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Carlos P. Casas Tradotto da Alice Croce Ortega

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Alle donne di Lacorvilla

Senza di loro, nulla può riuscire.

Prologo

Nel cuore del bivacco si svolgeva una lotta all'ultimo sangue: le timide fiamme del falò contro il vento gelido proveniente dai Pirenei. Il fuoco opponeva resistenza e si rifiutava di soccombere a quella notte d'inverno, ma non aveva la forza sufficiente a far bollire il contenuto del paiolo che vi era posto sopra. Era il mese di dicembre del 1134. Come negli anni precedenti, era un mese secco e freddo. Molto di più, trattandosi di una notte ventosa come quella; le tende improvvisate sembravano sul punto di volare via. Alfonso si strinse contro una quercia tanto da sentire che la corteccia gli lacerava le maniche della giubba, mentre cercava di proteggersi sia dal vento che dallo sguardo dei banditi.

"Sono solo tre" sussurrò a suo padre mostrandogli lo stesso numero di dita.

Alfonso non sapeva contare oltre il dieci.

Il figlio di Jimeno, il bargello, si stava innervosendo per l'attesa. Jimeno era nascosto dietro una roccia, accucciato in modo che la sua sagoma corpulenta fosse meno visibile. Non apriva bocca. Teneva d'occhio il bivacco e ogni tanto grugniva. Alfonso ipotizzò che stesse pensando al modo migliore di far fuori quello più vicino.

Il bandito aveva appoggiato la sua scure ad un albero vicino, ma abbastanza lontano da non poterla afferrare con rapidità. Alfonso non dava troppo peso a quell'arma, era piccola e non sembrava abbastanza solida da potersi opporre a una spada. Lo preoccupavano di più la cotta di maglia e i bracciali che l'uomo indossava; probabilmente sotto quegli anelli di ferro c'era un'altra protezione di cuoio. Una buona armatura.

Si trovavano a pochissimi passi di distanza; se si fossero mossi in silenzio, mettendosi a correre all'ultimo momento, il bandito non avrebbe fatto in tempo ad alzarsi che si sarebbe già ritrovato la spada di suo padre conficcata nel collo. Uno di meno.

"Non vedo i cavalli" osservò Jimeno, interrompendo i pensieri di suo figlio.

È vero, rifletté Alfonso dopo aver dato un'occhiata all'intorno. Li abbiamo sentiti mentre ci avvicinavamo ma qui non ci sono. Devono esserci in giro altri banditi. In tal caso la faccenda si faceva più complicata, adesso erano in inferiorità numerica.

"Dovremmo tornare indietro" suggerì Sancho il Nero con voce tremante.

"Chiedere aiuto a don Yéquera e alle sue guardie".

"Abbassa la voce" gli ingiunse Jimeno. Sancho tacque all'istante e si coprì con il suo vecchio mantello.

Sancho, il carbonaio, non aveva bisogno di nascondersi dietro a niente.

Era così magro che se si metteva di taglio lo si vedeva a stento alla luce piena del giorno. Indossava abiti del tutto inadatti all'inverno, una camicia leggera che era stata rammendata almeno dieci volte. Il suo mantello doveva essere più sottile di un'unghia, ed era l'unica cosa che lo proteggeva dal freddo. Se non fosse stato per le macchie di fuliggine che gli ricoprivano la faccia, si sarebbe visto che aveva la pelle più bianca del ghiaccio a causa del tormento che il vento gli infliggeva.

"Quel fuoco ha preso o no?!" esclamò uno dei banditi. Alfonso trasalì per lo spavento. "Ho fame!".

Stavano preparando uno stufato, tra i cui ingredienti facevano capolino alcuni pezzi di carne di pecora. Una delle bestie di suo zio Guillén.

Già da un paio di giorni da Lacorvilla stavano sparendo delle pecore. Una.

Due. Altre due. Presto fu chiaro che nella zona dovevano esserci dei ladri di bestiame. Era compito del bargello occuparsi di quelle faccende, e in effetti Jimeno se ne era occupato. Malgrado avesse ormai compiuto i quarant'anni non aveva perso il vigore della gioventù, quindi non gli pesò fare il giro dei pascoli e delle montagne del circondario. Quello che invece gli diede fastidio fu, dopo un paio di giorni di ricerche, non aver ancora scovato alcuna traccia da seguire.

"Alfonso, prendi la tua roba. Andiamo a parlare con il Nero" gli aveva detto suo padre, esasperato da tutti quegli sforzi infruttuosi, "vediamo se ne sa qualcosa".

Le parole scelte da suo padre fecero pensare ad Alfonso che Sancho potesse essere il responsabile di quei furti. L'idea non era del tutto peregrina, il carbonaio moriva di fame fin da quando era piccolo. Senza riuscirci.

Avevano scovato il Nero lungo la strada per la Carbonera. Man mano che l'inverno si avvicinava trascorreva molti giorni e molte notti in montagna, a controllare che la legna ardesse correttamente per la produzione del suo prezioso carbone. Alfonso non fu tanto sorpreso di averlo incontrato quanto del fatto che venisse verso di loro di gran carriera, o almeno così sembrava.

Sancho odiava Jimeno. E non per una cosa di poco conto. Il padre del Nero era stato accusato di essere un ladro e un assassino. Il tipo d'uomo che prima o poi fa la conoscenza del bargello in circostanze poco piacevoli.

Con l'aiuto di un complice aveva teso un'imboscata all'esattore delle tasse sulla strada per Luna; il pover'uomo era finito con la testa schiacciata sotto un grosso masso. Malgrado non fossero stati trovati altri testimoni oltre ai colpevoli, quel tipo di cose si finisce per saperle, nei paesini: il padre di Sancho era in possesso di denaro che non avrebbe dovuto avere e Jimeno fece il suo dovere.

Durante il processo si era sempre difeso affermando che fosse stato l'altro, uno che diceva di venire da Arbués, ad uccidere il gabelliere, non lui.

Ammetteva di aver rubato, ma non di aver ucciso. Jimeno non si era lasciato incantare da quelle scuse e il padre del carbonaio alla fine fu impiccato al ramo di un albero. Come ladro e assassino.

La vicenda fece nascere cattivo sangue tra le due famiglie. Era quello il motivo per cui Alfonso si stupì di vedere il sollievo dipinto sul volto del carbonaio, quando giunse vicino a loro. Il Nero era molto eccitato, gli mancava il fiato. Balbettava e diceva cose senza senso, ma una parola si capiva perfettamente:

"Briganti".

Il carbonaio si era imbattuto senza volerlo nei ladri di bestiame e intendeva

affidare al bargello la responsabilità sul da farsi. Ad Alfonso faceva rabbia che molti nel villaggio non volessero avere nulla a che fare con suo padre, gabelliere per conto di don Yéquera, ma che non esitassero mai a pretendere il suo aiuto quando avevano qualche problema.

Jimeno riuscì, a forza di minacce e di botte e scossoni, a farsi dire dal Nero qualcosa sul bivacco che aveva scoperto. Riuscirono a farsi portare fin lì, anche se dovettero quasi trascinarlo con la forza.

Adesso erano acquattati tra gli alberi ad osservare i tre banditi: uno vicino all'albero, uno che preparava la cena e il terzo che cercava di evitare che una delle tende venisse spazzata via dal vento. Alfonso continuava a cercare i cavalli e gli altri banditi, quelli che non si vedevano.

"Aggiungi altra legna!" gridò al cuoco uno dei malviventi, avvicinandosi al pentolone. Le fiamme gli illuminarono il volto.

Sancho si trascinò fino a raggiungere Jimeno.

"Hanno le facce bianche" sussurrò al bargello. I suoi occhi riflettevano il panico più assoluto. Con il dito indicò quello che era in piedi accanto al fuoco. "Sono gli albari".

Ad Alfonso mancò il respiro.

Aveva sentito le voci, certo. Mostri dalla pelle bianca assetati di sangue.

Villaggi in fiamme. Contadini squartati. Non erano che voci, storie che venivano raccontate nelle osterie negli ultimi anni. Suo padre gli aveva sempre detto che quelle storie erano esagerazioni. Erano solo dei banditi che si erano fatti una certa fama. Tutto il resto erano storie assurde, che avevano l'unico scopo di terrorizzare gli sciocchi.

Tuttavia, che fossero vere o no tutte quelle storie, gli albari erano lì. Vicino a Lacorvilla. Alfonso li aveva appena visti con i suoi stessi occhi.

La piccola scure che Alfonso aveva considerato quasi inoffensiva si era appena trasformata in un'arma maneggevole e difficile da schivare, capace di fare molto male a chi non indossava un'armatura formidabile come quella del bandito. Non aveva niente a che vedere con il freddo, il fatto che

la mano di Alfonso cominciasse a tremare.

"Non possiamo farlo da soli" decise Jimeno dopo aver soppesato le varie possibilità.

Il Nero annuì.

"Se fossimo di più…"

"Di te non avevo certo tenuto conto" ribatté il bargello. Sancho chinò la testa e, arretrando, tornò a nascondersi dietro la sua roccia. Jimeno si rivolse a suo figlio. "Torniamo al villaggio".

Nessuno si oppose. Con molta cautela cominciarono ad allontanarsi dal bivacco fino a perdere di vista la luce del fuoco e si immersero in un'oscurità che la luna calante riusciva appena a violare. Attraversarono la montagna tra sterpi e arbusti irrequieti a causa del vento. Non si azzardarono a tornare sul sentiero fino a quando non ebbero messo una distanza considerevole tra loro e i banditi. Il ritorno a Lacorvilla avvenne in gran fretta e in un continuo girarsi indietro a guardare.

"Dobbiamo dirlo agli altri al villaggio" osservò Sancho quando furono sufficientemente lontani. Il carbonaio si stringeva addosso il suo miserabile mantello. "Dovremmo organizzare una riunione".

Jimeno lo sentì e rallentò il passo. Alfonso se ne rallegrò, non aveva le gambe lunghe come suo padre. Sua madre sosteneva che un giorno sarebbe diventato alto come lui, ma a diciassette anni compiuti era ancora più basso del bargello di un'intera testa. Continuarono a camminare e dopo un po' Jimeno rispose:

"Qualcosa bisogna dire ai compaesani" riconobbe a disagio "ma bisogna scegliere molto attentamente che cosa. Se diciamo loro così all'improvviso che abbiamo visto gli albari potrebbero farsi prendere dal panico. No, dobbiamo essere cauti. Fintanto che avranno pecore da mangiare non ci daranno problemi". Alfonso guardò suo padre aggrottando la fronte. Quelle pecore appartenevano allo zio Guillén, che non sarebbe stato zitto sapendo che la sua fonte di sostentamento veniva divorata da quei mostri.

"Abbiamo alcuni giorni di tempo per decidere come agire. La cosa migliore sarebbe prendere accordi con don Yéquera" disse, mentre cominciava ad intravedere il castello che si trovava sull'altro versante della montagna, imponente sul promontorio.

"State parlando di rifugiarci tutti dentro le mura?" chiese Alfonso, dando voce alle sue perplessità. "Ci sono due torri male in arnese e un cortile.

Non è abbastanza grande per tutti i compaesani e le loro bestie".

"Allora il bestiame dovrà rimanere all'esterno" intervenne Sancho. "Le persone hanno la precedenza".

Alfonso replicò con veemenza al Nero. Certo, per lui era facile separarsi dagli animali, perché non ne aveva. Lo accusò di essere un uomo vile ed egoista. Se a lui stava bene di non avere nulla e di vivere della carità della gente niente da dire, ma molti dei loro compaesani vivevano delle loro bestie e contavano proprio su quegli animali per dar da mangiare alle loro famiglie. Avrebbero cercato di fare in modo che sia il bestiame che le persone trovassero posto all'interno delle mura del castello. E alla fine minacciò il carbonaio di lasciarlo in balìa dei banditi.

"Se il bestiame non potrà ricoverarsi dentro il castello, neanche tu potrai entrare".

Maledetto codardo, si preoccupa solo per sé stesso. Alfonso sputò per terra, non lontano dai piedi del Nero.

"Non stavo pensando di rifugiarci nel castello" si spiegò Jimeno. Gli altri si girarono a guardarlo, sorpresi. "Pensavo di prendere le armi dall’arsenale.

E distribuirle alla gente".

Sancho tornò alla carica.

"Non crederete che possiamo combattere contro di loro?!" inorridì. "Ci ammazzeranno tutti!"

"Gli albari hanno sempre attaccato i villaggi sfruttando l'effetto sorpresa"

spiegò Jimeno "e a quanto ne so, nessuno ha mai cercato di ostacolarli.

Ma noi sappiamo che sono qui, hanno perso il loro vantaggio". Jimeno

richiamò la loro attenzione. "Dobbiamo sfruttare il tempo che abbiamo a disposizione per addestrare i nostri compaesani all'uso delle armi".

Alfonso sbuffò. Non sapeva cosa mai avesse potuto vedere suo padre negli abitanti del villaggio da riporre tanta fiducia in loro. Un borgo molto piccolo, governato dai cristiani fin dai tempi di re Sancho Ramírez e protetto da una buona stella che l'aveva tenuto fuori dalle guerre, era un luogo dove la gente non era abituata a veder scorrere il sangue.

"Sono contadini, pastori, carbonai" aggiunse guardando Sancho, "non sono soldati".

"Neanche quei banditi lo sono" replicò Jimeno. "Ascoltatemi bene: domani mattina presto convocheremo gli uomini alla taverna di Bermudo. Quando ci saranno tutti proporrò loro di andare al castello di Yéquera e di impossessarci delle armi ivi custodite. Istruirò gli abitanti del villaggio, tu mi aiuterai" disse indicando suo figlio. "Così saranno pronti, con il corpo e lo spirito, quando i banditi faranno la loro comparsa". Fece una pausa per riflettere. "Diremo loro che si tratta degli albari" disse "ma solo dopo aver proposto una soluzione al problema".

I dubbi del Nero non erano qualcosa che le parole del bargello o il vento potessero spazzare via.

