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SULLA RIVOLUZIONE DI MILANO
Seguita nel giorno 20 aprile 1814

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MEMORIA STORICA.28

Dopo la ritirata di Mosca, tutte le molle politiche de' governi di Francia e d'Italia perdettero all'istante la loro elasticità. Il sentimento della potenza di Napoleone a rapidi gradi si estinse, e cessò l'illusione che la fortuna e la vittoria marciassero costantemente alla testa delle sue armate. Gli animi dei popoli sempre piú s'indispettirono per l'aumentato rigore delle finanze, e per l'accresciuto bisogno della coscrizione desolatrice delle famiglie. Ciò non ostante, il rovesciamento totale del sistema non entrò nei piani delle Potenze, e molto meno nelle viste dei sudditi, come quello che non sembrava verificabile senza rinnovare gli orrori di una rivoluzione. Miglior partito parve quello di sostenere il Governo e di somministrargli i mezzi, onde colla gloria delle armi ottenere finalmente una pace onorevole e solida. Non vi fu perciò sforzo che si risparmiasse. Artiglieria ed armi si fabbricarono da ogni parte con un'attività che non ha esempio. La coscrizione ebbe il suo effetto quasi per intero, si offrirono persino gratuitamente dai corpi e dai privati cavalli in gran numero e guerrieri.

Lo spirito italiano, non mai versatile, ma attaccato sempre tenacemente ai suoi principi, superò, alla debita proporzione, la Francia nelle volontarie oblazioni. Nel Regno d'Italia si ebbe per istimolo ulteriore, che alla pace generale cessasse l'esercizio di un Governo per procura coll'organo di un Viceré, e che sul capo del Principe Eugenio passare ne potesse indipendente la corona. Non vi è dubbio che a quell'epoca concorressero nel Principe l'amore ed il desiderio dei popoli. Non vi è dubbio che si avesse di lui l'opinione di un buono e zelante amministratore, di un uomo di Stato, di un prudente e generoso condottiero di eserciti, educato ad una grande scuola. A ciò si aggiungeva la rispettosa affezione che si era conciliata la Principessa sua consorte, a cui tutti offerivano i loro omaggi, chi per la sua pietà e per le sue virtú, chi per le sue grazie e la sua amabilità, chi per le beneficenze che a larga mano spargeva, specialmente sulla classe degli indigenti che qual rifugio e madre la riguardavano.

Niun debito si faceva al Principe del complicato sistema di amministrazione, della coscrizione, e soprattutto della gravezza delle imposte. Il solo Re ne sopportava l'odiosità, non che, rapporto alle finanze, quel Ministro, che aveva la bassezza di prostituire i suoi sommi talenti nel secondarlo e facilitargli i mezzi di esecuzione. I sentimenti del suo segretario degli ordini erano conosciuti da pochi nella capitale, da pochissimi nei dipartimenti. Quest'uomo, tuttoché naturalizzato italiano con la sua ammissione al Collegio elettorale dei dotti, si crede che non abbia mai naturalizzato il suo cuore.

Furono i pochi uffiziali reduci dalla campagna di Mosca, che inserirono nell'animo degli Italiani i primi semi di diffidenza verso la persona del Principe. Questi lamenti, già disseminati abbastanza, crebbero a dismisura nel 1813, allorché fu miseramente l'Italia ancora il teatro della guerra. Non piú il solo uffiziale, ma dal generale al soldato si chiamarono tutti mortificati dal Principe, offesi dal suo primo aiutante. Saranno state forse calunniose alcune acerbe proposizioni poste in bocca dell'uno e dell'altro, ma pure da moltissimi si recitavano come vere. Fece dispiacere il vedere trascurato il primo ed il piú provetto tra i generali italiani, che dal Nord al Sud ha sempre associata la sua carriera alla gloria delle armi italiane.

Ad alienare gli animi dal Principe concorse un terzo francese, il suo segretario di gabinetto, passato, contro il prescritto della costituzione, alla direzione generale delle poste. Egli con la polizia esercitata negli ultimi tempi sul carteggio, col trattenere ed anche disperdere le lettere, specialmente de' negozianti, portò al colmo il malcontento in questa classe sí benemerita della società, la quale era già prima indispettita abbastanza per il sistema continentale e per l'incaglio totale di ogni ramo di commercio.

Altr'oggetto di avversione, e forse il maggiore, era negli abitanti della città di Milano, perché il governo ridondasse di forestieri, che spendevano in essa con i loro soldi, i quali venivano pure dai rispettivi dipartimenti, anche le rendite de' propri patrimoni. Unico paese in Italia, e forse in tutto il mondo civilizzato, ove in pochi si trovi una cordiale ospitalità, ed ove in moltissimi, specialmente fra i nobili, regna una decisa avversione contro i forestieri, e per forestieri quelli riconoscono che non sono oriundi della antica Lombardia Austriaca! Oggetto di gelosia e di rabbia erano i ministri ed il senato, quasi che tra sei ministri in Milano non se ne vedessero ultimamente due lombardi, due milanesi fra cinque dignitari, otto tra cinquanta senatori, quasi tutti i consiglieri di cassazione ed i giudici della Corte dei conti, la metà circa de' consiglieri di Stato, la maggior parte dei direttori generali, tutti i segretari generali dei ministeri e quasi tutti quelli delle direzioni, dieci tra ventiquattro prefetti, e cosí molto e molto piú nel restante, giacché la Corte era popolata di ciambellani, di dame di palazzo, di scudieri e di altri soggetti milanesi tutti al soldo della corona, e non vi era dipartimento nel Regno, che non contasse e giudici ed uno stuolo grandissimo d'impiegati della capitale. Volere un regno costituzionale, ed un corpo per conseguenza intermediario, e pretendere che i membri non fossero oriundi dei dipartimenti, è un concepimento, un assurdo tutto nuovo.

Erano gli animi in questo caldo allorché i successi delle armi delle Alte Potenze coalizzate sempre piú si moltiplicavano in Francia, e facevano veder prossimo un qualche decisivo avvenimento. Si permettevano i discorsi i piú allarmanti ne' luoghi pubblici, ne' caffè e nei teatri. All'annunzio poi dell'ingresso degli Alleati in Parigi, non ebbe piú ritegno la commozione. I primari patrizi milanesi, e quegli stessi che allora prestavano piú ligio il servizio alla Corte e maggiori ne avevano sperimentati i benefizi, correvano da ogni parte baccanti, esagerando i torti del governo, e per maggiormente dilatare l'allarme associarono a loro tre soggetti d'amplissima trachea, che alzavano con piú coraggio la voce. Un generale di brigata italiano, sdegnato di non aver avuto i desiati avanzamenti, un generale straniero al soldo italiano riformato per demeriti, un estero letterato che non sembrava attaccato a questo paese da altri vincoli che da quelli delle tante mense de' ministri alle quali era assiduo, questi furono i piú animosi apostoli della rivoluzione.

Bisogna credere che il Principe Eugenio, il quale gemeva in Mantova tra le gravi cure della guerra e tra le angoscie per l'incertezza della sua situazione, non fosse inteso di quanto si vociferava in Milano, ovvero bisogna convincersi che chi lo tradiva continuasse ad adularlo per non incontrare ostacoli all'esplosione della sua perfidia. La verità pur troppo non arriva che tardi e zoppa ai gabinetti dei principi. Egli, che si era mantenuto sempre costante e fedele nella sua direzione verso il proprio padre e sovrano, che aveva resistito a tutte le insinuazioni della politica, egli finalmente pensò ai destini del Regno, e forse anche a sé stesso, quando giunsero a sua notizia gli strepitosi avvenimenti seguiti in Parigi ne' primi giorni d'aprile e la singolar metamorfosi del primo corpo di quello Stato. Fu allora che nel dí 16 di aprile convenne in una capitolazione con il Feld Maresciallo Conte di Bellegarde, e mediante la cessione di alcune piazze ottenne una sospensione d'armi fino all'esito di una deputazione del Regno, da presentarsi alle Auguste Potenze coalizzate.29 Le sue viste palesi furono di far chiedere che il Regno fosse chiamato a parte della pace generale, proclamata all'Europa, e godesse finalmente della sua indipendenza: tanto apparve sulla sostanza della convenzione, tanto e non piú manifestò nella lettera scritta al duca di Lodi, resa poi da questo ostensibile alla commissione del Senato, e tanto assicurò ai deputati del Senato, quando a lui si presentarono in Mantova. È ben presumibile però che fosse tra i suoi desiderî che si domandasse per il suo capo la corona d'Italia. Fu almeno sicuramente questo lo sforzo dei ministri. Tra le persone piú addette ai suoi intimi consigli fu discusso sul modo di dare un carattere a tale deputazione e sulli stessi soggetti che dovessero comporla. Si sa che furono designati li generali Fontanelli e Bertoletti per l'armata, li conti Paradisi e Prina rappresentanti la nazione. Rapporto ai primi si ottenne facilmente l'adesione degli uffiziali, segno, checché si pretenda in contrario, che non aveva veramente perduto affatto il Principe il loro amore, o lo aveva ricuperato. Si decise di fare che il Senato autorizzasse i secondi, e qui si praticarono senza dubbio mezzi oscuri e subdoli. In niuno dei senatori era venuto mai meno il rispetto e l'attaccamento verso il Principe Eugenio, niuno aveva prestato fede alle voci accreditate nella piazza, e molto meno all'orgasmo dei nobili milanesi. Ma ognuno era penetrato dal sentimento de' propri doveri e da quello della rispettiva risponsabilità verso i suoi committenti, per non decidersi se non con gran ponderazione in un emergente cosí delicato e in un momento in cui l'attenzione e le congetture degli Italiani erano rivolte verso i Sovrani d'Austria e di Napoli, che quasi tutta occupavano e tenevano la penisola.30

