volta il cervello. Furono tre assalti successivi, così clamorosi, così sbardellati, e irresistibili, che lo facevano evidentemente soffrire, ma non poteva calmarsi. Si contorceva sopra una sedia, convulso; pareva che si calmasse un istante, soffiava e ansava, e poi già un altro assalto più sganasciato del primo, accompagnato da singhiozzi e da lagrime... una vera tortura.

Ritto, immobile, insensato, io era rimasto al mio posto, e un brivido mi percorreva le membra, come se mi fosse caduta addosso una doccia d'acqua gelata.

— Mio Dio!... non ne posso più... — furono le prime parole di mio zio... poi il pover'uomo mi domandava scusa, voleva riprendere la sua serietà, ma ricadeva nelle risa. Dopo una lunga vicenda di soste e di ricadute, finalmente giunse a calmarsi intieramente, e mi disse:

— Vedi, Daniele, non è per offenderti, ma la tua ingenua rivelazione mi riuscì così impreveduta, così strana, così esorbitante, che ne rimasi colpito, e poi una convulsione irresistibile mi assalì con tale violenza, che credevo morire. Che vuoi?... se tu fossi uno sciocco, non mi sarei sorpreso di nulla, ma colla tua intelligenza, col tuo buon senso, colla tua modestia e moderazione in ogni cosa, vederti così tranquillamente annunziarmi il nome della contessa Savina come la cosa più naturale del mondo... ne sono rimasto colpito... e mi hai fatto terribilmente soffrire.... Ora che è passata, ti prego di dirmi, come mai ti è entrata in testa una simile dabbenaggine!... Tu non ignori certamente il numero di milioni attribuiti alla famiglia Brisnago?...

— Non ci ho mai pensato....

— Non hai mai veduto i dodici cavalli delle scuderie, il lusso degli equipaggi, lo sfarzo signorile della casa, i numerosi domestici....

— Ho veduto... e non ho veduto... ho veduto materialmente cogli occhi, ma non ci ho mai arrestato il pensiero. Non ho mai pensato nè all'ineguaglianza sociale che ci divide... nè alla mia miseria... nè alla loro opulenza... ho amato! ho adorato con entusiasmo... ecco tutto!

Allora raccontai distesamente a mio zio i più minuti particolari della mia cieca passione, gli sguardi modesti di lei, ma perseveranti che mi colpirono, tutti gli atti che interpretai in mio vantaggio ed agitarono il mio cuore, l'evidente gelosia dei fiori appassiti, il mazzetto raccolto in giardino, la mestizia manifestata la vigilia della partenza, l'addio misterioso della sera... la mia disperazione... e le mie speranze.

Egli mi ascoltò con profonda attenzione, e poi mi disse:

— Pur troppo nei giovani l'amore nasce da un nonnulla, vive di tutto, e non ragiona mai. Le fanciulle hanno l'istinto innato di farsi ammirare. Si fanno belle, vogliono piacere a tutti indistintamente, e credono che uno sguardo non dica nulla; poi, quando travedono d'aver colpito, provano una soddisfazione che le spinge a rinnovare la prova e ignorando le conseguenze della replica, a poco a poco si avanzano con leggerezza nella via pericolosa spinte da sentimenti diversi di simpatia, d'ambizione, di riconoscenza; animate al giuoco fatale dalla voluttà del mistero.... In vero non cercano altri trofei che quelli dell'orgoglio soddisfatto, e per ottenerli slanciano delle freccie; queste possono colpire gravemente, ma i feriti non hanno altro vantaggio che di passare all'ambulanza, e soffrirne con rassegnazione i dolori, mentre un eroe predestinato dalla sorte trionfa senza aver combattuto. Talvolta avviene che qualche audace assalitrice rimane vittima della propria imprudenza, ed allora porta per tutta la vita la cicatrice d'una ferita ricevuta scherzando nei ludi giovanili. Per questo il candore dell'anima è tanto raro e prezioso, e la prudenza è una delle prime virtù che le madri dovrebbero insegnare alle fanciulle. Tu sei rimasto vittima, povero Daniele, d'uno di questi filtri sociali tanto diffusi, e tanto pericolosi, dai quali si guarisce però colla ragione e col tempo. Ma quando si rimane feriti sul campo di battaglia, bisogna ritirarsi, per evitare inutilmente nuovi pericoli. Questa tua disgrazia aggiunge nuovi e più forti argomenti alla tua partenza. Non tarderai molto, io spero, ad aprire gli occhi; intanto ritirati tranquillamente, riposa il tuo spirito, richiama il senso comune al suo ufficio... un altro giorno parleremo con calma del resto.

Uscii dallo studio di mio zio vergognoso e confuso della triste figura che avevo fatto; e non avendo più forza da sostenere una seconda diatriba, non dissi una parola sulle mie speranze letterarie; il modo col quale era stato accolto il mio amore non m'incoraggiava a parlare della gloria con un canonico che non poteva conoscere nè una cosa, nè l'altra.

Ritirato nella mia stanza, mi gettai sul canapè, piansi dirottamente, e mi addormentai oppresso dalla stanchezza.

Il bacio della contessa Savina

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