"Continuo a pensare che sarebbe più opportuno cercare rifugio al castello e chiedere delle truppe che si occupassero dei banditi. Non siamo soldati"

ripeté, riprendendo le parole di Alfonso.

Il figlio vide suo padre perdere le staffe. Diede un calcio ad un sasso sul sentiero che finì a perdersi tra la sterpaglia. Il bargello non era abituato ad essere contraddetto.

"Siamo agli inizi dell'inverno" disse stringendo i denti a causa del freddo.

"Se ci rifugiassimo nel castello a noi non succederebbe niente ma mio figlio non ha tutti i torti a preoccuparsi per il bestiame. Se la gente fosse a Yéquera i banditi potrebbero saccheggiare senza alcun impedimento l'intero villaggio, e state certo che brucerebbero tutto: case, granai, campi e persino la chiesa, se troveranno il coraggio. Una volta che il pericolo fosse

passato e ritornassimo alle nostre case, ci ritroveremmo senza più niente da mangiare né nulla di nostro, a parte l'anima marcia per la vergogna di non aver fatto nulla per impedirlo. No, combattere è la nostra unica scelta"

aggiunse guardando il Nero.

"Ci penserò" accettò Sancho.

Ci penserò? Come se dipendesse da te prendere la decisione… considerò Alfonso. Tuttavia, quelle due parole posero fine alla discussione e continuarono il cammino in silenzio fino a quando poterono scorgere il villaggio in lontananza.

Le sagome degli edifici apparvero loro come un rifugio sicuro. Non solo dai banditi, ma anche dal vento gelido che non dava tregua né ai tre uomini né agli alberi, che ancoravano saldamente le loro radici alla profondità della terra. Le poche foglie, al contrario, venivano strappate senza pietà.

Stavano camminando già da lungo tempo e ad Alfonso dolevano i piedi, mentre gli brontolava la pancia e il freddo lo pugnalava. Immaginava sé stesso seduto accanto al fuoco a contemplare una minestra che sobbolliva, con cipolle e porri che vi galleggiavano dentro. Gli veniva l'acquolina in bocca al solo pensiero.

Invece camminava nel bel mezzo della notte lungo un sentiero pietroso, in preda ai capricci del clima e timoroso che alle sue spalle comparisse all'improvviso un gruppo di mostri sanguinari dai volti bianchi. Quella rischiava di essere la notte peggiore della sua vita e la visione delle colonne di fumo che uscivano dai camini non faceva che peggiorare la situazione. Inoltre…

"Devo pisciare" annunciò mentre si avvicinava ad un leccio solitario.

La sorte aveva scelto un luogo davvero particolare perché Alfonso liberasse la vescica. L'albero svettava tra il limitare del sentiero e un appezzamento di terra in attesa della semina. Quel campo adesso era di proprietà di suo padre ma, non molti anni prima, era stato di proprietà del padre del Nero. Perdette la terra, oltre alla vita, nel momento in cui fu costretto ad affrontare la forca. Adesso quelle terre appartenevano al

bargello; gli erano state assegnate da don Yéquera. Di solito non era Jimeno a lavorarle personalmente, preferiva prendere dei braccianti affinché lo facessero al suo posto. Ma in realtà pensava che non rendessero abbastanza, ragione per la quale negli ultimi tempi le aveva trascurate completamente, e si erano trasformate in una giungla di erba alta che sembrava non avere fine.

Diede uno sguardo a Sancho chiedendosi quali potessero essere i pensieri del carbonaio, trovandosi in quel luogo, ma il Nero rivolgeva lo sguardo verso l'oscurità dei monti, in silenzio.

"Allora, ti decidi o cosa?" si spazientì suo padre, e Alfonso si accinse alla bisogna.

Calarsi le brache con quel freddo non era stata una buona idea. Alfonso si affrettò ad innaffiare della sua urina fumante quell'albero robusto. Si distrasse ad osservare le ghiande sui rami e subito notò una tiepida umidità sui calzari.

"Merda…" Si era quasi ricomposto quando sentì un cavallo sbuffare.

Avevano finalmente trovato i cavalli dei briganti.

Due cavalieri al trotto stavano arrivando lungo il sentiero. Alfonso, Jimeno e Sancho si affrettarono a nascondersi dietro l'albero per evitare di essere visti.

"Esploratori. Probabilmente sono stati ad esaminare il villaggio" ipotizzò il bargello, ignorando la puzza di urina.

Il rumore dei cavalli divenne sempre più forte man mano che si avvicinavano. I tre uomini trattennero il fiato. Quando i cavalieri furono all'altezza dell'albero uno di loro si girò, il volto dipinto di bianco, e il figlio del bargello abbassò la testa. Udì come i cavalli rallentavano il passo fino a fermarsi.

"Credo che ci abbiano visto" mormorò Alfonso.

Ebbe il coraggio di sporgere di nuovo il capo e vide che uno dei due uomini

a cavallo impugnava la lancia mentre incitava il cavallo a saltare il bordo del sentiero. L'altro sguainò la spada. Li avevano scoperti.

"Rimanete vicino all'albero!" ordinò Jimeno estraendo la lama. Fece qualche passo per allontanarsi da suo figlio.

Anche Alfonso impugnava la sua arma mentre il Nero, svelto, raccoglieva da terra alcuni sassi. Il figlio del bargello dubitava che potessero servire a qualcosa, tuttavia non poté evitare di apprezzare il gesto.

Il primo cercò di colpire Jimeno con la lancia, ma il bargello deviò l'asta con un colpo di spada. Tuttavia, così facendo si espose all'attacco dell'altro bandito e venne violentemente travolto dal cavallo. Jimeno accusò il colpo e cadde rotolando più volte su sé stesso, tra rocce e sassi. Il cavallo passò vicino ad Alfonso ma questi non ebbe il tempo di contrattaccare, e la sua spada fendette l'aria. Sentì una risata metallica provenire dall'uomo a cavallo.

"Padre!" esclamò Alfonso mentre si avvicinava a lui per vedere come stava. Jimeno grugniva dal dolore pur impugnando ancora la spada. "Vi sentite bene?"

"Rimani vicino all'albero" biascicò il bargello, puntando un ginocchio a terra per cercare di rialzarsi.

I due cavalieri si stavano girando, pronti a caricare di nuovo.

"Perché?" chiese Alfonso.

Il primo sasso lanciato dal Nero andò perso nell'oscurità, ma il secondo cozzò contro qualcosa di metallico e uno dei banditi gemette. Forse il carbonaio non era molto forte ma poteva fare dei danni, con un po' di fortuna. Anche il terzo sasso colpì il bersaglio. Mancò l'occasione di lanciare il quarto perché il bandito caricò il Nero, che arretrò fin dietro l'albero.

Sancho aveva capito bene il consiglio di Jimeno. Appena il cavallo si fu avvicinato, il carbonaio girò intorno al tronco del leccio per rendere i movimenti del bandito più difficoltosi. Questi fu costretto a fermarsi per

cercare di colpire con la lancia il magro corpo del carbonaio. Alfonso vide in quella manovra un'opportunità di attaccare e si fece avanti con la spada spianata.

Non ebbe modo di usarla.

L'albare descrisse un arco con il braccio e colpì Alfonso in faccia con l'asta della sua lancia. Questi sentì bruciare il lato destro del viso come carboni ardenti e un fischio penetrante gli entrò nella testa. Alzò goffamente la spada in cerca della gamba del cavaliere ma la testa gli girava e finì per cadere a terra senza capire cosa stesse succedendo. L'altro cercò di colpirlo mentre era a terra ma Alfonso rotolò per evitare l'attacco. Sentì un dolore intenso alla natica quando il bandito vi conficcò la punta metallica della lancia.

L'urlo di suo figlio fece reagire Jimeno che colpì di taglio i quarti posteriori dell'animale. La spada penetrò nelle carni del cavallo con uno schiocco e il bargello rigirò la lama nella ferita per provocare un danno ancora maggiore.

La bestia nitrì per il dolore e cominciò a perdere le forze fino a cadere a terra. E il suo cavaliere insieme a lui.

Il Nero fu pronto a lanciarsi sull'uomo caduto e cominciarono a scambiarsi pugni e graffi. Alfonso si trascinò sui gomiti e riuscì ad avvicinarsi all'albero.

Si aggrappò ad un ramo e si alzò; aveva perduto la sua arma. Si girò, sentendo che suo padre stava già combattendo con l'altro bandito a colpi di spada. Pur essendo in svantaggio contro un nemico a cavallo, gli stava dando molto filo da torcere.

Il carbonaio si difendeva con furia, ma le sue forze erano davvero scarse e presto pagò il suo coraggio subendo colpi terribili e versando il suo sangue.

Alfonso afferrò il sasso più grosso che riuscì a trovare e si lanciò in aiuto del Nero. Colpì con furia la testa e la spalla del bandito e continuò a colpire fino a quando la mano cominciò a bruciargli per lo sforzo. Il bandito allora lo prese per il collo con l'intenzione di strangolarlo.

La pittura bianca che aveva sul viso si era tinta di sangue e terra in seguito alla lotta, ed era ferito gravemente; ma la rabbia che vedeva nei suoi occhi

terrorizzò Alfonso. Tutti i suoi tentativi di liberarsi da quella presa furono vani e ormai non riusciva quasi più a respirare quando suo padre venne in suo aiuto, atterrando il bandito con una spallata.

Alfonso cadde in ginocchio e cominciò ad aspirare grosse boccate di quell'aria gelida nel tentativo di riprendersi.

"Insieme… possiamo batterlo" balbettò, riprendendo fiato.

Suo padre fece segno di no, bruscamente.

"Tieni d'occhio l'altro!"

L'altro bandito si teneva in disparte, in attesa, ancora ansimante dopo lo scontro con Jimeno. Teneva la spada in posizione d'attacco ma non dava mostra di volersi buttare di nuovo nella mischia.

"Vigliacco!" esclamò il brigante sconfitto vedendo che il suo compagno si allontanava. “Tuo fratello ti farà a pezzi".

Ma l'altro non si mosse. Jimeno spinse suo figlio lontano dal malvivente.

"Aiuta Sancho e non perdere di vista quell'altro".

Alfonso zoppicando si avvicinò al Nero, che stava ancora raccogliendo sassi da lanciare, ma i suoi movimenti erano lenti e dolorosi. Anche a lui facevano male le ferite.

Adesso erano solo Jimeno e l'albare. Entrambi a piedi e feriti. Si muovevano in cerchio intorno alle piante. Si studiavano con calma. Jimeno prese l'iniziativa e cominciarono a scambiarsi veloci colpi di spada. Il vento portava con sé lo schianto del metallo contro il metallo. Veloce e continuo.

Le braccia si sollevavano e scendevano rapidamente. I due contendenti combattevano per strappare ciascuno la vita dell'altro. Avanzavano.

Arretravano. Clang-clang. Si abbassavano. Si giravano. Clang-clang.

Avanzavano di nuovo. La lotta a morte era una danza frenetica. Non c'era spazio per i passi falsi.

I silenzi si riempivano dei lamenti del cavallo ferito.

Sancho muoveva gli occhi nervosamente. Da Jimeno all'attaccante; al cavallo; al castello; al figlio del bargello, che era ancora a terra. Di nuovo a Jimeno. All'improvviso un momento di confusione tra la sterpaglia; e alla fine vide il bargello scaricare la spada contro il suo avversario. Il brigante si spostò giusto in tempo, ruotando su sé stesso e riuscendo ad evitare un colpo che avrebbe potuto rivelarsi fatale. Jimeno si avvicinò a lui con due ampie falcate. Le lunghe gambe lo aiutarono a giungere sopra il nemico prima che questi riuscisse a rialzarsi. Lanciò vari fendenti che vennero bloccati dalla spada dell'avversario.

Un'altra pausa. Due uomini combattevano e tre stavano a guardare.

Rischiando tutto, gli uni; impotenti, gli altri. I due contendenti ripresero fiato.

Le spade tornarono ad alzarsi.

In un batter di ciglia, la lotta ebbe fine.

"Sì!" esclamò Sancho. "Così si fa!"

La spada del bargello era conficcata nello stomaco del bandito. Nei suoi ultimi istanti aveva cercato di graffiare Jimeno, ma il bargello gli aveva afferrato il polso per impedirglielo. Perse le forze man mano che il suo sangue bagnava la terra. Quando finalmente cadde al suolo, Jimeno liberò la spada e si volse ad affrontare l'altro bandito.

Questi si teneva a prudente distanza, mentre soppesava le diverse possibilità. Il suo compagno era morto e adesso erano uno contro tre.

Spronò il cavallo per girare intorno agli uomini e giunse fino al sentiero, dove si fermò.

"Vieni qui!" lo provocò Jimeno. Il brigante era ancora immobile e muto.

“Vieni a combattere con il bargello di Lacorvilla!”

Dopo qualche istante di esitazione, il malvivente decise che non gli conveniva accettare la sfida e si allontanò. Lo videro sparire nell'oscurità e poco dopo neanche gli zoccoli del cavallo si sentirono più.

Jimeno, ansimante, si avvicinò a suo figlio e diede un'occhiata veloce alla sua ferita. Alfonso era convinto che sarebbe morto o, peggio ancora, che

avrebbe perso la gamba all'altezza della coscia. Suo padre invece gli disse che sarebbe guarito completamente, anche se Alfonso non gli credeva.

"E del cavallo, cosa ne facciamo?" chiese Sancho, indicando la bestia ferita. La spada del bargello aveva provocato uno squarcio impressionante da cui il sangue usciva a fiotti.

Jimeno estrasse il suo pugnale.

"Finiscilo" ordinò porgendogli l'arma. "Non potrà mai riprendersi, e ci metterà molto prima di morire. È la cosa giusta da fare".

Il carbonaio prese il pugnale con cautela e si avvicinò all'animale ferito. Si fermò davanti alla bestia e si rivolse al bargello.

"Perché non mi avete dato prima il pugnale?" si infuriò. "Avrei potuto usarlo contro gli albari".