In forza di un dispaccio del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della corona, fu convocato straordinariamente il Senato nel giorno 17 aprile. È rimarcabile che di un affare, a cui si pretese di attaccare un sommo mistero, se ne parlasse contemporaneamente ne' caffè, e piú nella platea del teatro della Scala, e che i soli senatori ne fossero all'oscuro, come quelli che tali luoghi non frequentavano. Fu letto un messaggio del duca di Lodi in cui, dopo aver fatto un quadro per verità molto vago della situazione del Regno, presentava al Senato un progetto di decreto per autorizzare una deputazione a chiedere a S. M. l'Imperatore d'Austria, e pel di lui organo alle Alte Potenze, la cessazione assoluta delle ostilità, l'indipendenza del Regno ed un re nella persona del Principe. Che non si macchinò, che non si disse, perché a sorpresa si adottasse la deliberazione proposta? Fermi i senatori nella loro massima, vollero che la materia si digerisse prima da una commissione di sette membri, la quale prendesse, siccome fece, i migliori schiarimenti dal duca di Lodi e riferisse. Sul rapporto della medesima fu adottata la deputazione per i due primi oggetti della cessazione delle ostilità e dell'indipendenza del Regno, esclusa la domanda del Viceré in nostro Sovrano, come diffusamente risulta dagli atti di quella seduta espressi nell'allegato num. 1 con gli analoghi documenti A, B, C. Pareva che i patrizi milanesi dovessero esser paghi del contegno dignitoso del Senato e della sua risoluzione. Se la loro volontà era quella dimostrata, che non si ricercasse il Principe in re, il Senato era stato del loro avviso. Indispensabile era la deputazione, per l'effetto della capitolazione col Feld Maresciallo Conte di Bellegarde. Sapevano tutti che a vuoto andarono le pratiche per la nomina de' conti Prina e Paradisi; sapevano che la scelta era caduta nel conte Guicciardi, uomo di Stato non secondo a veruno, il primo ed il piú acerrimo impugnatore del progetto del duca di Lodi; nel conte Luigi Castiglioni milanese, cavaliere di cui il solo nome bastava a giustificare la nomina. Si arrivò a spargere il dubbio, che le istruzioni date ai deputati dal duca di Lodi fossero divergenti dal decreto del Senato, quasi che questi fossero uomini da riceverle tali; quasi che le AA. PP. potessero ammetterle in contraddizione: tutto era artifizio e pretesto. Come i rivoluzionari erano prima de' senatori intesi del messaggio e del progetto del duca di Lodi, cosí mediante lo stesso mezzo conoscevano benissimo le istruzioni del medesimo, le quali a comune intelligenza si danno al num. 2, unitamente alla di lui credenziale per il principe di Metternich, ministro di S. M. l'Imperatore d'Austria, num. 3. La sola intenzione loro fu quella di rovesciare la macchina del governo, di figurare da popolo sovrano, di trattare in piena confidenza con i potentati della terra, di fissar essi i futuri destini del Regno, senza il concorso di tutti i rappresentanti del medesimo, che come forestieri non dovevano entrare a parte degli alti loro consigli, far circolar calunnie, assoldare gente facinorosa, insultare la rappresentanza nazionale, trascorrere rapidamente di delitto in delitto; tutto ciò doveva operarsi, onde giungere allo scopo proposto, e tutto ciò fu maturatamente macchinato nel circolo di alcune primarie famiglie, d'onde partí l'allarme disseminato ne' luoghi pubblici. Le prime sottoscrizioni del foglio che forma l'allegato al num. 5, possono spandere gran luce sull'orditura della presente catastrofe.31

Si farebbe un torto all'accortezza ed ai vasti talenti di chi presiedeva alla polizia dello Stato, se si supponesse che tante pratiche rivoluzionarie sfuggissero alla di lui vigilanza. Non si sa quindi concepire come egli o il Principe non vi provvedessero, mentre, essendo spogliata di truppe la capitale, poteva ottenersene in qualunque numero nella vicina Cremona e forse anche in Lodi. Non si spiega neppure come nel giorno venti, quando cadeva l'ordinaria seduta del Senato, si mandasse contro il solito alla custodia del palazzo, non l'ordinaria guardia, ma un picchetto non piú forte di otto o dieci coscritti, e cresce la maraviglia nell'essersi visto al portone del medesimo il capitano Marini, aiutante di piazza, che disse essere stato spedito per riparare qualche disordine che si temeva: qual riparo poteva opporre un solo uffiziale isolato, e neppur milanese?

Fu piú o meno piovosa la giornata de' venti aprile. Con tutto questo, verso un'ora pomeridiana, quando si radunavano i senatori, si videro nell'esterno del loro palazzo, sotto seriche ombrelle, una nobile corona di soggetti decorati e addetti per la massima parte alla Corte, da' quali tutt'altro poteva temersi che disordine; quivi era un conte Federico Confalonieri, marito di una dama di palazzo; quivi due fratelli Cicogna, l'uno ciambellano e scudiere l'altro; lo scudiere Ciani; quivi un Fagnani, che riuniva all'onore di ciambellano il rango di consigliere di Stato, e che, a spese del governo, aveva poc'anzi fatto il viaggio ed un lungo soggiorno in Russia; quivi, in uniforme, diversi uffiziali della guardia civica, tra li quali si distinse il capitano Benigno Bossi; quivi piú rampolli d'illustri famiglie, e Silva, e Serbelloni, e Durini, e Castiglioni, ed altri diversi. Si notò un uomo di alta statura con alle mani una breve scala, sulla quale uno degli astanti saliva all'arrivo di ogni carrozza, per riconoscere il senatore che era in essa. Si seppe poi esser quegli un domestico travestito di alcuno dei cavalieri surriferiti. All'arrivo de' senatori facevano plauso ad alcuni, accompagnavano altri con urli plebei e con fischi, e precisamente quelli che in Senato avevano nel dí 17 mostrato di aderire al progetto del duca di Lodi; tanto è vero che erano al pieno giorno di ciò che si era parlato e risoluto in quella seduta, e non era che per un indegno pretesto che calunniavano l'intero corpo, accusandolo di quello che con piú di due terzi di suffragi aveva escluso.

Al momento della convocazione, alla quale non erano intervenuti li conti Paradisi e Prina, si erano confusi intorno al palazzo, con gli altri astanti cavalieri, diversi uomini di truce aspetto, che poi si seppe essere sicari stipendiati, e molti altri del popolo chiamati dalla curiosità, e varie indistinte voci cominciarono a sollevarsi. Si riuní nella sua sala il Senato, ove doveva solamente farsi leggere ed approvarsi il processo verbale della seduta antecedente. Prima di procedersi a tale lettura ed all'appello nominale e mentre l'esterno rumore cresceva, partecipò il presidente, non officialmente, ai senatori, che il Podestà di Milano aveva spedito al duca di Lodi ed a lui la copia di un'istanza fatta alla Municipalità, in cui si chiedeva, che nell'attuale posizione del Regno si adunassero i collegi elettorali, per trattare in essi della cosa pubblica. Il Podestà diceva nella sua lettera di attendere su di essa le analoghe deliberazioni del Senato, allegati num. 4 e 5. La prima era firmata da 141 cittadini, e si dicevano per brevità ommesse molte altre firme. Erano firmati i primi il conte Pino generale di divisione, il conte Luigi Porro, il conte Giacomo Trivulzio, il conte Federico Confalonieri, il conte Federico Fagnani con la qualità di consigliere di Stato, il conte Giberto Borromei, Giacomo Ciani. De' consiglieri di Stato non vi era, oltre il conte Fagnani, che il conte Lodovico Giovio col solo carattere di elettore; vi erano il colonnello e molti uffiziali della guardia civica, tra i quali meritano attenzione il capo battaglione Pietro Balabio e il capitano Benigno Bossi: erano pure firmati nello stesso foglio il Podestà ed i Savi municipali.