"Avrei potuto averne bisogno" ribatté Jimeno con le mani sporche di sangue, del bandito e di suo figlio. "Tu eri già a posto con i tuoi quattro sassi".

Il carbonaio si chinò accanto al cavallo e lo accarezzò con delicatezza. Poi lo colpì con il pugnale.

I lamenti dell'animale aumentarono d'intensità. La pugnalata di Sancho non era stata abbastanza profonda e l'animale era ancora vivo. Il carbonaio, spaventato, colpì di nuovo l'animale con identico risultato. Ancora. E

ancora.

"Cosa stai facendo?!" urlò Jimeno vedendo il Nero commettere quella carneficina. Il carbonaio continuava a provare ad uccidere l'animale, ma tutto quel sangue rendeva scivolosa l'arma. Pugnalata. La lama affilata apriva nuove ferite sanguinanti nel cavallo. Pugnalata. Il cavallo era ancora vivo. "Sei più debole di una bambina, togliti di mezzo!" gridò il bargello strappandogli di mano il pugnale per poi colpire con fermezza la povera bestia. I lamenti cessarono all'istante.

Sancho, le braccia coperte di sangue, farfugliava qualche scusa quando

Jimeno gli diede uno spintone.

"Aiuta mio figlio" gli ordinò, rinfoderando il pugnale. "Torniamo in paese".

Capitolo I: IL BARGELLO

Ancora indolenzito e coperto di lividi, Jimeno riaprì gli occhi nel suo letto.

Allungò la mano in cerca di Arlena, ma sua moglie non era più accanto a lui. Girò la testa a destra e a sinistra ma non la vide.

Si alzò dal letto con un lamento. Quel maledetto cavallo probabilmente gli aveva rotto qualcosa. E aveva le mani in fiamme, dopo tutto quel combattere con la spada.

"Arle…" Non riuscì a finire la parola e si schiarì la voce. "Arlena!".

Non ebbe risposta. Si avvicinò lentamente al catino con l'acqua e vide il suo volto riflesso sulla superficie. Malgrado i vistosi lividi sul collo, stava sorridendo. In effetti l'occasione non era da meno. La sera scorsa si era coperto di gloria compiendo l'impresa di diventare il primo uomo ad uccidere un albare di cui si avesse notizia. Non era certo cosa da poco. Era stato necessario mettere in gioco tutta l'abilità di quell'uomo corpulento che ora si trovava davanti al catino.

Jimeno sospettava che il morto fosse stato un soldato, prima di diventare un brigante. Un disertore. Spada di ottima fattura. Giubba di cuoio, cotta di maglia e gorgiera. Per non parlare del cavallo, un vecchio ma robusto destriero che Jimeno rimpiangeva di aver ucciso. Non era qualcosa che un balordo qualunque potesse possedere.

Se sono ancora vivo è perché sono stato più abile con la spada.

Rientrando in paese aveva pensato ad un piano per addestrare i suoi abitanti e cogliere di sorpresa dei semplici briganti, ma adesso era tutto diverso: gli albari non erano semplici briganti, e i villici non godevano più del vantaggio della sorpresa.

E lui non sapeva più cosa fare.

L'acqua fredda sul viso lo aiutò a svegliarsi del tutto. Quando si girò, sua moglie era accanto alla porta.

La maternità rendeva Arlena sempre più bella. La moglie del bargello era abbastanza alta da non sfigurare accanto al suo enorme marito e i sei parti non l'avevano appesantita più del necessario. Aveva ancora un fisico simile a quello della fanciulla che aveva conosciuto un tempo e, anche se i folti capelli castani cominciavano ad incanutire per l'età, aveva ancora quel sorriso… Il sorriso che adesso era dipinto sulle sue labbra.

"Vieni qui…" le disse prendendola per la vita, mentre con l'altra mano cercava di alzarle le gonne.

E così, per due sole parole, in casa del bargello scoppiò una vivace discussione. Le quattro pareti della casa non sembravano abbastanza solide da contenere le urla. I sassi ascoltavano per l'ennesima volta la coppia che rivendicava i propri opposti punti di vista sulla progenie che non faceva che aumentare e sul modo di metterla al mondo.

"Sei mia moglie e devi adempiere ai tuoi doveri!"

"Non se mettono in pericolo nostro figlio". Arlena prese le mani del marito e le appoggiò sul suo addome gonfio. "Stai già mettendo alla prova il mio ventre affinché ti dia dei figli, non insistere a forzarlo anche per ottenere piacere".

Jimeno, più alto di almeno una testa rispetto a tutti gli altri paesani e dalle larghe spalle, si avvicinò a meno di una spanna di distanza da sua moglie.

Ma neanche così riusciva a fare in modo che la donna non sostenesse il suo sguardo, senza mai lasciarsi intimidire dall'imponenza del bargello. Lo sguardo rimase fermo anche dopo una serie di imprecazioni che avrebbero fatto vergognare qualunque uomo timorato di Dio.

Il bargello era passato in pochi istanti dall'euforia all'ira. Era stata una notte lunghissima. Il riposo gli aveva consentito di rilassarsi ma era impaziente che la moglie gli dimostrasse quanto gli era grata per aver salvato la vita a suo figlio Alfonso. Secondo lui era logico che Arlena si dovesse mostrare affettuosa. Era una ricompensa che lui si meritava appieno.

Ma Arlena la vedeva in modo diverso ed era una donna di carattere; di quelle che una volta presa una decisione, difficilmente cambiano idea. Il

bargello lo trovava esasperante.

"Io sono un uomo! E ho necessità che mia moglie non mi può negare!".

Jimeno si diresse in cucina sentendo i passi della sua consorte dietro di lui.

Sul tavolo c'era una leccarda mezza piena, ma non c'era nessuno dei suoi figli. C'era anche del fuoco nella stufa. Debole. Prese un paio di ceppi e li buttò dentro con furia.

Arlena si avvicinò a suo marito, non avrebbe lasciato che Jimeno avesse l'ultima parola.

"Oltre che moglie sono anche madre, ed è mio dovere proteggere i miei figli che sono anche i tuoi" disse mostrando il rigonfiamento costituito dal figlio non ancora nato, e guardò suo marito negli occhi. "Bisogna svuotare l'otre prima di riempirlo di nuovo" lo rimproverò. "Non insistere, dovrai aspettare che partorisca".

"Cosa che avresti già dovuto fare" le rimproverò Jimeno. "Quel bambino è lì da troppo tempo".

Sua moglie aggrottò la fronte e lo indicò con il dito.

"Ti sbagli…" Arlena contò con le dita mentre elencava i mesi uno dopo l'altro. "Novembre, dicembre… non nascerà prima di gennaio".

"Sarà meglio che nasca questo mese!" le ordinò Jimeno, come se dipendesse da lei. "Prima della fine dell'anno. Lo sanno tutti che i figli più forti nascono prima dei nove mesi".

"Mah" disse Arlena sdegnosamente, "nessuno crede a queste cose, lo dicono solo gli ignoranti. E poi ne so più io di te, quanto a partorire".

"Sì, partorire femmine; di partorire maschi te ne intendi meno, a quanto pare. Tre figlie femmine mi hai fatto da quando hai partorito l'ultimo maschio. È tempo che tu mi dia un altro figlio".

Arlena guardò suo marito negli occhi, fiera.

"Non si può intervenire su ciò che Dio dispone al momento del

concepimento. Nascerà un maschio quando il Signore lo vorrà. E se sei così preoccupato per i tuoi figli maschi, dovresti averne maggior cura. Ciò che rende forte un fanciullo è sentirsi protetto fino al momento in cui diventa uomo" osservò. "Qualcosa che non ti riesce poi tanto bene".

Il viso di Jimeno divenne paonazzo dalla rabbia. Come osava Arlena accusarlo di quanto era successo la scorsa notte? Quelle cose accadevano quando avevi a che fare con ladri e disertori. Succedevano e basta. Non era colpa sua.

"Al ragazzo hanno conficcato una lancia nel culo, e allora? È un posto dove non c'è niente di importante" replicò offeso. "Presto starà bene" affermò, "e dovrà ringraziare suo padre che ha ammazzato quel maledetto".

"Eppure ti dico e ti ripeto che non avresti dovuto portare Alfonso con te sulla montagna in piena notte" lo accusò Arlena. "Un uomo più assennato l'avrebbe capito. Il poveretto è a letto, costretto a dormire a pancia in giù perché non può appoggiarsi sulla ferita. Gli fa male".

"E gli farà ancora più male quando si sarà cicatrizzata" dichiarò Jimeno, ben sapendo che far guarire le ferite era una parte importante della vita di qualunque uomo. Essere consapevole del fatto che gli errori provocano dolore. Se invece di rotolare avesse alzato la spada non sarebbe stato ferito. "Il ragazzo ha già sedici anni. Se gli insegno a combattere con la spada è perché presto ne avrà bisogno. Il regno deve espandersi a sud e alla fine dell'inverno il nuovo re convocherà signori e cavalieri". Arlena cercò di intervenire ma Jimeno alzò una mano per fermarla. "So cosa stai per dire: che se il re viene soprannominato 'il Monaco' non sarà poi così ansioso di andare in guerra. Ma io ti dico, donna, che un re deve essere guerriero, che lo voglia o no; e deve sapere che, se non attacca, verrà attaccato. Avrà bisogno di giovani come il nostro Alfonso per farlo e io non permetterò che venga chiamato alle armi senza sapere come si fa ad impugnarle".

Arlena fece segno di no con la testa. I suoi occhi castani erano fissi sul marito.

"Non era quello che volevo dire" replicò. "Dico solo che sbagli a pensare che don Yéquera andrà in guerra con il nuovo re. Quel vecchio è malato, presto perderà di nuovo la ragione e nominerà erede il suo cavallo"

sostenne portandosi un dito alla tempia. In quel momento i suoi figli entrarono in cucina. La piccola Juana era tra le braccia di Sancha.

Mancava solo Alfonso. "Ma non stavamo parlando di adempiere ai miei doveri coniugali?"

Jimeno aggrottò la fronte alla vista del sorriso birichino della moglie. I suoi occhi si spostarono da quel sorriso ai suoi figli, e poi di nuovo al sorriso.

Maledizione, donna, pensò il bargello. Decise che non era il caso di continuare a discutere.

"Meglio non forzare la situazione" mormorò, "magari una delle prossime notti, con delicatezza".

Arlena annuì e fece segno ai suoi figli di sedersi intorno al tavolo. Sancha, la figlia maggiore della coppia, aiutava sua madre ad apparecchiare per la colazione mentre il giovane Ramiro aiutava il padre con il fuoco.

"Come sta tuo fratello?" gli chiese Jimeno. "Ha trascorso bene la notte?"

"Lui non so" disse Ramiro stropicciandosi gli occhi, "ma io non sono riuscito a dormire, tanto si lamenta".

Le fiamme crepitavano nel braciere che proteggeva la famiglia dal freddo esterno. In casa del bargello il fuoco era sempre acceso; la spesa per il combustibile – legna, perché Jimeno la preferiva al carbone – non era un problema, grazie alle rendite che otteneva sia dalla coltivazione di alcuni dei suoi terreni, tra i più vasti in paese, sia per la sua carica di cavaliere e bargello. Ecco perché non si preoccupò del fatto che Ramiro avesse aggiunto troppa legna nel camino.

"Tuo fratello ieri è stato molto coraggioso" disse, "non dimenticarlo e fammi il favore di portargli qualcosa per colazione".

Il bargello e suo figlio si sedettero a tavola e mangiarono. Jimeno spalmò del burro su pane bianco appena sfornato e prese dal tavolo una delle

mele. Ramiro gli passò un coltello e gli chiese:

"Posso venire alla taverna, dopo?"

Il padre guardò il figlio. Il ragazzo voleva prendere parte all'assemblea dei villici. Il bargello aveva convocato tutti gli uomini del villaggio per decidere come fare fronte al problema dei briganti, che Jimeno era convinto non fosse ancora risolto. Il bargello perseverava nel suo tentativo di convincere chiunque fosse disposto ad ascoltarlo a farsi addestrare all'uso delle armi, benché non fosse ancora sicuro che si trattasse della decisione migliore.

Com'era ovvio, Ramiro voleva partecipare.

Decise di cambiare argomento.

"Non dimenticare di esercitarti con la spada quando me ne sarò andato.

Alfonso è a letto, e dovrai essere tu ad occuparti della famiglia".

Sei erano i figli che aveva avuto il bargello da sua moglie: Alfonso, Sancha, Ramiro, Teresa, Jimena e Juana, di appena un anno. Tutti vivevano sotto il suo tetto. La più grande era già in età da marito e i due maschi pronti a mettersi alla prova in combattimento, anche se non erano ancora stati in battaglia.

Alfonso sì.

Jimeno era consapevole dei pericoli della guerra, lui era veterano di molte guerre. I colpi di scure e di spada potevano strappare via a un uomo parte di quello che aveva ricevuto alla nascita, e le ferite da freccia non guarivano mai completamente. Ma inoltre sapeva che non c'erano molte possibilità di prosperare in un minuscolo villaggio come Lacorvilla, se non si rischiava la vita al servizio del re. E il suo posto era in battaglia, non in cerca di fuorilegge e bracconieri.

Il bargello pensò ai suoi due figli e si chiese se la guerra ne avrebbe fatto uomini di valore, storpi o cadaveri.

Finì di fare colazione e si alzò da tavola. Diede un bacio a sua moglie e uscì dalla cucina. Ramiro lo seguì. Jimeno cercava i suoi stivali buoni.

"Allora, posso venire con voi?" insisté suo figlio.

“No”, grugnì il bargello calzando gli stivali. "Ne parleremo più tardi, Ramiro".

Jimeno preferiva calzature leggere anche nei mesi freddi; ma in questo caso voleva offrire ai suoi compaesani l'immagine del guerriero. Ecco perché aveva indossato gli stivali da marcia e, con l'aiuto del figlio, indossò anche la cotta di maglia sopra la giubba. Ramiro, servizievole, gli porse la cintura e la spada, che il padre gli strappò di mano con prestezza. La spada, ormai un'estensione del suo braccio, era molto conosciuta a Lacorvilla. Decise di non prendere il mantello, malgrado il freddo; la taverna era vicina e all'interno del locale c'era sempre il fuoco acceso.