In questo mentre chiese ed ottenne il permesso, e fu da un usciere introdotto nella sala il capitano aiutante Marini, il quale espose che gli ufficiali della guardia civica esclamavano ad alta voce di voler essi presidiare il Senato e difenderlo. Vi aderí il presidente e ne diede in iscritto l'autorizzazione, non sapendo neppure concepire il sospetto, che discendere si potesse all'infamia di tradire la fiducia dell'unico corpo di rappresentanza permanente del Regno, quando inerme si abbandonava in braccio de' cittadini della capitale, che ultroneamente offerivano assistenza e difesa. Ma il primo loro passo fu di accorrere con una forte e preparata pattuglia, e cacciare bruscamente e con una somma indecenza dai loro posti i soldati di linea, e quelli persino che erano all'immediata porta della sala della seduta.

Prima di quel momento niuno del popolo aveva ardito di penetrare nel palazzo, niuno aveva ardito di sforzare i soldati di linea che erano schierati alla porta. Il solo conte Confalonieri si era appressato piú degli altri, e la sola sua voce si ascoltava esclamando: «Noi vogliamo la convocazione dei Collegi elettorali, e che si richiami la deputazione del Senato!». Tutto che il capitano Marini gli insinuasse che fosse entrato in seduta e senza innalzare in istrada clamori plebei e sediziosi avesse manifestati ai senatori i suoi voti, rispose di non poterlo fare, perché destituito di carattere e di rappresentanza, ma intanto sempre piú sollevava la voce, ripetendo le cose stesse.

Non appena i soldati di linea si ritirarono nell'appartamento del custode, non appena il palazzo fu in balia della guardia civica, che fu dato l'adito indistintamente ai grandi, ai sicari ed alla plebe di penetrare in esso liberamente. Il conte senatore Verri si offrí di perorare al popolo, ed a lui si unirono li conti senatori Massari e Felici. Piú volte andarono e tornarono e riferirono sempre l'inutilità de' loro sforzi, perché non emergeva cosa volesse un popolo tumultuante che sollevava grida confuse. Il conte Verri dette in Senato una carta che disse essergli stata posta in mano da persona incognita e che non si ebbe tempo di leggere. Alcun senatore, che vi gittò sopra una rapida occhiata, vide che era scritta di carattere alterato, e nel primo paragrafo esponeva che, come la Spagna e la Germania avevano dato l'esempio, cosí doveva scuotersi dagli italiani il giogo francese.32 La moltitudine si tratteneva nella gran corte, e niuno si faceva lecito di salire il maestoso scalone del palazzo. Furono i civici ufficiali che la incoraggiarono, la spinsero, e già in un momento il gran portico contiguo alla sala della seduta ridondava di popolo. Di piú, due cavalieri erano alla porta della prima anticamera, e senza entrare in essa si limitarono a prestare il loro nobile officio ed introdurre a forza que' tali che alla medesima si avvicinavano. Finalmente si restituí l'ultima volta in seduta il conte Verri, e palesò che non restavano che due soli minuti a deliberare, o tutto era perduto. Si domandò cosa alla perfine si domandasse dai senatori. Gli uffiziali della guardia civica, e tra essi il capo battaglione Pietro Balabio, erano entrati nella sala con viso pallido, alteratissimo, come di uomini cui non erano famigliari i delitti. Il capitano Benigno Bossi esclamò ad alta voce che si voleva il richiamo della deputazione e la convocazione dei Collegi. Il presidente, sull'insinuazione di qualche senatore e senza alcuna precedente regolare deliberazione, scrisse: «Il Senato richiama la deputazione e riunisce i Collegi». Lo stesso capitano sortí dalla sala con questo foglio, e quindi, senza aver parlato con persona, come attestano gli uscieri del Senato, rientrò esclamando essere intenzione del popolo che si dichiarasse sciolta la seduta, e questo stesso scrisse di nuovo il presidente, con aggiungerlo in altro foglio in questi termini: «Il Senato richiama la deputazione, e riunisce i Collegi elettorali, ed è sciolta la seduta». Piú di trenta copie ne furono all'istante scritte dai segretari, dagli impiegati e dalli stessi uffiziali civici, che dopo averle fatte soscrivere dal presidente le recavano al di fuori.

Ciò conseguito si attendeva che fosse dissipato il tumulto; ma ben altre essendo le viste dei tumultuanti, crebbe anzi il disordine sempre piú. I senatori sortir dovettero da altra porta, e dietro di essi si affollò con impeto il popolo concitato. Il conte Confalonieri fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dal celebre Appiani, che con l'ombrello ruppe e gittò dalle finestre, dalle quali egli il primo cominciò a gettare le suppellettili della sala. Il suo nobile esempio fu avidamente eseguito dalla plebe. Sedie, tavolini, specchi, stufe, persino le persiane, le stesse porte, tutto fu fracassato e gittato in istrada. L'istessa sorte subirono i parati, i tappeti e parte delle carte e dei libri. Non erano ancora tutti i senatori fuori del palazzo che tutto era in preda al saccheggio, da cui fu solo in quel giorno risparmiata la segreteria, e l'appartamento del conte cancelliere. Niuno dei senatori fu offeso nella persona, alcuno solamente fu urlato di nuovo.

Cessò la depredazione e lo spoglio, allorché alcuno dei capi andò spargendo la voce che era tempo di portare la vendetta ed il furore contro il Ministro delle finanze. Tutto il popolo, ed alla testa di esso quelli che si coprivano di seriche ombrelle, corsero al di lui palazzo. Infelicissimo conte Prina! Egli era stato avvertito fino dal giorno innanzi di quanto si macchinava contro di lui; nella mattina fece ogni sforzo un di lui cugino per condurlo a Pavia nella propria vettura: impavido volle rimanere al suo posto, fidato nell'attività della polizia, nella facilità di reprimere una sommossa al suo primo scoppio, e nell'opinione invalsa sempre che l'ardore della plebe milanese fosse fuoco di paglia, ristretto, come si vede giornalmente nelle loro risse, a semplici parole, non estensibili ad eccessi di fatto. Tanto è vero che a niuno è dato di evitare il proprio destino, contro il quale non siamo trattenuti né dalle sollecitazioni di persone sensate, né dalla forza e dalla maturità del raziocinio, né dalla evidenza stessa del pericolo! Non fu che la presenza del medesimo che inducesse il conte Prina a pensare finalmente alla sua salvezza: atterrate le porte, fuggiti i domestici, invaso da ogni parte ed occupato il palazzo, fu allora che si risolvette a nascondersi; ma non era piú in tempo, non vi rimase piú scampo veruno. Inutilmente il mantovano Barone de Peyri, generale di divisione, si cacciò in mezzo alla folla in uniforme e tentò di salvarlo; nulla ottenne se non qualche momento di sospensione, e terminò col farsi strappare le fibbie d'oro dalle scarpe e le catene degli orologi. Il conte Prina fu rinvenuto, fu preso, denudato, percosso, strascinato, e rovesciato a capo in giú da una finestra.