"Padre…"

"Ho detto di no, no!" ripeté il bargello. "Non puoi venire alla riunione. Non sei ancora un uomo".

"Non sono più un bambino!" replicò Ramiro.

"Dimostramelo, figlio mio. Portami la testa di un saraceno o dammi un nipote forte!" esclamò. A Jimeno non dispiacque che il suo ragazzo di tredici anni impallidisse più all'idea di generare un figlio che alla possibilità di tagliare una testa; un giorno suo figlio cadetto sarebbe stato un buon soldato. "Fino ad allora, a meno che non te lo dica io sarai un bambino.

Adesso vai ad esercitarti con la spada".

Mentre suo padre si sistemava la cintura, Ramiro uscì di casa per dedicarsi ai suoi esercizi mattutini. Jimeno si avvicinò all'alambicco che sua moglie usava per distillare liquori. Aprì uno dei recipienti e sentì un forte odore di alcol e mandorle. Vi immerse un dito e lo leccò: troppo amaro per i suoi gusti. Girandosi, vide la donna prendere il mantello che lui non aveva indossato, decisa a seguirlo alla taverna.

"Non voglio che venga neanche tu!" sbottò il bargello. Arlena rimase impietrita dalla rudezza delle parole di suo marito. "È una riunione riservata agli uomini del villaggio. Non ci saranno donne".

"Anche noi vogliamo partecipare. Gli albari non uccideranno solamente gli uomini".

Jimeno avvampò e il cuore cominciò a battergli all'impazzata.

"Chi ti ha detto degli albari?" le chiese, furioso. "È stato Alfonso? Quel ragazzo non sa tenere la bocca chiusa".

"Allora è vero. Ieri ne hai ucciso uno. Anche noi donne dobbiamo venire alla riunione. Tutti abbiamo il diritto di dire la nostra".

"Avrete tutto il tempo di dire la vostra quando avremo deciso. Rimani a casa e continua a fare i tuoi liquori!" Con il dito furioso indicò l'alambicco. "Il liquore di mandorle è amaro".

"È così che deve essere!"

Il bargello uscì in strada sbattendo la porta.

Sentì un brivido quando il suo corpo reagì alla temperatura esterna. La sua dimora era calda e accogliente, come era giusto per un uomo del suo status. Ma il villaggio era un luogo freddo, sempre sotto la minaccia del vento gelido che scendeva dalle montagne. Il suo sguardo si posò sull'orto adiacente alla casa: prima della stagione fredda ormai non si potevano raccogliere che carote, cavoli e poco più. Ma Jimeno non era preoccupato; diversamente da molti altri, aveva scorte di cibo sufficienti per tutto l'inverno e un bel gruzzolo da parte con cui comprare tutto quello di cui avesse avuto bisogno.

La ricompensa per una vita al servizio del re.

"E quello che mi aspetta" mormorò a mezza voce. "Vedrete, vedrete… un giorno o l'altro…"

Jimeno si lasciò alle spalle una discussione di famiglia e, con un umore da cani, andò verso la taverna dove lo aspettava una discussione molto più importante.

*****

A volte qualcuno la chiamava 'La taverna di Bermudo', per via del padrone.

Ma i più la chiamavano semplicemente 'la taverna', era l'unica in paese e non aveva bisogno di un nome. All'interno si svolgeva quasi tutta la vita sociale del villaggio ed era il posto giusto per celebrare quelle riunioni importanti. E l'argomento del giorno, più che importante era vitale.

Jimeno intendeva esporre il suo piano ai compaesani e guadagnarsi la fiducia dei più adatti a portarlo a termine. A questo scopo aveva invitato gli uomini del villaggio, per cominciare ad esporre la sua proposta. Arrivò davanti alla porta e spinse.

Non c'era posto nemmeno per il silenzio. In nessun caso sarebbe potuto esistere in quella densa massa di voci umane che cercavano di farsi sentire sovrapponendosi l'una all'altra. Jimeno aveva invitato solo gli uomini ma persino i bambini piccoli erano presenti, accompagnati dalle loro madri. Tutti volevano dire la loro a proposito della minaccia che pendeva sul villaggio, ed erano ben pochi i compaesani che non erano scesi alla taverna in quella mattinata frenetica.

"Dannazione…" bofonchiò mentre entrava. Abbassò la testa istintivamente per non andare a sbattere contro l'architrave della porta.

Sembrava quasi impossibile che ci stesse anche solo uno spillo in più, con quella marea umana. Ma Jimeno si diede da fare con uno spintone a destra, uno a sinistra e si fece strada nel locale raggiungendo le prime posizioni. Alcuni si spostavano al suo passaggio, altri li spostava lui. Ben presto ebbe i palmi delle mani coperti di sudore altrui. Jimeno grugnì per il disgusto. Al fuoco della taverna si sommava il calore umano, e la temperatura interna era degna quanto meno dell'Inferno.

Guillén era salito su uno dei tavoli del locale e raccontava ai presenti i fatti della sera precedente. Né Jimeno né Alfonso gliene avevano parlato, quindi doveva averlo saputo da Sancho, il Nero. Le sue parole venivano ascoltate dai presenti con grande attenzione e la preoccupazione emergeva decisa al di sopra dell'odore pestilenziale che pervadeva il locale.

"…videro due cavalieri oscuri avvicinarsi a tradimento. Con le loro nere lance pronte ad uccidere…"

In pochi si accorsero della presenza di Jimeno, che ricevette qualche pacca sulla sua eroica schiena. Quando raggiunse le prime file vide sua sorella, Jimena, che era riuscita a farsi largo e si era messa in un angolino.

Schiacciata nel poco spazio a disposizione e respirando la stessa aria impregnata dell'odore di decine di persone scambiò un'occhiata con il bargello.

"Sorella…"

"Jimeno, come sta Alfonso?"

La bocca del bargello si curvò in un mezzo sorriso e disse a sua sorella che Alfonso stava bene. Che non doveva preoccuparsi per suo nipote. Era stato sfortunato, nulla di più. O il cavaliere era stato molto fortunato.

Quando si trattava di lance o di combattimenti, il caso aveva un ruolo importante. La punta della lancia si era conficcata in profondità e non avevano potuto prendersi cura di lui prima di aver raggiunto il castello. A quel punto avevano visto che non aveva perso molto sangue, e che la ferita non era fatale. Gli avrebbe fatto male e poi sarebbe guarita.

"E quando avrà smesso di fargli male gli servirà di lezione".

Jimena rise.

"Una lancia nel culo" osservò scherzosamente, "che grande maestra! E io che credevo che la cosa migliore per i figli fosse insegnar loro un mestiere".

Sorrise mostrando quella dentatura che si era conservata in perfetto stato per più di quarant'anni.

"Il furfante si alzò in piedi, ergendosi imponente accanto al suo cavallo morto. Con occhi accesi dal furore si scagliò su Jimeno e combatterono, combatterono fino alla morte! Cling, clang, facevano le spade…"

Il pubblico era incantato ad ascoltare la storia narrata da Guillén, che agitava le mani e dava calci sul tavolo schivando stoccate invisibili.

"Ha la pelle da pastore ma è nato bardo" disse Jimena, indicando suo marito con un cenno del capo. Il bargello non poté fare altro che annuire: gli sarebbe piaciuto combattere nel duello che Guillén stava descrivendo.

Il pastore non era mai piaciuto a Jimeno. Era un uomo dall'aspetto strano e dagli occhi grigi ancor più strani. Dire che era poco piacente era essere generosi; con la faccia che aveva, non c'era da stupirsi che i suoi nipoti fossero i ragazzini più brutti del villaggio. Eppure, secondo Jimeno, sua sorella era una donna piuttosto attraente benché massiccia, un po' come il bargello. Anche i loro genitori erano stati dei contadini robusti.

Invece Guillén era piccolo di statura, pur avendo le spalle larghe. Piccolo, brutto e non troppo coraggioso. Però era intelligente. E al suo fianco, a sua sorella non erano mai mancate le comodità. Il pastore era riuscito a fare fortuna grazie al commercio e all'artigianato. Allevava agnelli, tosava le sue numerose pecore e Jimena, con l'aiuto di altre donne del paese, trasformava la lana in tessuto e poi in vesti che si vendevano a Luna o ad Ayerbe.

Jimeno non riusciva comunque ad apprezzare fino in fondo quel pastore arricchito, abbigliato come qualcuno che poteva permettersi di possedere diversi vestiti da usare nello stesso mese. Ma era il miglior marito che sua sorella potesse avere a Lacorvilla. E stava raccontando ai villici una storia di cui Jimeno era l'eroe. Si meritava un'opportunità.

"E com'è andata, esattamente?" chiese sua sorella.

Jimeno scrollò le spalle.

"Come racconta tuo marito, no?"

Jimena brontolò.

"In questo villaggio raccontano molte cose, e non è il caso di ascoltarne neanche la metà. L'ultimo pettegolezzo che ho sentito è che Sancho e suo figlio si mangiano il carbone che non riescono a venderci" disse Jimena

"ma prima lo avvolgono in bucce di mela".

"Ah, perché, mangiano mele?" disse il bargello, sarcastico.

Sua sorella stava per rispondere, ma Guillén aveva finito di raccontare la storia e qualcuno aveva messo una mano sulla spalla a Jimeno, chiedendogli:

"Davvero gli avete conficcato una spada nel cuore?"

"Come?" Il bargello si girò verso l'uomo, distratto. Si accorse che tutti lo stavano guardando e sentì un calore improvviso che nulla aveva a che vedere con la temperatura. "No, nello stomaco. In quella zona non ci sono ossa ed è più facile che la lama penetri. La morte non sopraggiunge istantanea, ma è un colpo fatale". Mimò con le mani il movimento della spada che penetra nella carne. "Fatale".

I villici assentirono in segno di approvazione. Un colpo fatale, dissero.

Sissignore, è così che si fa.

Jimeno ricevette altre pacche sulle spalle e parecchi ringraziamenti. Alcuni si informarono sulla salute di suo figlio o sulla gravidanza di Arlena.

Sapendo che presto avrebbe dovuto chiedere loro un favore, cercò di essere tanto cortese quanto le sue rozze maniere da soldato gli consentirono. Normalmente non era una persona benvoluta, ma quando il villaggio si sentiva minacciato nessuno sembrava lamentarsi di avere un bargello che sapeva impugnare la spada.

Non sapeva molto bene come presentare la situazione. Sapeva cosa voleva da loro, ma non come chiederglielo. Per fortuna, sua sorella fece una domanda grazie alla quale ebbe l'occasione di prendere l'iniziativa.

"Alcuni di noi hanno sentito dire che il brigante non era solo" iniziò Jimena,

"cosa ne sapete voi? Ce ne sono altri, sulla montagna?"

Guillén gli tese la mano perché salisse anche lui sul tavolo e Jimeno la accettò. Poi il pastore scese lasciandolo solo. Il bargello fu costretto a tenere la testa china per non sbattere sul soffitto. In paese non costruivano case per giganti. Arricciò il naso sentendo con maggior forza l'odore della gente nella taverna. Era come se dopo essere salito su quel tavolo, l'odore raggiungesse il suo naso più facilmente. Era molto sgradevole, era l'odore di chi ha paura e ha bisogno di essere tranquillizzato. Da lassù vide il volto

annerito di Sancho il Nero. Si scambiarono muti sguardi d'odio. Il bargello sguainò la spada.

Come aveva immaginato, quel gesto attirò l'attenzione dei presenti.

Appoggiò la punta sul tavolo e strinse le dita intorno all'impugnatura, una sensazione familiare che lo fece sentire come un gigante guerriero davanti a quella moltitudine. Batté con il piede sul tavolo per ben quattro volte per attirare l'attenzione di quelli che stavano ancora parlando tra loro. Dovette anche gridare a quelli che non stavano zitti. Voleva dimostrare che l'uomo che bussava alle loro porte per riscuotere le gabelle era qualcosa di più.

Jimeno, il bargello, vegliava su di loro.

“Cittadini di Lacorvilla!” cominciò. “Ieri ho ucciso un brigante, sì. E non credo che fosse solo, no". Un mormorio di preoccupazione corse tra i presenti. Jimeno batté di nuovo sul tavolo chiedendo di fare silenzio.

"Qualche giorno fa, Guillén mi disse che gli era sparita una pecora ma non gli diedi troppa importanza. Sono cose che succedono, lo sappiamo tutti.

Ma alla seconda e alla terza pecora mancanti cominciai ad avere qualche sospetto. Un ladro di bestiame non oserebbe rubare pochi capi alla volta in giorni così ravvicinati. Doveva trattarsi per forza di più uomini".

"Gli albari!" gridò qualcuno. Un coro di voci preoccupate gli fece eco.

Jimeno imprecò. Lo sapevano già. Cercò Sancho tra la folla, certo che fosse stato lui a far girare la voce tra i compaesani senza chiedergli il permesso. Strinse con forza il pomo della spada e decise di continuare, ormai non aveva più senso tirare in lungo.

"Nel momento in cui cominciai a sospettare che ci fossero dei banditi sulle nostre terre mi diressi verso il monte della Carbonera per dare un'occhiata in un certo posto adatto all'insediamento di un accampamento. Sapete bene di cosa parlo: il pozzo di San Giovanni. Portai mio figlio con me ed esplorammo quella zona. Sapete già quello che è successo dopo" e fece una pausa teatrale. "Gli albari sono qui. Non agitatevi, state tranquilli! So cosa fare, adesso" aggiunse, mentre i presenti esprimevano i loro dubbi.

"Ho già avuto a che fare con briganti come questi. Sembrano invincibili ma sono solo dei vigliacchi. Chi si nasconde in montagna in pieno inverno lo fa

perché ha paura di essere scoperto. Ieri abbiamo dato il fatto suo a uno di loro e l'altro è scappato con la coda tra le gambe. Ho intenzione di infliggere lo stesso trattamento a tutti loro.