Rifugge l'animo a rammentare la lenta carneficina e il feroce trastullo fatto a sangue freddo di un uomo cui pure niuno niega che fosse per ingegno, per facondia e per dottrina chiarissimo, e della di cui onestà ha fatto fede non dubbia il ristretto patrimonio lasciato. Mentre il basso popolo si è abbandonato al saccheggio del palazzo, dopo averlo spinto gli altri nell'atrio di una casa contigua, gli hanno fatto percorrere tutta la contrada del Marino sino alla piccola piazza del teatro della Scala: questa e quella erano ricoperte di agitate ombrelle vario-colorate. Vicinissimi erano il palazzo della polizia, quello del ministero della guerra, quello dell'intendenza ove un folto numero si era raccolto di guardie di finanza. A tutti fu interdetto di accorrere in suo aiuto; chi solo aveva mezzi ed autorità per salvarlo, se si fosse prestato con un atto di volontà deliberata, e non con ciarle artificiosamente vaghe, anzi allarmanti, passeggiava in una contigua contrada in compagnia del conte Luigi Porro. Un buon negoziante di vino, esso solo ascoltò un sentimento di pietà, ed in un opportuno contratempo lo strappò dalle mani della moltitudine e nella sua cantina il nascose. Furenti erano gli ammutinati sul timore di averlo perduto. Scoprirono l'asilo, minacciarono d'incendio il mercante, finché l'infelice Prina, visto il pericolo del suo benefattore e non isperando per sé altra risorsa qualunque, si offerí in istrada alla ferocia de' suoi assassini, e «sfogatevi, disse, sfogatevi pure sopra di me, poiché sono già immolato alla vostra rabbia; ma fate almeno che sia l'ultima questa vittima». Estreme, memorande parole, dopo le quali non ebbe piú lena di proferirne. Fu allora che in mezzo agli scherni ed agli insulti volle ciascuno la sua parte di gloria nel percuoterlo coi puntali delle loro ombrelle. Per circa quattro ore gli fu fatto desiderare un colpo decisivo, che terminasse lo strazio. Egli è morto e strascinato per la città con torchi accesi, e trasfigurato tanto che aveva perdute le forme e l'effigie. È fama che il giudice di pace, nell'ispezione fatta del suo cadavere, non trovasse chi lo riconoscesse, come che non trovassero i professori tra le tante contusioni una ferita, una offesa veramente mortale: egli è morto d'angoscia e di spasimo.

Intanto chi può descrivere lo spoglio totale del suo palazzo, e la veemenza e la prontezza della rapina? In poche ore non vi erano piú suppellettili non meno ordinarie che preziose, non una porta, non una finestra, non una pianta, non una persiana, un vaso, un utensile nell'amenissino giardino annesso. Tant'oltre si spinse la depredazione e la devastazione che tutte furono schiantate e rubate le moltissime ferrate, e cosí i calcani delle porte, i chiodi, i condotti, i canali dei tetti. I tegoli stessi furono sollevati tutti e scomposti, per la smania d'indagare nel tetto alcun tesoro nascosto. Insomma, un ampio, maestoso e ricco palazzo pubblico fu ridotto in brevi istanti uno scheletro trasparente, che il governo ha poi giudicato miglior partito di far demolire e formarci una piazza, la quale offrirà maggior comodo alle carrozze affluenti al vicino teatro.

Il Podestà di Milano, in mezzo all'imponenza di tanta sciagura, non trovò altro compenso che far stampare ed affiggere il decreto estorto al presidente del Senato, e successivamente pubblicare egli stesso un proclama, in cui dichiarò che il generale Pino andava ad assumere il comando delle forze della capitale, che i Collegi elettorali de' dipartimenti non occupati dalle armi delle AA. PP. coalizzate si sarebbero riuniti in una sola camera, al piú tardi nel giorno 22 dello stesso mese, e che il Consiglio comunale della capitale si radunava nell'indomani, tenendosi in seduta permanente sino a che le circostanze lo esigessero, e che i reclami tutti si dirigessero alla Municipalità che li avrebbe fatti pervenire ai Collegi.

La giornata del ventuno fu una forse delle piú allarmanti e terribili, che abbia mai veduto Milano. Il folto popolo, allo spuntar del giorno, era in aspetto sedizioso per le contrade tutte della città. Le botteghe chiuse nella maggior parte, le guardie della finanza avevano abbandonate le porte della città ed i cosí detti dazî, un immenso numero di gente di campagna, armati altri di bastone, altri di lunghi chiodi resi acutissimi, scorreva d'ogni intorno, designando con lo sguardo la preda, e ne' complotti le persone de' proscritti e le case da saccheggiare. Si è detto che alcuni siano stati trovati muniti di pugnali, chi di ben organizzati capestri. Invano il Consiglio municipale pubblicò di avere nominata una Reggenza provvisoria, composta de' signori generale Pino, Carlo Verri, Giacomo Mellerio, Giberto Borromei, Alberto Litta, Giorgio Giulini e Bazzetta; invano il generale Pino pregò, in un suo proclama, che si avesse fiducia in lui e che si stesse pacifici spettatori delle determinazioni che si andavano a prendere dalle AA. PP.; invano il corpo municipale si espresse, in altra stampa, che il popolo poteva darsi quella forma di governo che piú desiderava, che la sua libera volontà fosse partecipata ai Collegi, i quali avrebbero adottati quei mezzi, che il popolo stesso avesse giudicati piú opportuni alla sua felicità; invano il Vicario capitolare esortava nelle viscere di G. C. alla tranquillità, ordinava pubbliche preci con un triduo; invano lo stesso generale Pino, per salvare la forse minacciata persona del duca di Lodi, espose quelle dei senatori, avendo dichiarato in altro proclama che il duca non aveva avuto parte alcuna negli affari seguiti in Senato, poiché era in quei giorni gravissimamente infermo, e che le carte andate in Senato erano state fatte da tutt'altre persone, e neppure firmate da lui; invano il direttore delle privative e dei dazî di consumo, in un suo avviso che di concerto fu fatto col generale Pino, col cavaliere Podestà e col Consiglio comunale, aveva ridotto alla metà il prezzo dei sali e dei tabacchi e la tariffa dei dazî consumo; invano il primo atto della Reggenza fu quello di abolire la tassa del registro.

Tutto fu inutile: non era opinione politica, non desiderio di una piuttosto che di un'altra forma di governo, non animosità contro il medesimo o contro il Principe, non sentimento di pubblico bene, che animasse la moltitudine.33 L'unico centro del voto generale era la rapina e la depredazione, e già si era tornato a compiere il guasto del palazzo del ministro e si era tentato in quello del Senato; fortunatamente il rimedio del male emerse dal male stesso. Emporio ricchissimo in merci, in derrate, in danaro era la dogana generale, ossia il cosí detto Dazio grande nel palazzo del Marino, ove e fondachi e doviziosi depositi erano affidati dal commercio milanese, essendovi pure gli uffici del ministero delle finanze e di varie sue direzioni generali. Vi si diressero gli ammutinati, sotto pretesto di disperderne e distruggerne le scritture. Fu allora soltanto che, nell'affannosa trepidazione del loro cuore, si mossero ad un tratto i negozianti, con una energia imperiosissima. L'unirsi a tal voce i padri, i figli, i giovani, i garzoni, gli amici, i conoscenti, il correre ai quartieri, l'armarsi di fucili e il dividersi in numerose pattuglie, fu pressoché un punto solo. Il presidente del Consiglio comunale ed il generale Pino, con altri proclami, chiamarono all'armi tutti i cittadini indistintamente. Il Consiglio credette di aggiungere eccitamento, con accordare un distintivo nazionale in una coccarda rossa e bianca. Di egual saccheggio era minacciato il palazzo della Corte. La guardia reale, i cannoni e lo stesso generale Pino la difendevano debilmente. Il generale fu insultato, la guardia forzata piú volte ed astretta a ritirare dalla piazza i cannoni e nel palazzo celarli. La stessa milizia civica marciava pavida ed incerta. Si fecero sbarrare le strade che conducevano al palazzo del Marino, ma le sbarre erano a gran pena difese.

Un'accidentale combinazione presentò alla milizia un vantaggio decisivo sul popolo. Andavano le pattuglie, per un certo riguardo, colla punta della baionetta rivolta verso la canna del fucile, ma una di esse aveva i fucili tanto dalla ruggine investiti che non gli fu possibile di togliere dalle canne le baionette. Presentatasi in piazza s'intese un subitaneo fremito popolare, nel quale si distinguevano le parole: «a basso le baionette.» Il che non ottenutosi, furono tratti de' sassi sulla pattuglia; la quale essendo forte in numero, fattosi coraggio, abbassò le armi e corse a passo di carica sugli ammutinati, che si dissiparono all'istante. Questo primo esperimento felice fu efficace, perché si vedessero subito in aria le punte delle baionette di tutte le pattuglie, perché si disperdessero i crocchi, perché i piú rivoltosi pertinaci nella loro insolenza si arrestassero. Molti e ben molti arresti seguirono nel rimanente del giorno e durante la notte; molti la polizia trovò tra questi che, facinorosi e debitori di delitti anche gravi, eludevano da piú anni la sua vigilanza e che, fidati allora nell'anarchia e nell'impunità, erano accorsi, e forse stipendiati, al bottino. Cosí terminò, senza altri orrori, quella nera giornata, in cui ebbe luogo soltanto il saccheggio di altra casa di campagna del conte Prina. Frattanto arrivò nella notte un corpo di cavalleria italiana, parte della quale salvò dal proclamato spoglio la regia villa di Monza e parte rinforzò l'efficacia della milizia.