"Oggi andrò a Yéquera a parlare con il signore del castello e gli proporrò di autorizzarmi a addestrare i miei bravi vicini per condurre una lotta breve e trionfale. Accetterà! Sa che i briganti sono già spaventati perché ieri hanno perso un uomo e adesso sono ancora più deboli. Non chiederò uomini valorosi perché so che in questo villaggio tutti lo sono" affermò. La spavalderia fu ben accolta dai compaesani che lo acclamarono. "Faccio appello agli uomini più forti, uomini che siano in grado di spaccare la testa di quei parassiti con una bastonata. Uomini capaci di colpirli con la loro scure con la stessa facilità con cui abbatterebbero un albero. Uomini che con la forza di chi protegge la sua gente siano disposti a spaccare le ossa a quei disertori. Uomini come Bermudo" esclamò indicando l'oste "che ha tagliato la testa di un maomettano con un solo colpo di spada. Tutti insieme scacceremo quei maledetti e lanceremo un messaggio chiaro ai futuri ladri: nel nostro villaggio non permettiamo che ci rubino ciò che è nostro! Non siamo una banda di codardi che aspetta che altri risolvano i problemi al posto loro, no! Vicini, chi vuole entrare a far parte delle storie che un giorno ascolteranno vostri nipoti?"

Nella taverna sovraffollata si udirono due voci: quella degli uomini, che si sentivano tutti novelli Alfonso I el Batallador, il Battagliero, e quella delle donne che chiedevano di usare il buonsenso prima di prendere una simile decisione, rivolte a mariti che non le ascoltavano. Tutto quel vociare impediva di cogliere anche solo una parola, ma Jimeno capì che era riuscito a convincere molti di loro affinché si unissero all'impresa. Serrò le dita intorno alla spada e si concentrò sulla solidità dell'impugnatura. Certo, quella spada il giorno prima gli aveva fatto ottenere una piccola vittoria, ma presto l'avrebbe impugnata davanti ai suoi uomini. Chissà quanti dei presenti si sarebbero rivelati buoni soldati?

Sancho il Nero si avvicinò al tavolo a sua volta e fece per salire. Jimeno gli mise un piede davanti e glielo impedì.

"Che cosa vuoi?" gli disse dall'alto, aggressivo.

"Non avete detto che ad ammazzarlo siamo stati in tre" lo accusò il Nero.

"E dei due che erano, ne abbiamo fatto fuori uno solo".

Sancho voltò le spalle a Jimeno. Rinunciò al tavolo decidendo di salire su uno sgabello, e Jimeno non poté evitarlo. Per qualche ragione che il bargello non riusciva a capire, il Nero sapeva suscitare una certa simpatia intorno a sé.

La miseria in cui versava e la sua sfortuna lo avevano reso una persona da compatire. La sua sagoma sottile si erse in modo da poter essere visto sopra le teste degli altri; era un uomo di bassa statura ed emaciato. Aveva la pelle scura a causa dello strato di carbone che mascherava il suo vero colore. Jimeno non poteva vederlo in faccia ma immaginava che stesse esaminando i visi dei presenti con quei suoi strani occhi. Gli occhi ossuti di un teschio in preda all'agitazione. Tossiva ininterrottamente. I capelli lunghi e scoloriti e la barba incolta gli conferivano un aspetto miserabile.

Indossava pesanti scarpe invernali, confezionate da lui stesso, ma il resto del suo abbigliamento testimoniava l'estrema miseria in cui viveva. La camicia e le brache avevano più rammendi che stoffa originale e per quanto lavasse i suoi vestiti, le macchie dovute all'usura non si potevano pulire. Erano inoltre abiti troppo grandi per il suo corpo smagrito, e nessuno in paese si sarebbe stupito se li avesse rubati a un morto; era in effetti una delle voci che circolava su di lui, insieme a molte altre.

Jimeno si infuriò vedendo che in taverna regnava il silenzio senza che Sancho avesse dovuto chiederlo. Il dannato carbonaio voleva sempre esprimere la sua opinione, sapendo che sarebbe stato ascoltato: ma il risultato avrebbe potuto rivelarsi fatale. Jimeno fu costretto a pensare in fretta come poter ribattere efficacemente alle sue parole, in caso contrario il carbonaio sarebbe riuscito a far dimenticare immediatamente ai compaesani il coraggio che Jimeno aveva appena suscitato in loro.

Maledetto Nero!

Il carbonaio parlò.

"Non temo di unirmi alla lotta con i miei compaesani. Però mi piacerebbe capire con certezza quale sia la minaccia che dovremo affrontare. Il bargello non vi ha detto tutta la verità" annunciò il Nero. "Forse non ha voluto spaventarvi spiegandovi quello che sta succedendo veramente, ma prima o poi lo scoprirete e a me sembra giusto che lo sappiate tutti.

Abbiamo dovuto metterci in tre per sconfiggere uno solo di loro. E ce l'abbiamo fatta solo perché l'altro brigante è rimasto a guardare".

Quelle affermazioni sì che provocarono una gran confusione. Per qualche minuto fu impossibile ristabilire il silenzio e alcuni, tra i quali vi erano uomini forti come quelli che cercava Jimeno, persero la speranza.

"Jimeno, è vero?"

"In tutti i gruppi di guerrieri c'è sempre qualche valoroso e qualche codardo" disse loro. Quel dannato Sancho stava minando la fiducia dei loro compaesani con storielle dell'orrore buone per i bambini. Il bargello pensava che gli albari non fossero pericolosi neanche la metà di quanto pensavano gli altri. "Quello coraggioso è morto ieri. Quante possibilità ci sono che gli altri albari siano tutti come quello che è morto e non come quello che è fuggito? Nessuna! Non sono fantasmi, né mostri, né spettri maligni. Sono semplici briganti sfuggiti alla giustizia per troppo tempo. Non bisogna trasformare in diluvio delle semplici gocce d'acqua. Non lasciate che Sancho vi inondi di paura. Tutta la fama di cui godono gli albari non è che una leggenda, e solo i bambini si spaventano per le storie di mostri".

Jimeno rifletté che forse chiamarli bambini non era stata un'ottima idea, ma almeno era riuscito a mitigare le loro preoccupazioni circa i briganti. Strinse i denti mentre pensava a cos'altro dire.

Il Negro lo anticipò.

"Come potete dire così, dopo quello che è successo durante gli ultimi inverni?" disse a voce bassa, come se gli stesse rimproverando un comportamento indegno. "Che cosa credete che ci renda diversi dagli altri villaggi?"

"Io!" rispose immediatamente il bargello. "Io sono qui, con voi. Gli altri

villaggi erano indifesi e sono stati devastati, ma qui ci sono io per fare fronte al pericolo. Ciò che ho detto prima non è cambiato: voglio uomini disposti ad opporsi a quei briganti. Che siano albari o no".

"Non sono briganti!" gridò un vecchio. "Sono demoni!"

"Io ne ho ucciso uno con la mia spada" gli ricordò. "Come demone non era un gran che".

Accompagnò le sue parole con dei colpetti sull'impugnatura della spada.

Anche la cotta di maglia che gli ricopriva il braccio tintinnò. Voleva dimostrare loro che per quanto potessero sembrare terribili, gli albari non erano diversi da qualunque altro uomo. Tutti morivano.

"Voi siete un guerriero, noi lavoriamo la terra" disse Sancho. Il bargello si concesse un mezzo sorriso. Il Nero coltivava la terra ma non era la sua terra. Da anni ormai quei campi erano di proprietà del bargello. Sottratti al padre del Nero, condannato per omicidio. Forse Jimeno sarebbe riuscito a sfruttare quel fatto per mettere fine a quella discussione spiacevole. "Non abbiamo la vostra abilità nel combattimento e se affrontassimo uno di loro le conseguenze sarebbero molto peggiori di questi lividi".

Il Nero indicò il collo di Jimeno. Con quel dito ossuto di chi non mangiava, né tanto né poco. Sancho era costretto a fare una quantità di mestieri per riuscire a ricavarne qualcosa. Quando non preparava il carbone coltivava terre altrui, in cambio di un pugno di fagioli; rammendava calzature in cambio di un paio di cespi di lattuga, se era fortunato; faceva qualunque cosa gli impedisse di morire di fame. Erano anni che il suo corpo non era che pelle e ossa, eppure era ancora tra i vivi per dare fastidio a Jimeno, costretto a fare i conti con la sua imbarazzante presenza.

Alcuni dei compaesani si stavano convincendo che combattere fosse inutile. Jimeno sbuffò per la disperazione. Malgrado fosse evidente che erano minacciati, molti si rifiutavano di vedere che il pericolo era reale e che prima o poi avrebbero dovuto farvi fronte. Volenti o nolenti.

"Noi non siamo guerrieri" dicevano.

"Possiedono spade e cavalli".

"Moriremo".

Jimeno colpì il tavolo con tale forza che temette si potesse spezzare sotto i suoi piedi. Tutte quelle chiacchiere gli stavano facendo bollire il sangue più del calore umano che quegli animali spaventati sprigionavano.

"Allora darete la vostra vita, se sarà necessario, per proteggere i vostri cari.

E lo stesso farò io" assicurò. "Albari o no, quei ladri non abbandoneranno queste terre finché non avranno preso tutte le pecore, le galline e le vacche che vorranno. E se le nascondessimo in paese, brucerebbero i campi.

Assalteranno i nostri granai e se qualcuno cercherà di impedirglielo senza nessuno a coprirgli le spalle, lo passeranno a fil di spada. E così, uno alla volta molti di noi cadranno. Non vedete? Fare a si-salvi-chi-può non funzionerà. Dobbiamo combattere!"

"Se decidiamo di combattere, moriremo tutti" replicò Sancho. "Quel che dobbiamo fare è chiedere aiuto al re. È ora che i soldati si decidano a fare il loro lavoro. Dobbiamo mandare una lettera al sovrano, ecco cosa dobbiamo fare" aggiunse. "Guillén potrebbe scriverla".

Era veramente troppo. Non poteva più sopportare tutte quelle lamentele.

"Il re non darà alcuna importanza alla lettera di un pastore" spiegò Jimeno.

Guillén chinò la testa a quelle parole. "Ha ben altro da fare, come occuparsi degli Ordini Militari e riorganizzare il regno che gli ha lasciato suo fratello Alfonso. L'unico aiuto che avremo sarà quello che noi stessi potremo concederci. Solo noi!" Si girò verso il carbonaio. "E tu, Sancho, sei il meno indicato per attribuire responsabilità ad altri. A tuo padre non è servito a niente, e non servirà a te. Impara e insegnalo a tuo figlio".

Sulla taverna piombò un silenzio mortale. Quello era un discorso molto serio. Jimeno sapeva bene che nessuno nominava mai il padre del Nero, per rispetto nei confronti del figlio e di sua madre.

Guillén si avvicinò a suo cognato.

"Jimeno" sussurrò, "non c'è bisogno di tirare in ballo i brutti ricordi. Il

passato è passato".

"Non si può incolpare il figlio dei peccati di suo padre" mormorò Sancho.

"Porti il marchio di Caino!" lo accusò Jimeno, puntando un dito accusatorio che fece rabbrividire il carbonaio.

Sancho non osò dire altro. Il carbonaio uscì dalla taverna, coperto di stracci e sconfitto, lasciando a Jimeno l'ultima parola.

"Condivido le preoccupazioni del Nero, e quelle di voi tutti. Vi assicuro che non lasceremo niente al caso. Spiegherò i miei piani a don Yéquera; lui ci fornirà le spade e le lance grazie alle quali potremo difenderci. Chi vorrà accompagnarmi, sappia che sarò alla Fontana Nuova a mezzogiorno.

Con quelle parole, Jimeno mise fine all'assemblea. E anche se alcuni continuavano ad avere dei dubbi, il bargello non volle dare ulteriori spiegazioni. A poco a poco, la taverna cominciò a svuotarsi. Il bargello scese dal tavolo.

*****

Jimeno si avvicinò al bancone della taverna facendo tintinnare l'armatura.

Bermudo stava ritirando i pochi bicchieri che aveva servito durante la riunione. C'era ancora qualche avventore e l'odore di quelli che se ne erano andati ristagnava, ma ormai ci si poteva muovere senza bisogno di farsi largo e venire in contatto con altri corpi.

Si girò verso il bancone e si accorse che Bermudo lo stava guardando con attenzione.

"Se mi avessi spaccato il tavolo, sai che ti avrei ammazzato" disse con gli occhi fissi sugli stivali del bargello.

Né quello che aveva detto né il tono confidenziale che aveva usato l'oste gli diedero fastidio: Jimeno sapeva che tipo era Bermudo, aggressivo e poco incline a discolparsi. Jimeno si sedette su uno sgabello e concesse al suo corpo di riposare. Portare addosso quell'armatura era estenuante.

"Ed è l'unica cosa che hai notato?" chiese appoggiandosi al bancone. "Che ho dato una botta al tavolo?"

Bermudo schioccò la lingua.

"Hai detto pure che ho staccato la testa a un saraceno in un sol colpo"

aggiunse. Lanciò un paio di bicchieri nel lavatoio, incurante se si potessero rompere o no. "Non è vero. Mi ci sono voluti due colpi" spiegò, "perché il maledetto indossava una gorgiera che l’ha protetto dal primo colpo".

Sentendo quelle parole, Jimeno sentì un fastidio al collo. Non perché l'oste l'avesse accusato di qualcosa che in effetti era vero, ma perché gli aveva ricordato che indossava ancora la cuffia, che gli sfregava sul collo ogni volta che si girava. Decise di toglierla.

"Le verità migliorano se le abbellisci un po'" spiegò. "Alla fine l'hai ammazzato, no? È quello che importa".

Il bargello cercò l'allacciatura della cuffia per toglierla. Bermudo lo indicò con il suo grosso dito.

"Quell'armatura non ti ha protetto dal Nero" disse. Poi si offrì di aiutare Jimeno a togliersi la protezione di maglia.