Cessato lo spavento per il temuto disastro, di cui massimo bersaglio sarebbero stati i ricchi, tra' quali entravano quelli stessi che il primo impulso gli dettero, riavutisi questi appena dall'allarme, riammessero nel giorno 22 di aprile la marcia rivoluzionaria, e tutto lo studio loro rivolsero a distruggere la costituzione ed a sollevarsi ad una chimerica sovranità. In quel giorno ebbe luogo la prima sessione dei Collegi elettorali, illegalmente convocati, piú illegalmente costituiti. I soli elettori milanesi, compresi alcuni pochissimi appartenenti ai dipartimenti non invasi i quali erano in Milano per funzioni governative, essi soli, in numero di circa settanta, disponendo della sorte del Regno come di una loro proprietà baronale, approvarono la Reggenza, a cui si riserbarono di aggiungere altri individui per li detti dipartimenti, dichiararono il general Pino comandante in capo delle forze dello Stato, sciolsero tutti i sudditi e tutte le autorità civili e militari dal giuramento verso il sovrano, ordinando che altro se ne prestasse giusta gli ordini della Reggenza. Dichiararono come non avvenuta la deputazione del Senato, che cessato dissero; ordinarono la dimissione dei detenuti per motivi di opinione, di coscrizione, di finanza; ed accordarono amnistia ai disertori e refrattarî. Situatisi quindi al livello dei governi del piú alto rango ed assunto il tuono ed il linguaggio de' primi gabinetti, decretarono che «si avvertissero non meno i Comandanti delle Alte Potenze, che l'Armata Italiana della nomina fatta del general Pino, e che un indirizzo si facesse alle stesse Alte Potenze, pregandole a voler concorrere alla felicità del paese».

Le norme della felicità a cui aspiravano furono indicate e prescritte alle AA. PP. nella successiva seduta del giorno 23. Il Consiglier di Stato Lodovico Giovio, decorato della Corona di ferro, quegli che pochi giorni innanzi, nella qualità di Commissario di governo, aveva perorato ai popoli del Lario mostrando loro la convenienza di sostenerlo con ogni mezzo di contribuzioni e di soldati volontari, egli fu acclamato dagli elettori in presidente de' Collegi. Aprí la seduta insinuando ad essi, che «chiedessero istituzioni liberali, un capo indipendente che, nuovo, non conosciuto da noi… accolga i nostri voti e le nostre benedizioni».

Né a quelle insinuazioni furono sordi i Collegi, che in poche ore (senza neppure curarsi del lavoro e del rapporto di una commissione, giusta l'adottato costume dei corpi morali, anche in oggetti assai meno gravi) la base e l'impianto formarono dell'ideata costituzione. Incominciando da ciò, in cui non poteva nascere controversia e che era pure il fondamento della costituzione di Lione34, dichiararono che la religione cattolica era la religione dello Stato, la quale poi in altra seduta dissero piú accuratamente che essere dovesse la cattolica apostolica romana. Deliberarono quindi di chiedere alle Alte Potenze:

Primo: Assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano, che sarà per rappresentare il Regno d'Italia, con la stessa denominazione o con quell'altra che alle AA. PP. piacerà di darvi.

Secondo: La maggiore estensione di confini del detto nuovo Stato, combinabile cogli interessi e colle mire delle AA. PP. e colla nuova bilancia politica d'Europa.

Terzo: Una Costituzione liberale, che abbia per base la divisione dei poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, colla totale indipendenza di quest'ultimo; che ammetta una rappresentanza nazionale, cui spetti esclusivamente il formare le leggi e lo stabilire e regolare le imposte; che assicuri la libertà individuale, la libertà della stampa e del commercio; e che porti una stretta responsabilità negli incaricati de' rispettivi poteri.

Quarto: Facoltà di fare questa Costituzione ai Collegi elettorali.

Quinto: Un governo monarchico ereditario, primogenitale, e un principe, che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali sofferti durante l'ora cessato governo.

Anche piú estesi erano i desiderî degli elettori; ma furono avvedutamente moderati da qualcuno, il quale fece riflettere, nella sua saviezza, che non si dovesse poi legare le mani alle Alte Potenze coalizzate. Si credette però ommesso, e fu aggiunto in altra seduta, che si chiedesse un «Principe nuovo onde allontanare ogni idea di desiderio e di affetto verso il cessato». Decisero pure di «pregare i Monarchi di concedere la libertà de' loro figli prigionieri, vittime da tanto tempo di una causa ingiusta». Combinarono finalmente che la Reggenza nominasse «una Commissione tra i cittadini piú distinti, per recarsi al quartier generale delle potenze, onde esprimere a quei Monarchi il vóto della rappresentanza Nazionale Italiana». La Commissione fu subito formata da un cittadino di Brescia e da altri cinque e da un segretario milanese. Fu il primo il sig. Marc'Antonio Fè, e furono gli altri i signori Federico Confalonieri, Giacomo Ciani, Alberto Litta, Giacomo Trivulzi, Pietro Balabio capo battaglione, oltre Giacomo Beccaria segretario, li quali all'istante partirono.

Mentre lo spirito di vertigine agitava cosí le teste milanesi, li conti Guicciardi e Castiglioni si trovavano ancora in Mantova, ove si erano recati per prendere le credenziali del Principe ed i passaporti dal F. M. Conte di Bellegarde e per recarsi indi a Parigi per la via piú sicura di Baviera, via che prima di essi avevano tenuta li deputati dell'armata, i generali Fontanelli e Bertoletti. Seppero eglino appena quanto era avvenuto di disgustoso nella capitale, che subito si restituirono ad essa, tuttoché non richiamati da alcuna lettera, da alcun avviso officiale. Avevano già tenuto col principe Eugenio quel grave e dignitoso linguaggio, proprio di due personaggi, di cui è stata sempre unica scorta l'onore e la lealtà. Continuando nel medesimo contegno, credettero di prendere congedo da lui e dispensarsi definitivamente sulla deputazione; ma invece di meritare cosí l'elogio dei milanesi, si videro investiti al ritorno da calunnie le piú impudenti. Non tardò il conte Guicciardi a garantirsene con un'apologia che presentò alla Reggenza, onde avere il permesso di pubblicarla colla stampa. La giustificazione fu ben accolta ed elogi sommi si prodigarono alle eminenti sue qualità personali, non che al contegno da lui tenuto in qualità di senatore, di deputato; ma la stampa non si permise, per la addotta ragione che «con ciò si farebbero rivivere delle animosità che si vogliono sopite, si urterebbe col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose avvenute». È pure necessario alla storia che ora tal memoria e la lettera della Reggenza siano conosciute, ed è perciò che si inseriscono ai num. 6 e 7.

Se il Principe Eugenio avesse fatto marciare sopra la capitale una porzione delle truppe italiane che restavano sotto i suoi ordini, poteva reprimere i sediziosi e restituire l'ordine facilmente; ma, riflettendo che con l'abdicazione di Napoleone era terminata la sua rappresentanza come Viceré, deliberò di abbandonare il Regno e di restituirsi in Baviera e poi in Francia; lasciò che l'ordine fosse ripristinato dalle armi di S. M. l'Imperatore d'Austria, al quale oggetto combinò nel dí 23 aprile una seconda convenzione col F. M. Conte di Bellegarde, in forza di cui, e non mai delle non valutate deputazioni spedite dalla Reggenza alli diversi corpi delle armate alleate, prese questi possesso della capitale e dei paesi non ancora occupati. Difatti il generale Sommariva, giunto in Milano nel dí 25, scrisse alla Reggenza che in vista di essa capitolazione spiegava la sua qualità di Commissario delle AA. PP. e si poneva alla testa di tutte le Autorità. Ciò, a dire il vero, non fu grato ai sovrani novelli, a' quali molto meno fu accetto l'ingresso successivo delle armi austriache in Milano. Si trovò scritto a grandi caratteri, in tutti i quartieri di guardia civica, le parole: O indipendenza, o morte. Il Giornale Italiano, redatto e pubblicato sotto l'influenza e sotto la sorveglianza del Governo, come foglio officiale, nell'annunziare l'arrivo di dette truppe disse, che «la Guardia Civica ed una numerosa folla di popolo le accolsero con quelle dimostrazioni di gioia e di gratitudine ch'eccitar dee da per tutto la presenza di guerrieri che hanno tanta parte nella pacificazione dell'Europa; ma conservarono nello stesso tempo quel nobile contegno, che caratterizza una nazione il cui primo vóto è l'indipendenza».