Le grosse mani dell'oste cercarono l'allacciatura fino a trovarla. Con gesti bruschi tolse la cuffia dalla testa di Jimeno e la lasciò cadere sul bancone.

Il bargello lo ringraziò con un cenno del capo.

"Alla fine ho vinto" disse togliendosi i guanti. I dischetti di ferro che vi erano cuciti tintinnarono contro la cuffia. "Se n'è andato con la coda tra le gambe".

"Gli hai dato una pugnalata a tradimento, senza che nessuno si accorgesse delle tue intenzioni" lo accusò Bermudo prendendo uno straccio per pulire il bancone. "Non mi aspettavo da te una cosa del genere".

"Era necessario" si difese. "Quell'imbecille stava minando il morale di tutti i presenti. Non ho bisogno che qualcuno ricordi ai nostri compaesani quanto

può essere pericoloso quello che ci accingiamo a fare, inducendoli a pensare che qualcuno possa farlo al posto loro. Ho bisogno che la gente del paese ci creda, a quello che ho in mente" spiegò. "Il Nero li stava solo spaventando".

Se Bermudo era della stessa opinione, non lo diede a vedere. Continuò a pulire con calma e lanciando ogni tanto un'occhiata verso la porta, come se si aspettasse che da un momento all'altro qualcuno entrasse nella sua taverna.

"Bevi qualcosa o no?" chiese, cambiando argomento.

La sua grossa mano indicò i ripiani alle sue spalle. Tutti i barili e le giare che vi erano appoggiati erano contraddistinti da segni che servivano ad indicarne il contenuto. Bermudo, come Jimeno, non sapeva leggere. Ecco perché utilizzava dei segni che gli erano familiari per differenziare le diverse bevande. Jimeno conosceva bene quelli delle grappe. Sua moglie le preparava negli alambicchi che aveva a casa e poi le vendeva a Bermudo. Finalmente trovò quello che cercava.

"Mezzo di sidro" e in risposta allo sguardo incredulo di Bermudo, aggiunse:

"per schiarirmi la gola".

"Mezzo sidro... cosa mi tocca fare" si lamentò. Mise svogliatamente un bicchiere sotto il cannello del barile e lo riempì fino a metà. Nemmeno una goccia in più. "Pessimo inverno questo, se neanche il bargello può permettersi un dannato bicchiere di sidro. Posso contare sulle dita di queste mani le bevande che ho servito oggi" assicurò l'oste aprendo le mani. Erano forti e accoglienti. Di tutti gli uomini del villaggio, Bermudo era l'unico che in qualche occasione era riuscito a far innervosire il bargello, tempo addietro. Eppure, da quando aveva comprato quella taverna era diventato un uomo tranquillo, molto diverso dall'orco che Jimeno aveva conosciuto in gioventù; quando ancora si spaventava vedendo quello che un uomo era capace di fare a un altro uomo. "E tutto il dannato villaggio è nella mia taverna!" urlò ai compaesani che sgattaiolavano via senza aver bevuto niente.

Rimasero soli.

Non ho permesso ad Arlena di venire e c'erano qui non solo tutte le donne, ma anche le vecchie, pensò Jimeno. Eppure, si accorse di una cosa.

"Tutti no" puntualizzò il bargello. "Ruderico non c'era".

L'osservazione non era scevra di significato. Jimeno non aveva visto il sacerdote partecipare all'assemblea e immaginò che le informazioni su ciò che era stato detto gli sarebbero giunte da altre vie. Decise di passare dalla chiesa a parlare con lui, e così assicurarsi che gli arrivasse all'orecchio la versione corretta.

"Quello viene solo ogni tanto, la sera" disse Bermudo. "Per giocare ai dadi, a carte o a quello che capita. Non che il prete goda di particolari aiuti di natura divina" aggiunse, "non è di quelli che vincono, insomma".

"Perde molti denari?" si interessò Jimeno.

L'oste tacque un momento, non sapendo se fosse o meno opportuno parlare di quelle faccende con il bargello. Jimeno continuò a sorseggiare il sidro. In attesa che l'altro parlasse. Senza fretta.

Il bargello pensava che, se il prete fosse stato a corto di denari, sarebbe stato facile tirarlo dalla sua parte facendogli qualche regalo, all'occasione.

Un poco di liquore, qualche dolce appena fatto, dei calzini pesanti... piccoli favori che Jimeno prima o poi avrebbe fatto valere.

Benché fossero soli, Bermudo guardò a destra e a sinistra.

"Mah… quando ci sono delle monete in ballo" finì per dire, "non sempre.

Non mi piace vedere certe cose nella mia taverna. Ogni tanto li accontento, per dovere di cortesia" aggiunse sorridendo al bargello, dato che sarebbe stata sua responsabilità fare in modo che tali giochi non fossero praticati nel loro villaggio. "Ma non giocano quando c'è gente. Non mi piacciono le chiacchiere e il gioco ne provoca in abbondanza. Lo sai che dire qualcosa qui… è come dar fuoco alla paglia".

Jimeno sapeva bene di cosa stesse parlando l'oste. I pettegolezzi erano

molto pericolosi per la reputazione di un uomo. Ancora di più per una donna. Non si era mai abbastanza prudenti nel parlare o nell'agire. Tutto poteva essere... interpretato.

Finì di bere e appoggiò delicatamente il bicchiere sul bancone di legno.

Chiese l’altro mezzo bicchiere di sidro. Bermudo si avvicinò al barile; passando vicino al braciere si accorse che si stava spegnendo e si fermò ad aggiungere un po' di carbone per ravvivare il fuoco.

Il carbone del Nero.

Bermudo, senza neanche pulirsi le mani, riempì di nuovo il bicchiere fino a metà. Un po' meno, notò il bargello, ma lasciò correre.

"Quindi, denari non ne perde..". indagò. Bermudo negò con la mano e non disse altro. Lasciò il sidro davanti a Jimeno e si avvicinò di nuovo al braciere. Con le dita aveva lasciato un paio di impronte nerastre intorno al bordo del bicchiere. "E tu?" gli chiese accompagnando la domanda con un sorriso, perché sapeva che stava forzando la situazione.

"Io non gioco più. Ho perso molto denaro quando ero giovane, me lo potevo permettere perché per un soldato c'era sempre il bottino" ricordò con un sorriso, mostrando i due buchi nella mandibola sinistra. Il colpo di una mazza ferrata. "Ma adesso non sono in grado di andare in guerra e non intendo rischiare quello che possiedo giocando ai dadi o alle carte".

Jimeno si chiese fino a che punto il buon senso nascondesse la paura.

Bermudo era ancora un uomo forte. Guerriero formidabile tempo addietro, era stato ferito gravemente e aveva abbandonato la vita del soldato. Con il denaro messo da parte aveva costruito quella taverna che era la sua unica fonte di sostentamento, e aveva lasciato che il suo corpo aumentasse di volume a causa di una vita inattiva.

Il bargello era diverso, aveva ancora delle aspirazioni. La guerra poteva fare grandi cose per un uomo e lui non era disposto a lasciare le armi.

Voleva di più, anche se non sapeva esattamente cosa.

Guardò l'oste.

"Credevo che i vecchi guerrieri non fossero mai abbastanza vecchi".

"L'anca..". si lamentò Bermudo, "ormai non posso più montare a cavallo.

Ma non avrò problemi a spiccare qualche testa, se ne avrò l'occasione. In un sol colpo" puntualizzò.

E mentre parlava mostrò l'arma che teneva sotto il bancone.

Era un'ascia d'arme, di quelle che chiamano 'ferrate' perché interamente in ferro, abbastanza pesante da assestare colpi potenti ma abbastanza piccola da poter essere brandita da un uomo a cavallo. Sul lato opposto alla lama presentava uno spuntone usato per colpire le armature dei nemici.

"È ancora affilata?"

Bermudo assentì con orgoglio.

"Speri di averla a tua disposizione quando ci scontreremo con gli albari?"

Il bargello sorrise, si scolò l'ultimo goccio rimasto nel bicchiere e lasciò cadere una moneta sul bancone. Prese la cuffia e i guanti, si aggiustò la cintura e si diresse all'uscita.

Quando si trovava già sulla soglia Bermudo gli disse:

"Il Nero è un tipo coraggioso. È un dato di fatto". Jimeno si girò verso l'oste e con un cenno gli fece capire che non sapeva di cosa stesse parlando.

"Forse proprio in questo momento sta pensando di andare alla Carbonera, anche se ci sono gli albari. È l'unico luogo dove c'è qualcosa che può considerare veramente suo" disse con il viso serio. "Lavora duramente, fa il carbone. Poi, con la sua abilità con le parole, ce lo vende. È un tipo sveglio. Qui tutti bruciamo il suo carbone. Puoi sentirne l'odore ad ogni passo, per le strade del villaggio. È come se avessi sempre un braciere sotto il naso".

"Non capisco..". cominciò Jimeno prima di essere interrotto dall'oste.

"È l'unico in paese che si rallegra se l'inverno è così freddo che le palle ti si incollano alle gambe. E non è che sia meschino" spiegò. "è che se non

facesse freddo, Sancho non avrebbe modo di tirare avanti. E nemmeno García, suo figlio, che è un bravo giovane. Se gli albari sono alla Carbonera, non c'è alcun modo per il Nero di fare il carbone da vendere"

spiegò guardando fisso il bargello. "Senza carbone niente denari, e niente cibo. E il Nero muore. Lui lo sa" continuò, "questo è certo. Eppure, ritiene che sia meglio aspettare che dei veri soldati si occupino di quei briganti bianchi" rifletté battendo sul bancone con le nocche. Alzò gli occhi verso il bargello. "Mi fido più del giudizio di un poveraccio coraggioso che fa prevalere il buonsenso alla fame che di un bargello, anch'egli valoroso, che dà per scontato che una banda di contadini potrà far fronte a guerrieri di lungo corso".

Jimeno fece schioccare la lingua. Era seccato al pensiero di essere l'unico in paese a credere veramente che la sua gente avrebbe potuto farsi valere da sé.

Sguainò la spada e la mostrò a Bermudo. Metallo di qualità. Ben affilata.

"Io non sono nato sapendo già impugnare una spada. Mio padre me le ha date con una di queste finché ho avuto più lividi che pelle. E man mano che guarivano, io diventavo più abile e beccavo meno botte. Con il tempo, fu lui che cominciò a lamentarsi dei dolori" dichiarò orgoglioso. "È la pratica a fare il maestro".

Jimeno ruotò la lama facendola luccicare e la rinfoderò. Resse lo sguardo dell'oste.

Io insegnerò loro a combattere. Spada, scure e mazza. Ci eserciteremo fino a quando non ce la faranno più. In due giorni saranno migliorati abbastanza da rendersene conto loro stessi. E al crescere dell'abilità aumenterà anche la fiducia. Non saranno diventati dei bravi soldati, ma saranno buoni per combattere.

Bermudo sapeva bene quali fossero i pensieri del bargello.

"Guarda, Jimeno, ti dirò una cosa" lo avvertì appoggiandosi al bancone.

"Non riuscirai a reclutare truppe per le guerre future. Quelli del villaggio non sono buoni per fare i soldati. Tre o quattro al massimo. Gli altri sono

contadini dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi: non saprebbero lottare neanche se glielo insegnassi tu personalmente. L'unica cosa che potresti ottenere mandandoli contro gli albari sarebbe farli ammazzare. No"

tagliò corto mentre prendeva la scopa e usciva da dietro il bancone per spazzare il pavimento del suo locale. Il vecchio oste non sembrava proprio un guerriero. "Se non dovessero venire, non andare a caccia di problemi.

Chiedi aiuto al re o a chi vuoi tu. Proteggi la tua gente dagli albari e non li coinvolgere. Non ne vale la pena. Accontentati della vita che hai. Dedicati a coltivare la terra, carote, fagioli, cipolle, qualsiasi cosa. Non sei poi così giovane come credi" aggiunse stancamente. "Basta con le avventure. Fai altri cinque figli e lascia che combattano loro, se lo vorranno. Non siamo più quelli di una volta".

*****

A metà pomeriggio, Jimeno pensò di aver ormai assolto la missione che si era dato fatta di discorsi, spiegazioni e promesse di successo. Da quando aveva fatto sentire la sua voce alla taverna, i compaesani erano venuti da lui in cerca di altri dettagli su quello che intendeva fare. Di quanti uomini abbisognava? In che modo intendeva addestrarli? Avrebbe consentito loro di portare le armi in paese? Don Yéquera li avrebbe accolti nel suo castello? In che modo sarebbe stato riconoscente per il servizio reso?

Avrebbero ricevuto il soldo?

Il bargello era stato felice di constatare che nessuno più gli chiedeva quanti fossero gli albari e se fossero davvero pericolosi. Molti erano entusiasti all'idea di combattere. Erano ansiosi di raggiungere Yéquera. E anche Jimeno lo era.

Tuttavia, aveva accettato il consiglio di Bermudo e aveva fatto scrivere a suo cognato una lettera per il re in cui chiedeva aiuto, anche se non aveva molte speranze di ricevere una risposta soddisfacente. O anche solo una risposta.

Alla fine, i preparativi avevano richiesto più tempo del previsto; quando infine percorse insieme al figlio minore la discesa che portava alla Fontana

Nuova, l'ora meridiana era ormai passata. I raggi del sole che tramontava a ovest illuminavano la moltitudine accorsa vicino a casa del fornaio. Il viaggio aveva suscitato grandi aspettative e sembrava che mezzo paese si fosse dato appuntamento per vederli partire.

Fermarono i cavalli e osservarono la gente lì riunita.

"Quanta gente!" esclamò Ramiro, evidentemente sorpreso. "Credo che i vicini siano dalla vostra parte, padre".

"Non perdere tempo a chiacchierare con loro" ordinò Jimeno al figlio, smorzando il suo entusiasmo. "Dobbiamo partire al più presto".

"Sì, padre" rispose obbediente mentre spronava il cavallo per non fermarsi.

Jimeno vide suo figlio avvicinarsi baldanzoso al gruppo di compaesani e si concesse un sorriso orgoglioso, vedendo come la gente lo guardava.