Tanto e cosí gagliardo era in que' giorni il riscaldamento e il fanatismo da far pietà. Non risparmiando i Collegi alcuna delle attribuzioni sovrane, avevano annullato nella seduta dei 25 i celebri decreti di Berlino e di Milano35 ed i relativi regolamenti; imponendo restrizioni preventive al loro Monarca, cui non si faceva torto, subito che nuovo doveva essere e non conosciuto, gli avevano limitato la riserva della caccia di Monza al solo parco, escluso il circondario esterno, ed alle sole valli ed ai boschi del Ticino. Avevano abolite diverse leggi penali, avevano dichiarata la cessazione del Senato ed avocata alla Nazione la sua dotazione, la cessazione del Consiglio di Stato con la sua segreteria, delle cariche di ministri e di consiglieri di Stato.

28

«Afin – scriveva il Saint-Edme – de faciliter au public la lecture de cette traduction, je crois devoir lui donner ici le nom des différentes personnes qui occupaient les hauts emplois du royaume d'Italie»; e ciò ch'egli credeva già utile nel 1822, è oggi assolutamente necessario, poiché gli uomini e le cose del Regno italico sono ormai cadute per grandissima parte nella dimenticanza. A ravvivarla nella memoria degli studiosi potranno giovare le indicazioni seguenti, le quali si danno rettificando e allargando quelle del traduttore francese e per le quali si è seguito l'Almanacco reale per l'anno MDCCCXIII, che fu l'ultimo pubblicato di una serie oramai irreperibile.

GRANDI UFFICIALI DEL REGNO:

Grandi ufficiali della Corona:

Melzi d'Éril Francesco di Milano, Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli.

Codronchi Antonio di Imola, Arcivescovo di Ravenna, Grande elemosiniere.

Fenaroli Giuseppe di Brescia, Gran maggiordomo maggiore.

Litta Antonio di Milano, Gran ciambellano.

Caprara Carlo di Bologna, Grande scudiere.

Aldini Antonio di Bologna, Ministro Segretario di Stato [1805-1814].

Luosi Giuseppe di Mirandola, Gran giudice Ministro della giustizia [1805-1814].

Marescalchi Ferdinando di Bologna, Ministro degli affari esteri [1802-1814].

Vaccari Luigi di Modena, Ministro dell'interno [1809-1814].

Fontanelli Achille di Modena, Ministro della guerra e marina [1811-1814].

Prina Giuseppe di Novara, Ministro delle finanze [1802-1814].

Veneri Antonio di Reggio, Ministro del tesoro [1813-1814].

...... Ministro del culto [titolare era stato, 1802-1812, Bovara Giovanni; poi ff. di ministro, 1812-1814 fu Giudici Gaetano].

...... Arcivescovo di Milano [Sede vacante].

Bonsignori Stefano di Busto Arsizio, Patriarca di Venezia.

Codronchi, predetto, Arcivescovo di Ravenna.

...... Arcivescovo di Bologna [titolare Opizzoni Carlo, non riconosciuto].

Fava Paolo Patrizio di Bologna, Arcivescovo di Ferrara.

Pino Domenico di Milano, Generale di divisione, primo Capitano della Guardia reale.

Costabili-Containi Gio. Battista di Ferrara, Intendente generale dei beni della Corona.

Méjan Stefano francese, Segretario degli ordini del Viceré.

SENATO CONSULENTE:

I Principi della Casa Reale.

I Grandi ufficiali della Corona.

Fava, predetto, Arcivescovo di Ferrara.

Bonsignori, predetto, Patriarca di Venezia.

Moscati Pietro di Mantova, nominato 19 febbraio 1809.

Paradisi Giovanni di Reggio, id.

Costabili-Containi, predetto, id.

Guicciardi Diego di Lugano, id.

Giustiniani Leonardo di Venezia, id.

Carlotti Alessandro di Verona, id.

Massari Luigi di Ferrara, id.

Vidoni Giuseppe di Cremona, id.

Di Breme Luigi Giuseppe di Sartirana, id.

Polcastro Girolamo di Padova, id.

Castiglioni Luigi di Milano, id.

Bologna Sebastiano di Vicenza, id.

Longo Lucrezio di Brescia, id.

Alessandri Marco di Bergamo, id.

Felici Daniele di Rimini, id.

Volta Alessandro di Como, id.

Cavriani Federico di Mantova, id.

Testi Carlo di Modena, id.

Lamberti Giacomo di Reggio, id.

Peregalli Francesco di Debbio in Valtellina, id.

Frangipane Cinzio di Udine, id.

Thiene Leonardo di Vicenza, id.

Barisan Giovanni di Treviso, id.

Mengotti Francesco di Belluno, id.

Bruti Agostino dell'Istria, id.

Camerata Antonio di Ancona, id.

Sgariglia Pietro di Fermo, id.

Armaroli Leopoldo di Macerata, id.

Veneri, predetto, nominato 10 ottobre 1809.

Prina, predetto, id.

Berioli Spiridione di Città di Castello, arciv. di Urbino, id.

Melano Portula Vittorio di Cuneo, vesc. di Novara, id.

Serbelloni Marco di Milano, id.

Mocenigo Alvise di Venezia, id.

Martinengo Giovanni Estore di Brescia, id.

Condulmer Tommaso Gaspare di Venezia, id.

Oriani Barnaba di Milano, id.

Stratico Simone di Zara, id.

Dandolo Vincenzo di Venezia, id.

Fiorella Pasquale Antonio còrso, generale di divisione, id.

Verri Carlo di Milano, id.

Luosi, predetto, nominato 7 febbraio 1810.

De Moll Sigismondo di Trento nominato 23 dicembre, 1810.

CONSIGLIO DI STATO:

I. Consiglio legislativo: De Bernardi Stefano presidente – Maestri Giovanni – Bazzetta Giovanni – Sanfermo Rocco – D'Adda Febo – Bargnani Cesare – Méjan Stefano – Parravicini Raffaele – Guastavillani Giovanni Battista – cossoni Antonio – bossi Luigi – Polfranceschi Pietro – Luini Giacomo – Pedrazzini Michele – Quirini-Stampalia Luigi – Scopoli Giovanni – Colle Francesco – Giovio Ludovico.

II. Consiglio degli uditori: Pallavicini Giuseppe presidente – Aldini Giovanni – Sopransi Luigi – Valdrighi Luigi – Barbò Francesco – Riva Cristoforo – Nani Tommaso – Compagnoni Giuseppe – Brunetti Vincenzo – Caccía Gaudenzio – Casati Giuseppe – Tornielli Giuseppe – Custodi Pietro – Burri Giovanni – Borghi Carlo Jacopo – Brebbia Giuseppe – Re Antonio – Fagnani Federico.

III. Consiglieri di Stato in servizio straordinario: Gallino Tommaso, primo presidente della corte d'appello di Venezia – Strigelli Antonio, Segretario di Stato in Milano – Agucchi Alessando, prefetto del Passariano – Galvagna Francesco, prefetto dell'Adriatico – D'Allegre Paolo Lamberto, vescovo di Pavia – Ronna Tommaso, vescovo di Crema – Smancini Antonio, prefetto dell'Adige.

IV. Consiglieri di Stato onorari: Pedroli Carlo Antonio, primo presidente della Corte di cassazione – Taverna Francesco, primo presidente della Corte d'appello di Milano – Beccalossi Giuseppe, primo presidente della Corte d'appello di Brescia – Erizzo Guido, dimorante in Venezia.

CORTE DI CASSAZIONE:

Pedroli Carlo Antonio, primo presidente.

Negri Antonio, presidente.

De Lorenzi Antonio – Tonni Luigi – Sopransi Fedele – Pizzotti Francesco – Villata Guido – Sopransi Luigi – Bazzetta Giovanni – Repossi Francesco – Ragazzi Giuseppe – Pelegatti Cesare – Condulmer Pietro Antonio – Predabissi Francesco – Cisotti Giovanni Battista – Scaccabarozzi Cesare – Auna Giovanni Vincenzo – Luini Giuseppe, giudici.

Valdrighi Luigi, Regio procuratore generale – Borsotti Giovanni Gaudenzio, sostituto procuratore generale.

CORTE DEI CONTI:

De Bernardi Stefano, primo presidente.

Sabatti Antonio – Sommaruga… presidenti.

Pampuri Giacomo – Busti Cristoforo – Ungarelli Pietro – Teulié Filippo – Pallavicini Giulio – Beccaria Giulio – Arrigoni Galeazzo – Silva Bernardino, giudici.

Noghera Giovanni Battista – Somaglia Gaetano – Sanner Baldassare – Pecchio Pietro, giudici per i conti arretrati.

Crespi Luigi, Regio procuratore generale.

SEGRETERIE DI STATO E MINISTERI:

Segreteria di Stato in Parigi: Aldini Antonio, predetto, Ministro Segretario di Stato – Marinoni Francesco, segretario generale.

Segreteria di Stato in Milano: Strigelli Antonio, Consigliere Segretario di Stato – Narducci Giampietro, Appiani Giuseppe, Germani Giuseppe, capi di divisione.

Ministero della giustizia: Luosi, predetto, Ministro – Biella Felice, segretario generale – Luosi Luigi, Stoppani Pietro, Alberti Francesco, Prandina Gaetano, capi di divisione.

Ministero degli affari esteri: Prima divisione in Parigi: Marescalchi, predetto, Ministro – Jacob, capo di divisione – Seconda divisione in Milano: Testi Carlo, incaricato del portafoglio del dipartimento degli affari esteri – Borghi Carlo Jacopo, capo di divisione.

Ministero dell'interno: Vaccari, predetto, Ministro – De Capitani Paolo, segretario generale – Ceriani Giuseppe Cesare, Bernardoni Giuseppe, Carmagnola Paolo, capi di divisione.

Ministero della guerra e marina: Fontanelli, predetto, Ministro – Zanoli Alessandro, segretario generale – Arese Francesco colonnello, Locatelli Luigi Annibale ispettore alle rassegne, Patroni Giuseppe colonnello, Cruvelier Giovanni Pietro, ispettore di marina, capi di divisione – Cortese Francesco, direttore delle rassegne e della coscrizione.

Ministero delle finanze: Prina, predetto, Ministro – Custodi Pietro, segretario generale – Soldini Andrea, Petracchi Angelo, Amante Giovanni, Reina Giuseppe, Marchini Bartolomeo, capi di divisione.

Ministero del tesoro: Veneri, predetto, ministro – Tarchini Giovanni Battista, segretario generale – Carnaghi Amedeo, ispettore generale – Tordorò Luigi, capo della contabilità – Corridori Girolamo, cassiere generale del regno.

Ministero del culto: Giudici Gaetano, segretario generale, ff. di ministro – Farina Modesto, Casnati Filippo, capi di divisione.

DIREZIONI GENERALI:

Acque, strade e porti marittimi: Cossoni Antonio, direttore generale – Negri Gaetano, segretario generale – Artico Angelo, Assalini Antonio, Masetti Agostino, Parea Carlo, ispettori generali – Brunacci Vincenzo, Bonati Teodoro, Cossali Pietro, ispettori generali onorari.

Polizia: Luini Giacomo, direttore gen. – Brusa Paolo, segretario gen.

Istruzione pubblica, stampa e libreria: Scopoli Giovanni, direttore gen. – Poggiolini Giovanni Luigi, segr. gen. – Pini Ermenegildo, Rossi Luigi, ispettori generali degli studi.

Censo e imposizioni dirette: Brunetti Vincenzo, direttore generale – Lupi Carlo, segr. gen.

Dogane: Bargnani Cesare, dirett. gen.

Privative e dazî di consumo: Barbò Francesco, dirett. gen. – Caldarini Giovanni Battista, seg. gen.

Monte Napoleone (col titolo di Prefettura del M. N. e della liquidazione del debito pubblico): Maestri Giovanni, prefetto – Calderara Giuseppe, luogotenente prefetto – Negri, segretario gen.

Poste: Darnay Antonio, direttore gen.

Zecche e monete: Isimbardi Innocenzo, direttore gen. – Prina Luigi, segr. gen.

Lotto: Soldini Ambrogio, direttore gen. – Palmieri segretario gen.

ESERCITO E MARINA:

Stato maggiore generale dell'esercito

Generali di divisione: Pino Domenico – Lechi Giuseppe – Severoli Filippo – Fontanelli Achille – Bonfanti Antonio – Peyri Luigi – Fiorella Pasquale Antonio – Palombini Giuseppe – Zucchi Carlo – Fontane Giacomo.

Generali di brigata: Polfranceschi Pietro – Bianchi d'Adda Giovanni Battista – Lechi Teodoro – Balabio Carlo – Mazzucchelli Luigi – Bertoletti Antonio – Villata Giovanni – Renard Brizio Giovanni Battista – Dembowski Giovanni – Balathier Carlo – Martel Filippo Andrea – Rougier Gillo – Schiazzetti Fortunato – Saint Paul Verbigier – Moroni Pietro – Jacquet Giuseppe – Sant'Andrea Pietro – Bellotti Gaspare – Julhien Giovanni Francesco – Campagnola Luigi – Milossewitz Andrea – Bertolosi Giovanni Battista – Galimberti Livio – Rambourgt Pietro Gabriele – Paini Giulio – Paolucci Amilcare – Peri Bernardo.

Aiutanti comandanti: Lechi Angelo – Cavedoni Bartolomeo – Montebruno Andrea – Mazzucchelli Giovanni – Rivaira Luigi – Casella Giovanni Battista.

Marina Reale

Commissario generale: Maillot Stefano.

Capitani di vascello: Pasqualigo Nicola – Milius Pier Bernardo.

Capitani di fregata: Costanzi Giovanni Battista – Armeni Antonio – Rodriguez Francesco – Buratovich Vincenzo – Dandolo Silvestro – Aycard Romano – Saint Priest Filiberto Luigi – Tempiè Giacomo.

Direttore dell'artiglieria di marina: Trouchon Domenico.

Direttore delle costruzioni navali italiane: Salvini Andrea.

Comandante del porto di Venezia: Giaxich, capitano di fregata.

DIPARTIMENTI:

1. Adda, capoluogo Sondrio, popolazione 76,129, cantoni 6, comuni 29: Rezia Carlo prefetto; Renard generale comandante.

2. Adige, capoluogo Verona, popolazione 302,161, distretti 4, cantoni 15, comuni 76: Smancini Antonio prefetto; Milossewitz generale comandante.

3. Adriatico, capoluogo Venezia, popolazione 290,112, distretti 4, cantoni 10, comuni 38: Galvagna Francesco prefetto; Daurier generale francese comandante.

4. Agogna, capoluogo Novara, popolazione 348,429, distretti 5, cantoni 19, comuni 136: Luini Stefano prefetto; Bertolosi generale comandante.

5. Alto Adige, capoluogo Trento, popolazione 266,734, distretti 5, cantoni 20, comuni 121: Dal Fiume Filippo prefetto; Milossewitz generale comandante.

6. Alto Po, capoluogo Cremona, popolazione 363,196, distretti 4, cantoni 17, comuni 129: Ticozzi Francesco prefetto; Balabio generale comandante.

7. Bacchiglione, capoluogo Vicenza, popolazione 314,479, distretti 5, cantoni 14, comuni 99: Magenta Pio prefetto.

8. Basso Po, capoluogo Ferrara, popolazione 241,265, distretti 3, cantoni 11, comuni 82: Zacco Costantino prefetto.

9. Brenta, capoluogo Padova, popolazione 285,185, distretti 4, cantoni 12, comuni 85: Porro Ferdinando prefetto.

10. Crostolo, capoluogo Reggio, popolazione 167,123, distretti 2, cantoni 7, comuni 52: Zecchini Bonaventura prefetto.

11. Lario, capoluogo Como, popolazione 310,664, distretti 4, cantoni 23, comuni 168: Tamassia Giovanni prefetto; Renard generale comandante.

12. Mella, capoluogo Brescia, popolazione 312,778, distretti 4, cantoni 18, comuni 127: Sommenzari Teodoro prefetto; Fontane generale comandante.