La maggior parte degli abitanti del villaggio indossava una camicia e delle braghe. Alcuni avevano una giubba e la maggior parte di loro si proteggeva dal freddo con una ruvida cappa di lana. Ramiro invece indossava un'elegante tunica color verde chiaro a maniche lunghe, ottimi stivali da monta del miglior cuoio che si fosse visto in paese e un mantello con la chiusura d'argento. I capelli neri erano coperti da un basco rosso, simile a quello usato dai nobili della Navarra.

"Ecco qui un bel signorino" aveva detto Arlena dopo avergli sistemato il mantello sulle spalle. "Al cospetto di don Yéquera comportati con educazione. Dimostra che sei un gentiluomo e non limitarti a sembrarlo".

Sua madre si era data molto da fare affinché Ramiro si distinguesse dai villici che sarebbero andati a incontrare il signore del castello.

Il piano di Jimeno prevedeva che i suoi figli facessero visita a don Yéquera; l'allegria della gioventù era quel che c'era di meglio per far tornare le forze a un vecchio. Desiderava che l'anziano cavaliere si sentisse a suo agio con i ragazzi mentre Jimeno esaminava l'arsenale del castello. Se quello che conteneva fosse stato di suo gradimento avrebbe fatto richiesta di poterlo portare con sé per addestrare i villici; lo avrebbe portato via comunque. E

don Yéquera avrebbe accettato molto più facilmente di cedere le sue armi se fosse stato di buon umore.

Arlena non dimenticava neanche per un attimo quello che era successo a suo figlio Alfonso, e per andare al castello non si poteva non passare nelle vicinanze della Carbonera. Aveva accettato obtorto collo che Ramiro accompagnasse il padre, e solo dopo che Jimeno le aveva giurato più e più volte che non avrebbe permesso che a suo figlio accadesse niente di male.

Qualcuno alle sue spalle si schiarì la voce e Jimeno vide dietro di sé sua sorella a cavallo di Roccia. Il mulo non sembrava felice di avere Jimena in groppa. E nemmeno quelle grosse bisacce.

"Vieni al castello?" chiese Jimeno, indicando le bisacce.

"No, è solo che avevo voglia di fare un giretto su questo mulo puzzolente"

sospirò rassegnata mentre si risistemava sulla cavalcatura. "Ho parlato un po' con tua moglie. Abbiamo preparato una torta per don Yéquera, qualche liquore e della biancheria, di ottima qualità naturalmente". spiegò.

Jimeno volse di nuovo lo sguardo verso le bisacce che probabilmente contenevano la biancheria. Prodotta nel vecchio capanno vicino alla chiesa, trasformato da sua sorella in un laboratorio che fruttava dei bei soldi. Grazie alla lana di Guillén e con la benedizione di padre Ruderico, che si teneva una parte degli incassi per la cessione di quello spazio.

Se non puzzano quanto quel pollaio dove sono stati tessuti, sono sicuro che finiranno per prendere l'odore disgustoso di questo mulo.

"E così... dei regali, eh?" indagò il bargello.

"Qualcuno in questa famiglia deve assumersi il ruolo di testa pensante, un forte braccio non basta" gli rimproverò Jimena. Poi si volse verso i suoi compaesani. "Sembra che siano venuti tutti a salutarci" osservò, "neanche fossimo destinati a morire lungo la strada..".

Jimeno grugnì e guardò tutta la gente riunita davanti al forno. Più persone di quante lui riuscisse a contare ronzavano intorno ad un carretto trainato da due asini, guidato da padre Ruderico. I suoi folti baffi si agitavano di qua

e di là, evidentemente era nervoso all'idea di cosa avesse in serbo per loro quel viaggio. Il bargello fu lieto che il sacerdote si fosse aggregato al gruppo, e anche del fatto che si fosse portato dietro il carro. Su quel carro Jimeno sperò di poter portare in paese le armi custodite al castello.

A giudicare dal fumo che usciva dal camino, il fornaio doveva aver acceso il forno per vendere i suoi prodotti appena sfornati alla gente in attesa davanti alla sua bottega. Ad averci pensato prima, Jimeno avrebbe potuto fissare il luogo di ritrovo a casa sua, così Arlena avrebbe potuto vendere qualche liquore.

Non si può pensare a tutto, si lamentò.

Raddrizzò la schiena e spronò il cavallo affinché avanzasse con portamento fiero, dando ad intendere che aveva tutto sotto controllo. Sua sorella lo seguiva con Roccia.

L'ambiente profumava di pane caldo e di aria fredda. La gente si era suddivisa in capannelli e si scambiava opinioni, e un otre di sidro mezzo vuoto passava di mano in mano. I villici sembravano oziosi e Jimeno guardò verso il sole calante.

Non gli sorrideva per niente l'idea di dover cavalcare così di fretta fino a Yéquera con le notti che arrivavano così presto in quel periodo e gli albari che infestavano i paraggi. Meglio partire al più presto.

Jimeno e Ramiro erano gli unici a cavallo. Jimena aveva il mulo. Gli altri viaggiavano a piedi o sul retro del carretto.

Il corpo del bargello ebbe un piccolo brivido a causa del freddo. Raddrizzò le spalle facendo finta di niente e si sistemò il pesante mantello di lana. Da Lacorvilla al castello di Yéquera c'era solo un miglio di distanza, ma dovendo girare intorno alla Punta del Paco la strada si allungava diventando tre volte tanto.

"Cosa stiamo aspettando?" volle sapere guardando i suoi vicini dal cavallo.

La risposta non gli giunse gradita.

L'uomo che era tutto ossa uscì dalla bottega del fornaio a lunghe falcate.

Proteggeva dal vento una grossa pagnotta, appena fatta. Il nero se la passava da una mano all'altra quando il calore diventava insopportabile. Si avvicinò al carretto a passo lesto e con un salto salì sulla parte posteriore, che il suo modesto peso non spostò neanche di mezzo pollice.

"Che cosa ci fa qui Sancho, padre?" chiese Ramiro. Come suo fratello maggiore, condivideva l'astio del genitore nei confronti del Nero.

"Anch'io vorrei saperlo".

"Vado a trovare mia madre" spiegò Sancho. Jimeno schioccò la lingua ricordando che la madre di quel miserabile era la fantesca del castello. Per ragioni che lui non riusciva a capire, don Yéquera aveva accettato che la vedova dell'assassino servisse alla sua tavola. Adesso quel pezzente del carbonaio aveva una scusa per accompagnarli nel loro viaggio. "E poi anch'io voglio aiutare la mia gente".

Allo sguardo adirato di Jimeno, aggiunse che il bargello non poteva impedirgli di andare a trovare sua madre né di aiutare i suoi compaesani.

No di certo, se il bargello era quel brav'uomo che al mattino, alla taverna, aveva detto di essere.

Ramiro mise mano con impeto all'impugnatura della spada ma suo padre lo fermò.

"Non vale la pena di discutere con lui" disse con disprezzo.

Il Nero parve soddisfatto del suo piccolo trionfo e si sistemò meglio sulla parte posteriore del carretto.

Senza ulteriori perdite di tempo, partirono. Quelli che rimasero augurarono loro buon viaggio.

Saremo a Yéquera prima che il sole tramonti. Non capisco il motivo di tutta questa preoccupazione.

Facevano strada alcuni abitanti del villaggio che procedevano a piedi. Il bargello e suo figlio seguivano il carretto. Jimena cavalcava Roccia

accanto a loro. Soffiava nella loro direzione un forte vento che sollevava molta polvere; Jimeno era spesso costretto a chiudere gli occhi con forza, e li sentiva umidi. Ogni volta che li apriva, Jimeno vedeva il carbonaio seduto nella parte posteriore del carretto che canticchiava qualcosa di inintelligibile. Sembrava felice.

A quella vista Jimeno stava perdendo la calma.

Vedeva Sancho viaggiare come un re. Godersi un viaggio che non gli costava il minimo sforzo. Jimeno sapeva che era un uomo indebolito dalla fame, e ammetteva che aveva una grande volontà di vivere e grande abilità nell'affrontare le avversità della vita. Ma la cosa non sarebbe durata a lungo.

Non appena si fosse insediato il nuovo signore, il vecchio don Yéquera non aveva più molto da vivere, avrebbe convinto il nuovo arrivato ad esiliare Sancho. Quando fosse andato via non sarebbe più stato una vergogna per il villaggio. Non c'era posto per i ladri nel paese di Jimeno.

Tutti sappiamo che è un ladro, le piccole cose non spariscono da sole e anche se muore di fame non si decide mai a morire. Bisogna scacciarlo appena ce ne sarà l'occasione, decise. Ma la cosa migliore sarebbe che morisse una buona volta. Così non avrei problemi con la gente del villaggio. Me l'ha detto Bermudo che in paese si mormora che abbiamo rubato le sue terre. Non bisogna continuare a buttare legna sul fuoco.

Quello che si prospettava era un inverno di carestia, e nessuno pensava che il Nero potesse superarlo. Non era malato, ma presto lo sarebbe stato.

Chiunque si ammala se non mangia abbastanza, e Jimeno sperava che il carbonaio non fosse un'eccezione.

"Perché sei venuta, zia?" chiese Ramiro.

La domanda di suo figlio riscosse Jimeno dai suoi pensieri.

"Per assicurarmi che facciate le cose come si deve" rispose Jimena.

"La guerra non è roba da donne" precisò Jimeno.

Sua sorella alzò un sopracciglio.

"Chi ha parlato di guerra? Vedi perché non si può lasciarvi soli? Stamane parlavi di una banda di briganti e al pomeriggio li hai già trasformati in un esercito" argomentò con un grande sorriso. "Vista la situazione, è meglio che qualcuno vi tenga d'occhio".

"Pochi o tanti, quando gli uomini combattono è sempre come se fossero in guerra. Non è roba da donne, ma da uomini. Da guerrieri. La spada vuole affondare nella carne. Ci sono sempre dei morti e il sangue inonda il terreno" raccontò Jimeno descrivendo immaginari colpi di spada. "E quelli che non hanno avuto il buonsenso di prepararsi sono i primi a cadere sulla fredda terra. Sarà meglio per voi che, quando sarà tutto finito, siamo noi i vincitori".

Una promessa funesta si nascondeva nel modo di parlare del bargello, e il gruppo tacque.

Uomini e cavalli scendevano lungo il sentiero che attraversava campi e macchie di boscaglia. Le montagne così generose di selvaggina quando la mira era favorevole sembravano inquietarsi al passaggio del vento tra gli alberi, e proprio tra quelle montagne gli albari potevano aver trovato rifugio, forse intenti ad osservare la piccola comitiva che viaggiava verso Yéquera.

Jimeno temeva la possibilità di un'imboscata, ma il terreno era troppo aperto perché potessero prenderli alla sprovvista.

"Anche noi possiamo aiutare" dichiarò Jimena interrompendo le elucubrazioni del bargello. "Come fecero le donne di Jaca".

"Bah!"

Dietro una curva apparve il castello di Yéquera. Il colore sabbioso delle pietre di cui erano fatti i muri spiccava sul verde umido dei terreni circostanti. Sembrava ancora più alto di quanto fosse in realtà perché era costruito sopra una collina.

Una costruzione solida, malgrado sia sorvegliata da poche guardie.

"Che cos'è questa storia delle donne di Jaca?" Ramiro era curioso.

Jimeno smise di rimuginare e si girò verso suo figlio, infastidito.

"Una leggenda. Tre o quattro secoli fa quelle donne lasciarono la loro città per combattere contro i maomettani".

Cavalcavano a passo lento, a un ritmo che i loro compagni che viaggiavano a piedi potessero seguire. Ma Jimeno affrettò un po' il passo e superarono il carretto.

"E com'è andata?" ripeté Ramiro.

"Io non c'ero" sbuffò Jimeno.

Jimena si chinò verso suo nipote.

"Non è una storia che a tuo padre piaccia particolarmente..".

"...Leggenda" la corresse il bargello.

A quel punto Jimena si staccò da loro rallentando il ritmo, costringendo suo fratello e suo nipote a fare la stessa cosa. Poco dopo il carretto li superò di nuovo.

"Leggenda o storia" continuò Jimena, "non è qualcosa che un uomo come Jimeno, prode bargello, abbia piacere di sentire. In realtà" aggiunse alzando la voce "è una bella storia".

Jimena si schiarì la voce. Con forza. I vicini si strinsero intorno a Roccia per proteggersi dal freddo e aguzzarono l'orecchio per ascoltare.

"Il Regno di Aragona, prima di essere Regno fu una Contea. Il suo fondatore fu García Íñiguez, il primo re di Sobrarbe, conquistatore di Pamplona e Aínsa. Questo re era stato nominato da un gruppo di suoi seguaci cristiani che avevano fatto voto di recuperare le terre che i saraceni avevano strappato ai loro antenati. Sostenuto da quelle fedeli truppe marciò verso le terre dell'ovest fino a raggiungere Álava. Jaca, benché vicina ai confini di questo nuovo regno, era ancora sotto il dominio dei mori.

Tutto ciò era motivo di tristezza per i buoni cristiani, e un capitano di nome

Aznar decise di riconquistare la città in nome del suo re. Era una scommessa audace, perché la città di Jaca era una fortezza inespugnabile.

Tuttavia, le vittorie di García Íñiguez avevano fatto una strage tra le fila dei saraceni e quelli di Jaca, che non dovevano essere molto perspicaci, lasciarono che i loro uomini migliori partissero per la guerra contro il re di Sobrarbe. Bella trovata, non credete? Informato di questo fatto, Aznar mosse contro la città e riuscì a conquistarla dopo una dura lotta contro i suoi difensori. Riempì le sue strade di cristiani buoni e leali con le loro famiglie, diede loro il permesso di coltivare le terre limitrofe, costruì chiese dove prima erano i templi saraceni e riparò le mura. Correva l'anno 759.

García Íñiguez ricompensò Aznar nominandolo governatore della nuova e magnifica città di Jaca.