13. Metauro, capoluogo Ancona, popolazione 305,037, distretti 5, cantoni 16, comuni 76: Gaspari Giacomo prefetto; Barbou generale francese comandante.

14. Mincio, capoluogo Mantova, popolazione 232,163, distretti 3, cantoni 15, comuni 51: Vismara Michele prefetto; Julhien generale comandante.

15. Musone, capoluogo Macerata, popolazione 220,643, distretti 5, cantoni 13, comuni 48: Villata Michele prefetto.

16. Olona, capoluogo Milano, popolazione 580,436, distretti 4, cantoni 20, comuni 155: Caccía Gaudenzio prefetto; Bertolosi generale comandante.

17. Panaro, capoluogo Modena, popolazione 181,130, distretti 2, cantoni 7, comuni 52: Minoia Giovanni prefetto.

18. Passariano, capoluogo Udine, popolazione 289,770, distretti 4, cantoni 18, comuni 136: Agucchi Alessandro prefetto; Schilt generale francese comandante.

19. Piave, capoluogo Belluno, popolazione 138,028, distretti 3, cantoni 11, comuni 67: Ferri Francesco prefetto.

20. Reno, capoluogo Bologna, popolazione 405,845, distretti 4, cantoni 12, comuni 76: Tadini Oldofredi Girolamo prefetto; Roize generale francese comandante.

21. Rubicone, capoluogo Forlí, popolazione 280,034, distretti 5, cantoni 14, comuni 41: Frosconi Alessandro prefetto; Villata generale comandante.

22. Serio, capoluogo Bergamo, popolazione 305,202, distretti 4, cantoni 18, comuni 145: Cornalia Francesco prefetto.

23. Tagliamento, capoluogo Treviso, popolazione 301,114, distretti 5, cantoni 16, comuni 93: Del Maino Carlo prefetto.

24. Tronto, capoluogo Fermo, popolazione 185,423, distretti 3, cantoni 10, comuni 72: Staurenghi Leopoldo prefetto.

Riassunto: Dipartimenti 24, divisi in 91 distretti, 344 cantoni, 2155 comuni; popolazione 6,703,200 abitanti; superficie 84,043 miglia quadrate italiane.

29

Il Saint-Edme riferisce in questa nota: 1º il testo francese della Convenzione militare di Schiarino Rizzino, 16 aprile 1814 (vedasi anche nel Fabi, pag. 102-108); 2º il proclama del principe Eugenio ai soldati francesi, Mantova, 17 aprile 1814 (in Fabi, pag. 108-109); 3º l'indirizzo dell'armata francese al principe Eugenio, dello stesso giorno, firmato dai generali Grenier, Verdier, Vignolle, Marcognet, D'Anthouart, Fressinet, Quesnel, Rouyer, Mermet, Sainte-Laurent e Bode.

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«Semblable en cela à tous les peuples et même à tous les hommes qui espèrent toujours ce qu'ils desirent, les Italiens crurent que les projets du roi Joachim tendaient à former un seul royaume de l'Italie, trompés par sa conduite envers son bienfaiteur, et par les bruits qu'il faisait courir à ce sujet. Admis dans la coalition, pensaient les Italiens, l'empereur d'Autriche, qui lui avait confié des troupes, préférait sans doute aider ses prétentions, et le voir monter sur le trône de l'Italie ou se placer à la tête d'une confédération des états et princes italiens, à laisser ce pays sous la domination de Napoléon ou de son fils adoptif.

Les idées, les rêves d'indépendance troublaient entièrement leur raison, et excluaient tout jugement. Partout où un souverain marche en conquérant, il faut s'attendre à y retrouver longs-temps encore les empreintes de son pouvoir. Ainsi ils devaient d'autant moins douter des plans de l'empereur d'Autriche, que ce n'était qu'à la force qu'il avait cédé l'Italie; qu'en sacrifiant son gendre, sa fille et son petit-fils, il n'avait point agi dans les intérêt de l'Europe, mais bien dans le siens propres, c'est-à-dire pour recouvrer ses anciennes possessions. Ils ne devaient donc aucunement compter sur Murat, qui appartenait d'ailleurs à une famille que les coalisées voulaient proscrire, et je n'examinerai pas ce poins délicat de leur politique.

Les Italiens espéraient-ils que l'Autriche serait assez généreuse pour leur donner un roi libre?.. Je m'expliquerai dans une des notes suivantes».

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«Il est impossible de croire que les sénateurs n'aient point eu connaissance le tous ces projets, que la craint des plus grands malheurs ne les ait pas portés à s'éclairer, à preparer dans le silence les moyens de les éviter. Je ne leur ferai pas l'injure de les supposer capables d'une indifférence odieuse de la part d'aussi grands magistrats, sur qui le royaume devait se reposer du soin d'assurer sa tranquillité. Mais comment expliquer leur inertie? Car, indépendamment qu'ils avaient à redouter les ennemis de l'intérieur, et ils ne pouvaient point l'ignorer, la conduite de l'Autriche était-elle de nature à leur inspirer quelque sécurité? Si je ne les comdanne point pour leur indifférence, je n'hésite point à les accuser d'un manque total de caractère; et les Italiens doivent les poursuivre de leur haine pour avoir, ou par volonté, ou par une lâche indolence, méprisé le voeu national, en ne s'occupant pas exclusivement de l'indépendance si ardemment desirée. En supposant qu'ils ne partageassent pas ce voeu, ils devaient le connaitre: les grands corps d'un état n'existent que pour le bien de plus grand nombre, et ils auraient dû se soumettre. En supposant que l'esprit révolutionnaire ne leur fût pas exactement démontré, ce qui n'est pas croyable, l'Autriche était-elle environnée des ténèbres? La politique de cette puissance et la marche de tous les événemens, ne suffisaient-elles point pour les éclaircir? Il est juste que j'appuie mon accusation, et c'est ce que je vais faire le plus rapidement possible.» – E qui il Saint-Edme, esaminando la condotta politica dell'Austria verso Napoleone I dal 1812 al 1814, rileva come, dalla richiesta fatta nella conferenza di Praga per la cessione delle provincie italiane dal Mincio a Venezia e dall'ultimatum presentato al congresso di Châtillon che esigeva l'abbandono totale dell'Italia, risulti manifesto che la cessazione del Regno italico fosse uno dei fini della politica austriaca; e conclude: «Les sénateurs devaient être instruits de tous ces faits, en tirer les conséquences naturelles que Napoléon serait écrasé, que l'Autriche menacerait l'existence du royaume, qui ne consentirait point à lui accorder son indépendance, et qu'il fallait employer des mesures énergiques. Mais que doit-on attendre de la débonnaireté du peuple italien? Avec de l'audace et de la fermeté, en flattant ses desirs, on en eût peut-être tout obtenu. Pour attendre l'abdication de Napoléon, il fallait réunir les colléges, prononcer la consolidation du royaume, proclamer un chef, faire un appel au patriotisme du peuple, appeler tous les princes d'Italie à une confédération, mander a Milan les troupes de Cremone et de Lodi, et se défendre enfin, pour tenter de réussir ou succomber avec gloire, en se mettant à même de discuter avec l'Autriche un traité d'abaissement. N'eussent-ils fait autre chose que proclamer une seconde fois la constitution de 1802, et nommer un président ou un vice-président, ils auraient sauvé le peuple de lui-même, le collége n'aurait pas compromis la nation: et qui sait si cette attitude nouvelle n'eût pas amené quelque résultat avantageux? Oui, les sénateurs d'Italie n'ont rien fait pour sauver la patrie.»

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«Les Français étaient assez généralement aimés, et on les regrette aujourd'hui; tandis, au contraire, que les Autrichiens ont toujours été détestés, qu'on les hait encore plus, et que le nom de Tudesco (Tudesque, ou Allemand) donné à un Italien, est une injure des plus vives. Sous la domination des Français, les Italiens jouissaient des apparences de toutes leurs libertés; ils embellissaient leur pays; ils protégeaient les arts, l'industrie, le commerce; la presque totalité des emplois étaient occupés par des nationaux. Maintenant ils ne rencontrent que des entraves, et les Autrichiens gouvernent en conquérans».

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«Cette déclaration concorde parfaitement avec la note précédente».

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Il Saint-Edme riporta qui, tradotta in francese, la Costituzione della Repubblica Italiana adottata nei Comizi di Lione il 26 gennaio 1802: il testo originale di essa si ha nel Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, Anno I, Milano, Veladini [1802], pp. 1-19.

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«Relatifs au système continental».

La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814

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