L'anno seguente, i mori che avevano lasciato Jaca per andare a combattere contro García Íñiguez fecero ritorno, insieme ad altri ottantamila guerrieri. Quell'enorme esercito era guidato da quattro dei più fieri condottieri che mai abbiano fatto parte dell'esercito saraceno. Quella massa sterminata di soldati si avvicinava a Jaca con l'intenzione di riconquistarla e di massacrare i suoi abitanti. La situazione era disperata e s'imponeva un atto di estremo coraggio. Non volendo che la sua città e i suoi abitanti subissero alcun danno, il governatore Aznar creò un esercito formato da tutti gli uomini di Jaca e andò incontro al nemico.

La battaglia fu dura e cruenta; i difensori erano in inferiorità numerica rispetto ai saraceni e la disfatta sembrava inevitabile. Avendo perso molti dei suoi uomini, Aznar si raccomandò alla Madonna. E Lei ascoltò le sue preghiere. Ben presto un nuovo contingente di truppe comparve sul campo di battaglia. Erano abbigliati di un bianco candido ed erano avvolti da un'aura degna del Paradiso. Venivano da Jaca. "Che rinforzi possono averci mandato da Jaca?" si stupì Aznar. "Non è rimasto neanche un uomo, laggiù". Il governatore aveva ragione. Non c'era più neanche un uomo, in città.

Le donne di Jaca, mandate dalla Vergine Maria, si scagliarono sui mori con furia e senza pietà. Uccisero moltissimi nemici al primo attacco e i loro abiti bianchi che non si macchiavano del sangue degli infedeli sparsero il panico

tra i sopravvissuti. Ben presto tutti i nemici scagliarono a terra le loro armi e fuggirono dal campo di battaglia, lasciando sul terreno i cadaveri dei quattro condottieri. I cristiani tagliarono loro le teste e le inchiodarono alle porte di Jaca. Da allora rappresentano lo scudo della città".

Al termine del racconto, gli abitanti del villaggio si scambiarono le loro impressioni. Ad alcuni sembrava che fosse tutta un'invenzione. Altri giuravano che era tutto vero. Quasi tutti sostenevano che fosse una bella storia per ammazzare il tempo in un viaggio come quello. Nel tempo che Jimena aveva impiegato a raccontarla erano quasi arrivati a Yéquera.

"Credo che sia proprio una bella storia" affermò Ramiro.

Jimena sorrise a suo nipote.

"Me l'ha raccontata tuo zio Guillén. Lui la racconta meglio di me, questo è certo" affermò mentre scendeva dalla sua cavalcatura. "Avrà anche la pelle da pastore ma è nato bardo".

Anche Jimeno e Ramiro smontarono da cavallo e continuarono a piedi. Il villaggio era ormai alle loro spalle e Yéquera era a trecento varas 1, ma la notte era già calata ed ebbero bisogno di un po' di luce per illuminare l'ultimo tratto di cammino. Jimeno tremò di nuovo dal freddo. L'ambiente si stava raffreddando rapidamente e il vento soffiava.

Una bella cena accanto al fuoco è ciò di cui abbiamo bisogno. E non di sciocche storielle.

Il castello diventava sempre più grande man mano che si avvicinavano.

Ramiro continuava a fare domande a sua zia a proposito di quella storia, visibilmente interessato. Il bargello guardò il suo ragazzo.

"È solo una leggenda, figliolo. E ci dà un insegnamento" spiegò. "E

1 La vara è un’unità di misura della lunghezza utilizzata nella Penisola Iberica e nelle zone di influenza ispano-lusitana, e corrispondeva a tre piedi o pies. La vara era leggermente diversa da regione a regione, ma la più diffusa era la vara castigliana o di Burgos (0,835905 metri) equivalente a tre pies castigliani (0,278635 m.)

l'insegnamento è che, se combatti bene, non dovrai mai subire l'onta di essere salvato dalle donne".

Capitolo II: LA FANTESCA

Il cuore del castello di Yéquera era un grande salone al quale si accedeva attraverso uno stretto patio. Era protetto da una solida muraglia di pietra costruita su un rilievo al centro di una pianura circondata di montagne. Un minuscolo cortiletto ne soffocava ancora di più l'interno. La Torre Maggiore, dove si trovavano gli appartamenti di don Yéquera, era rivolta a ovest; mentre la Torre Minore, dove si trovavano la dispensa e l'armeria, guardava a est.

In questa seconda costruzione Marcela, l'anziana fantesca, stava scegliendo le mele migliori per preparare la torta che le due guardie della fortezza avrebbero mangiato la mattina dopo, al sorgere del sole. Le sue ossa erano invecchiate più in fretta della sua mente e non riuscire a portare a termine tutte le incombenze che si era prefissata per la giornata era per lei fonte di grande frustrazione. Le sue callose mani da serva reggevano il cesto della frutta come meglio potevano.

Udì gli zoccoli dei cavalli ancor prima di vederli. Il suono metallico dei ferri contro la pietra si propagava con facilità, in una notte ventosa come quella.

Con il cuore in gola, Marcela si affacciò alla stretta finestra della dispensa e scrutò all'esterno. Le prime ombre della sera erano ormai scese sul castello di Yéquera avvolgendolo nell'oscurità, ma riusciva comunque a distinguere le sagome di un gran numero di sconosciuti che si avvicinavano, protetti dalle tenebre.

"Gli albari" sussurrò. Da quando si era diffusa la notizia che il bargello aveva ucciso uno di quei mostri, e quelle erano notizie che volavano veloci come un incendio d'estate, la donna aveva la sensazione che, se avesse abbandonato le solide mura della fortezza, un gruppo di uomini armati avrebbe potuto sorprenderla e sgozzarla senza esitare. E così, scorgendo quelle ombre che si avvicinavano le parve di vedere tutti gli abitanti del castello passati a fil di spada. Lasciò cadere il cesto pieno di mele e uscì nel cortile: "Ci attaccano, ci attaccano!"

La porta della latrina si aprì un attimo dopo e Fidel ne uscì sistemandosi le braghe.

"Cosa stai dicendo, donna?" esordì mentre si ricomponeva, cercando di recuperare la dignità.

"Ci attaccano!" ripeté la serva, prendendolo per un braccio. "Arrivano dalla parte del paese!"

La guardia mise la mano sul manico del suo martello e salì i gradini della Torre Minore due per volta. La sua grossa pancia lo accompagnò dondolando su e giù. Marcela lo seguì su per le scale più in fretta che poté, e al suo arrivo lo vide affacciato alla feritoia.

"Arriva gente" disse. Questo lo so, pensò Marcela , ma cosa aspetta ad attaccarli? "Non mi sembrano banditi. Sembra più gente del villaggio"

aggiunse.

Fidel si fece da parte in modo che la fantesca potesse dare un'occhiata.

Se quelle ombre avessero avuto intenzione di attaccare il castello, una cosa era certa: se la stavano prendendo con molta calma. Conducevano i cavalli tenendoli per la cavezza e camminavano tranquilli. C'era anche un carretto e sulla parte posteriore erano seduti alcuni uomini. All'orecchio di Marcela arrivarono delle voci e qualche risata. Adesso non le sembravano più banditi.

"Maledizione, donna" gridò Fidel, "sono due giorni che non riesco ad andare di corpo, e quando finalmente il mio culo decide di mettersi al lavoro ti metti a strillare" la accusò puntando il dito. "Questa volta le mie braghe saranno più sporche del solito".

Per la verità sono sempre piene di macchie, vecchio maiale, pensò osservando il corpo gonfio di quello che era stato un guerriero dal fisico asciutto.

"Mi dispiace, con quella faccenda degli albari e delle loro facce bianche…"

si scusò la donna, cercando di calmare gli animi. Eppure, un attimo dopo si rese conto che era stata lei a dare l'allarme. "Un momento! Non eri tu di

guardia, stanotte?"

L'omone grugnì qualcosa di incomprensibile.

"Infatti ero proprio di guardia!" si schermì lui dopo, scendendo le scale.

"Adesso non posso andare un attimo alla latrina?"

"No, non puoi se sei di guardia! Basterebbe un momento di disattenzione e potremmo trovarci con un centinaio di persone intorno al castello".

Fidel ritornò verso il cortile e si avvicinò al portone della fortezza per accendere una delle torce. La fiamma illuminò il viso della guardia, segnato dal tempo.

Tre colpi avvertirono i due che la gente era già davanti all'entrata. Fidel stava trafficando con la trave che teneva chiuso il portone mentre Marcela si

avvicinava

alla

finestrella

che

dava

all'esterno.

Riconobbe

immediatamente l'uomo dall'altra parte. Jimeno mostrò i denti in quello che voleva essere un sorriso.

"Buonasera, Marcela. So che l'ora è tarda, la nostra intenzione era quella di arrivare prima del tramonto ma le cattive condizioni del sentiero ce l'hanno impedito. Sua signoria è ancora sveglio?”

La serva rispose affermativamente alla domanda del bargello e si fece di lato, in modo che Fidel potesse aprire la porta. Uno alla volta, Jimeno e i suoi accompagnatori passarono all’interno. Erano coperti di polvere che avevano raccolto lungo la strada e i loro volti tradivano un misto di freddo e di stanchezza.

"Ah, Jimeno!" esclamò Fidel tendendo la mano al bargello. "Siate il benvenuto. Dopo che Marcela vi ha confuso con gli albari, vi assicuro che è un sollievo vedere il vostro volto cupo".

"Dite davvero?" chiese Jimeno girandosi verso la donna. "In questo caso vi confermo che non sono un albare, ma uno dei loro più fieri avversari". Il bargello si compiacque del suo sorriso orgoglioso e si fece da parte per lasciar passare il carro. "Siamo affamati, e vorremmo approfittare della ben nota ospitalità di don Yéquera. Abbiamo con noi qualcosa per cena, non

temete, ma vorremmo poterci sistemare da qualche parte accanto al fuoco".

"Naturalmente" disse Marcela, "passate nel salone e sedetevi a tavola. Vi prego di essere così gentile da aggiungere un po' di legna al caminetto. Il mio signore patisce molto il freddo. Poi potrete mangiare". Esaminò la lunga fila di uomini con preoccupazione. "Stavo per preparare la cena per don Yéquera, ma a quanto pare dovrò aumentare un po' le dosi".

"Avete bisogno d'aiuto?" chiese Jimeno. Per un attimo, la fantesca pensò che il bargello si stesse mettendo a sua disposizione. "Mia sorella potrebbe darvi una mano" e indicò Jimena, che si trovava qualche passo indietro.

A Marcela non sfuggì lo sguardo breve ma intenso che la sorella scoccò al bargello.

"Un bel pezzo di carne alla brace" suggerì Fidel. "È da una settimana che non mangio carne alla brace. Con le cipolle e una bella innaffiata d'olio".

La donna non apprezzò che le venisse detto cosa doveva cucinare né quando. Ma alla vista di tutta la gente che era venuta al castello quella sera immaginò che la carne alla brace sarebbe stata molto gradita ai suoi vicini affamati. E diversamente da molti di loro, i forzieri di don Yéquera potevano permetterselo a cuor leggero.

"Vedrò cosa posso fare".

Il bargello batté le mani compiaciuto.

"Bene, allora ceneremo quanto stabilito. E un'altra cosa" aggiunse.

"Abbiamo con noi cavalli e asini, e anche un mulo. Passeranno la notte nella stalla. Chiama lo stalliere che se ne occupi".

"Vicente non è più con noi" spiegò la donna. "Il ragazzo se n'è andato a servizio da un altro padrone. Forse ad Aratorés o Borau, non ricordo. Non abbiamo ancora preso un nuovo stalliere".

Jimeno schioccò la lingua.

"Perbacco… strano che Vicente se ne sia andato, dopo tanti anni…" si

lamentò. Poi si passò una mano sul mento rasato e volse lo sguardo verso il portone del castello. "C'è qualcuno lì fuori… magari se ne intende di bestie, lasciamo che se ne occupi lui".

Marcela sapeva bene a chi si riferisse.

Maledetto.

Jimeno guardò da un'altra parte, fingendo di non accorgersi della rabbia della donna. Legò le redini a un anello e andò in sala da pranzo, seguito da quasi tutti gli altri. Compreso Fidel, che avrebbe dovuto essere di guardia.

La serva imprecò tra i denti ma lasciò perdere la guardia per occuparsi di suo figlio.

"Io comincio a sbucciare le cipolle" disse Jimena, "fate pure con vostro comodo".

La donna accettò, grata. Attraversò il portone e subito notò il vento ghiacciato. Vicino al carro vide suo figlio con la testa che spuntava timidamente tra gli animali. Gli asini che tiravano il carretto erano tranquilli, gradivano la mano magra che accarezzava le loro schiene ruvide.

Sancho il Nero alzò la testa.

"I miei rispetti, madre".

Marcela abbracciò stretto il suo unico figlio, circondandogli il collo con le braccia. Sentendo il suo corpo. Tutto ossa. Coperto di un sottile strato di cuoio che non poteva neanche chiamarsi giubba. E sotto, neanche un po'

di carne. Lo tenne abbracciato a lungo e poi appoggiò le mani su quelle di Sancho. Erano prive del minimo calore umano.

"Fa freddo fuori, figlio mio. Vieni dentro" lo pregò. Ma suo figlio non sembrava d'accordo. "A nessuno darà fastidio che tu entri".

"A Jimeno sì. E non voglio che accusino don Yéquera di tenermi sotto il suo tetto. Mi hanno detto che sta morendo, non voglio essergli d'impiccio proprio adesso. Non entrerò in casa sua".

La donna sospirò.

"Sono ormai quattro anni che sta morendo ma è ancora tra noi" disse prendendo le mani di suo figlio con fermezza. Anche se non credo che il mio povero signore resisterà ancora a lungo. "È stato Jimeno a impedirti di entrare?" Non fu necessario che Sancho confermasse. "Che sia maledetto quell'uomo e la sua anima nera. È l'unico in tutto il regno a ricordare quello che successe con tuo padre, e non c'è posto per il perdono nel suo cuore di ghiaccio".

Il Bargello

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